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Arcaismi oggi

Ti mangio il cuore
di Pippo Mezzapesa
Italia, 2022
Con: Francesco Patané (Andrea Malatesta), Elodie (Marilena Camporeale), Tommaso Ragno (Michele Malatesta), Lidia Vitale (Teresa Malatesta), Michele Placido (Vincenzo Montanari), Francesco Di Leva (Giovannangelo)
Fotografia di Michele D’Attanasio
Trailer del film

Un bianco e nero sporco e arcaico disegna un film solo apparentemente ‘di mafia’. Da una storia in parte realmente accaduta in Puglia, nel Gargano, il regista distilla infatti un significato universale, antico e terribile, quello racchiuso in queste parole di Thomas Hobbes:

Da ciò appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. […] Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria generosità. […] E, ciò che è peggio, v’è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve.
(Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Laterza 1989, pp. 101-102)

Tale è infatti la vita dei Malatesta e dei Camporeale, due famiglie di antico odio. La loro attività ufficiale è la pastorizia. Buoi, maiali, pecore sono infatti continuamente presenti nel film. Con la loro violenza, la loro innocenza, la loro sporcizia, del tutto naturali. Altrettanto naturali appaiono la violenza, l’innocenza e la sporcizia in cui vivono nel 2004 Michele Malatesta (capofamiglia e unico sopravvissuto da bambino, nel 1960, allo sterminio di tutti i suoi familiari), sua moglie, i figli. I quali non hanno mai dovuto uccidere perché, come afferma Michele rivolgendosi al primogenito Andrea, «ho riempito il camposanto per farti dormire la notte».
Nemica è la famiglia dei Camporeale, a mediare tra loro la famiglia Montanari. Accade però che Andrea Malatesta inizi una relazione con Marilena, l’assai avvenente moglie del capo dei Camporeale. Si scatena inevitabile la guerra, il cui esito sarà imprevisto ma la cui modalità è inesorabile. Prima di questa catastrofe le tre famiglie confliggono su chi debba avere l’onore di portare il fercolo della Madonna nella festa di paese. I Camporeale arrivano a offrire, per bocca di Marilena, 100.000 € e il prete risponde «La Madonna ringrazia la signora». Madonna una cui statuetta insanguinata è l’immagine con la quale il film si apre. I riti cattolici, le costumanze, le cappelle, le processioni, le feste, segnano e scandiscono i momenti chiave della vicenda. Dappertutto spira un clima di colpa e di morte.
Completamente assenti sono le forze dell’ordine, i magistrati, le istituzioni diverse dalla famiglia e dalla parrocchia cattolica. E questo conferma che il film vuole avere e ha una valenza metaforica, un significato simbolico profondamente inscritto nella storia del Meridione d’Italia, del Mediterraneo, della loro antropologia diffidente, solitaria, nemica.
Il regista si sofferma spesso sui volti e sui ritratti, quasi a voler scolpire negli sguardi la rassegnazione alla sottomissione, alla violenza e alla morte. Una narrazione mitologica, dunque, e universale. Poiché al di là delle contingenze sociologiche e della cronaca, l’inferno sono gli altri, come affermò Sartre copiando Schopenhauer: «La verità è che siamo destinati a essere miserabili, e lo siamo. Aggiungiamo che la fonte principale dei mali più seri che possono affliggere l’uomo  è l’uomo stesso […] dato che ognuno è destinato a essere il diavolo dell’altro» (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione»,1844, a cura di Giorgio Brianese, Einaudi 2013, p. 737).
Ogni antropologia positiva naufraga davanti ai sentimenti umani. La nostra specie non ne ha colpa, come non ce l’hanno buoi, maiali, pecore. O meglio, la colpa è ab origine in tutti ed è la nascita. Dietro le modalità narrative e l’espressività arcaica di Ti mangio il cuore sta questa semplice verità, antica e perenne.

 

«Nessuna empatia»

The Killer
di David Fincher
USA, 2023
Con: Michael Fassbender (killer), Charles Parnell (Hodges), Tilda Swinton (donna), Kerry O’Malley (Dolores)
Trailer del film

L’obiettivo è non esserci. Non apparire alla miriade di telecamere, microcamere, metal detector, registrazioni, controlli, che scandiscono nel XXI secolo la vita degli umani, pressoché ovunque. Lo scopo è quindi rendersi per quanto si può invisibile. Vestirsi «come un turista tedesco», che nessuno vuole avvicinare. Condurre la giornata nel modo più anonimo. Per uccidere. E poi sparire. Metodico, distante, e soprattutto interamente consapevole di che cosa sia il mondo. Tutta la prima parte del film è un’antropologia in forma di attesa. Di attesa della vittima. Che però, per un banale ostacolo di una frazione di secondo, sfugge. A quel punto le conseguenze sono fatali. E il film diventa una lunga vendetta che sembra negare uno dei presupposti fondamentali del lavoro di questo killer: «Nessuna empatia. L’empatia è debolezza. Niente di personale. I don’t give a fuck». Presupposto a sua volta fondato sull’antropologia hobbesiana enunciata all’inizio: «O uccidi o sei ucciso». Un’antropologia decisamente antirussoviana: «A chi crede nella naturale bontà degli uomini vorrei porre una sola domanda: ‘ma di preciso su che cosa ti basi nel fare questa affermazione?’».
Le città che scandiscono i cinque episodi sono alcuni dei luoghi dove agisce il killer che il capitalismo finanziario è: Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago. E infatti l’ultimo incontro avviene nella dimora, studio e santuario di un maestro della finanza, per arrivare al quale il killer ha percorso un cammino lungo, metodico, distante, consapevole. Mortale.
Come in Seven (Fincher, 1995) il disincanto è completo ma rispetto al calore e alla passione che in quel film fanno da contraltare alla logica dell’assassino, The Killer conferma in un modo geometrico e algido le parole di Thomas Hobbes sulla vita umana «solitaria, misera, ostile, brutale e breve» (Leviatano [1651], Laterza 1989, cap. XIII, p. 102), anche e specialmente a causa dell’«inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte» (Ivi, cap. XI, p. 78), nonostante l’umano cerchi di nascondere tale condizione «attraverso la finzione, la menzogna, la simulazione e le false dottrine» (Ivi, introduzione, p. 7) come quelle che pongono questo mammifero al vertice della gerarchia dei viventi e degli enti o arrivino persino a definirlo «figlio di Dio» 😳 😆.

Orge

Non dimenticare nulla è una patologia. Lo sa il Funes del racconto di Borges, lo sa bene la neurobiologia, lo sa Nietzsche con il suo folgorante «Per ogni agire ci vuole oblio» (Sull’utilità e il danno della storia per la vita, § 1, in «Opere» III/1, Adelphi1976, p. 264). Sia le vite individuali sia quelle collettive devono dimenticare per poter vivere ancora, per lasciarsi alle spalle il male. E invece l’Europa si immerge sempre più in orge della memoria, in giornate della condanna che sono anch’esse un chiaro segnale nichilistico, qualunque esperienza si ricordi e si condanni: lager, foibe, colonialismi, mafie e altro.
Una pervasiva orgia della comunicazione è in realtà comunicazione del nulla: «Gli individui avranno certo mezzi di comunicazione sempre più sofisticati. Ma non avranno più nulla da dire. Senza vita interiore non si ha più nulla da scambiare con gli altri. Si entra in un universo di zombie privi di intelligenza» (Michel Houellebecq in un’intervista, al solito preveggente, del 1996 a Immédiatement). I venticinque anni che sono trascorsi da questa dichiarazione la confermano. Nonostante i suoi chiari e fecondi vantaggi nella consultazione, nel lavoro di scrittura, nel reperimento di informazioni, Internet è anche e soprattutto un luogo di volgarità linguistiche, pensieri balbettanti, sistematica schedatura.
L’orgia da Social Network sta toccando uno dei suoi vertici nella sottomissione a poteri non soltanto autoritari ma anche del tutto incapaci e spesso maliziosi. Nella gestione politico-amministrativa-sanitaria dell’epidemia da Sars2, infatti, «i pubblici poteri hanno miseramente fallito in tutti i campi: mascherine, test, vaccini. Non c’è un solo errore che abbiano mancato!» (Alain De Benoist, Diorama Letterario, n. 360, Marzo-Aprile 2021, p. 6) e tuttavia dai Social si alzano o miopi e conformisti elogi oppure insulti pregiudiziali, in relazione al colore partitico di tali poteri, criterio che dovrebbe invece non contare nulla in un dramma come quello che stiamo vivendo.
Il dramma è anche e soprattutto l’orgia autoritaria che come un’ondata devastante sta sommergendo le società illuministe, progressiste, libere.
Tale ondata è stata ben descritta dal politologo Carlo Galli già in un intervento del 29 aprile 2020:

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«La sovranità è regolatrice, in uno spazio determinato, perché ha inizio dal “non-ordine”, perché ha davanti a sé una materia, i cittadini, omogenea e indifferenziata, infinitamente plastica, che può essere ordinata e disordinata in mille mutevoli differenze, con molteplici classificazioni, in infiniti sbarramenti e infinite aperture. Questo legare e slegare, questo “far ordine nel fare disordine”, e viceversa, è l’opera della decisione sovrana. […]

Nel lessico della bio-politica orientata verso la tanato-politica, la sovranità regna su una società incapace di sostenersi, una società malata, contagiata, priva di forma propria e soggetta all’azione politica decidente che separa i sani dai malati. Alcuni fa vivere, altri lascia morire: arbitrariamente, nel senso che le ragioni di questa decisione non esistono – la decisione in senso proprio è l’assenza di ragioni, anche se viene implementata attraverso dispositivi tecnici razionali –. Sanità e malattia sono collegate dall’eccezione, come ordine e disordine. […]

Il mondo liberale – i politici liberali –, sobriamente e prosaicamente, senza pathos e semmai con qualche lacrima sentimentale d’accompagnamento mediatico, pratica il caso d’eccezione. Nulla di sanguinoso: il cataclisma, la quasi-sospensione della costituzione, la pesante limitazione dei diritti costituzionali che stiamo vivendo – il lockdown –, sono il risultato di un’ordinanza commissariale implementata con un dpcm e legittimata da una legge ordinaria (il Codice della protezione civile) nonché da una interpretazione gerarchica dei diritti costituzionalmente riconosciuti. L’eccezione è già contenuta nella catena delle norme, con qualche forzatura ma senza che l’ordinamento sia apertamente e solennemente scardinato. L’uguaglianza davanti alla legge viene oggi utilizzata per classificare, per etichettare, per creare casi e sotto-casi, categorie e peculiarità: ammalati, portatori sani, guariti ancora infetti, critici, sub-critici, immuni – tipologie differenti che danno diritto a differenti accessi alle cure, e che generano differenti doveri di controllo e di autocontrollo –. Sempre nuovi perimetri spaziali vengono imposti: l’abitazione, il comune di residenza, i duecento metri dalla residenza, il metro e mezzo dalle altre persone; e poi i limiti regionali, e poi i confini nazionali. Su queste basi sono previsti controlli elettronici, internamenti, confinamenti, esclusioni, discriminazioni, concessioni di salvacondotti per età, per professione, per territorio. Le deroghe al blocco fisico delle persone – ai loro distanziamenti cui fanno da pendant i forzosi avvicinamenti (ricoveri) – sono legate a infiniti casi di necessità, a cause e motivazioni tanto fantasiose quanto incerte quanto arbitrariamente valutabili dai tutori dell’ordine (e dagli avvocati, che in un simile pandemonio sono perfettamente a casa propria): ne è un esempio fra l’assurdo e il grottesco la difficoltà di definire giuridicamente i “congiunti”, i “parenti”, gli “affini”, con cui ci si può incontrare, senza peraltro dar luogo ad assembramenti; o il numero massimo di quindici persone ai funerali.
La più minuziosa casistica, il massimo di ordine artificiale, imposto per decreto, si rovescia in un turbinio di disordine reale, si sfrangia in infinite fattispecie. […]

Tutto ciò non deve essere confuso con la disorganizzazione, con la disfunzionalità. Queste sono esiti delle debolezze pratiche del nostro Paese, in termini di efficienza amministrativa – debolezze moltiplicate dall’ordinamento regionale che consente disparità assai marcate –. No: il disordine, il pullulare di eccezioni, è contenuto nei dispositivi ordinativi, nelle norme stesse. […]

Per eliminare le accuse di negazionismo va detto che l’epidemia esiste, non è un effetto ottico; ciò che interessa sono gli effetti politici prodotti dalla sua gestione, dalla sua trasformazione in caso d’eccezione –. E si noti che questa trasformazione non è necessariamente dettata da volontà malevola dei governanti: piuttosto, è nel DNA della sovranità; che non sempre opera attraverso il caso d’eccezione, ma che sempre può farlo. Gli anti-sovranisti al governo non si sono accorti, o non lo vogliono ammettere, di avere attivato le logiche sovrane più radicali. […]

Ciò significa, oggi, cittadini ridotti a corpi, governati e gerarchizzati in nome della sanità, da una politica che si legittima attraverso la scienza. […]

La vita come assoluto è una vita sciolta da legami, povera, estenuata, irrelata. Quasi tutte le funzioni vitali non biologiche sono sospese, o sostituite dal virtuale, rappresentate nell’elettronica. Se la vita biologica del singolo è l’ultima istanza – analogo funzionale di Dio –, allora è autoreferenziale; è questo il motivo per cui si presta a essere virtualizzata. Il passo dal biologico all’elettronico è breve: c’è una affinità fra queste due forme di mancanza di concretezza storica e relazionale, di deficit di vita vera (il legame attraverso il virtuale non è, evidentemente, un legame ma una semplice comunicazione).
Le legittimazioni narrative, le mediazioni discorsive, a loro volta, hanno agito su due fronti, entrambi centrati sull’assioma che il summum bonum sia la nuda vita. Il primo è la paura, di cui i media si sono fatti accorti promotori – perché si depositasse nelle menti, e generasse angoscia ma non panico (che il potere politico non saprebbe fronteggiare) –; senza l’incombente presenza della paura l’infinita serie di limitazioni e vincoli non sarebbe sopportabile. Una paura che ha ulteriormente allentato il legame sociale: ognuno ha imparato a guardare con sospetto ogni altro, a temere tutti. A stigmatizzare i non-conformi, i nuovi untori (dal runner al pensionato indisciplinato), e ad assistere, in tv, alla caccia all’uomo con elicotteri e droni.
Il secondo fronte legittimante è la scienza. A differenza di quanto si crede, il mood fondamentale delle nostre società non è l’antiscientismo, che pure esiste, ma il culto della scienza come tecnica quasi magica, capace di risolvere ogni problema. Presentata dalla politica e dai media come il vero culto del vero Dio, come la via per la salvezza biologica individuale e collettiva, la scienza finora non ha saputo vincere la battaglia contro il virus – il lockdown è una dimostrazione di impotenza. […]

L’effetto dell’eccezione è, lo vediamo, una nuova normalizzazione, una nuova normalità. È rafforzato l’effetto di adesione conformistica alle pratiche e alle parole d’ordine dell’esecutivo: in tempo di crisi, non si può discutere ma si deve obbedire, remare concordi; l’imperativo della salus populi delegittima ogni dialettica – e ciò viene fatto valere per l’ambito sanitario, ma anche in relazione ai rapporti economici e finanziari con la Ue –. Un riflesso d’ordine, un effetto di neutralizzazione, che non è concordia civile né empatia sociale: è, semmai, un forzato affidarsi al potere. Passerà, quando ai cittadini verrà presentato il conto economico della pandemia; ma intanto c’è. […]

E l’effetto è che l’emergenza viene prolungata, resa permanente. Contro la volontà di vita che pervade il corpo sociale, contro il desiderio diffuso di tornare a quella che a tutti appare come la normalità pre-crisi (il fattore psicologico, qui, prevale comprensibilmente sui dati strutturali), continuamente si levano moniti di scienziati e di politici (con pochissime isolate eccezioni) che indicano il dovere di “cambiare stile di vita”, di imparare a “convivere col virus”, di “non abbassare la guardia”: la paura deve sedimentarsi nel corpo sociale, deve indurre a nuova obbedienza, a nuova introiezione di disciplina, a nuova sottomissione – in un contesto reso sempre più disordinato da sempre nuovi ordini –. La compressione dei diritti diviene così nuova normalità, legittimata dalla razionalità scientifica e da una misurata inoculazione della paura. Distanziamento personale, mascherine, impoverimento della vita sociale, tele-lavoro e tele-didattica, devono proseguire: almeno fino a che il vaccino sarà pronto (se mai lo sarà). […]

Questo non è un rovesciamento, ma un potenziamento delle logiche della politica moderna: l’eccezione celata originariamente nelle viscere del Leviatano si fa ora palese; il grande animale marino ora la esibisce, la insegue per nutrirsene. Finché c’è eccezione c’è vita: la sua. Il fine è sempre lo stesso: l’obbedienza in cambio della sicurezza; prima, della sicurezza già raggiunta, nell’ordine artificiale; oggi, della sicurezza da raggiungere, nella mobilitazione perenne. […]

Al momento, sono le esigenze della produzione (non certo i “diritti”) a fare argine al potere sovrano; esigenze che richiedono l’allentamento di alcuni dei vincoli ora vigenti. Un nuovo equilibrio fra prestazione ed eccezione si troverà, a spese dei soggetti, dei cittadini: per i quali il ritorno al lavoro sarà paradossalmente una liberazione, e l’obbedienza a obblighi sempre nuovi un giusto prezzo da pagare al combinato disposto dell’epidemia, della ricostruzione e dell’indebitamento col Mes; la libertà sarà “condizionata”, e la spontaneità una concessione. Donne e uomini saranno più sottomessi, più disciplinati davanti ai regimi di eccezione che via via normalizzeranno, in nuovi ordini sempre più bizzarri, il susseguirsi di emergenze di ogni tipo. […]

La dilatazione dell’eccezione significa quindi che tutto deve cambiare perché tutto resti com’è. Anziché essere l’irruzione del nuovo, l’eccezione è il banco di prova della resilienza del sistema – a spese delle libertà dei cittadini, a cui si chiede un’obbedienza nuova, che conferma le vecchie –. Una continuità al ribasso, quindi, in cui al capitalismo di controllo (quello dei big data, privatistico) si affianca lo Stato di sicurezza (la funzione pubblica), in una mescolanza zoppicante e aporetica, in un ordine disordinato, affollato di eccezioni, anomico.
Naturalmente, anche se la pandemia e la sua gestione hanno disvelato e accelerato processi e strutture, non è del tutto irrealistico pensare che dai molti squilibri che stanno profilandosi all’orizzonte possa emergere un imprevisto: la voglia di libertà di una società stanca di vivere dissolta, e pronta a stringere legami significativi sulla base della vita concreta e delle sue reali difficoltà, non della paura, né della nuda vita né della vita virtuale. Un evento eccezionale, e insieme una pulsione alla normalità, che, per una volta, sarebbero non una coazione a ripetere ma un soffio autentico di novità».

(Epidemia tra norma ed eccezione, in «Diario della crisi – Istituto Italiano per gli Studi Filosofici» – Pdf integrale dell’articolo)
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Un’analisi, questa di Carlo Galli, esemplare, densa di intelligenza, disincanto e apertura in ogni caso a un futuro diverso, nonostante l’orgia decisionista e sovranista del presente, nonostante lo stato d’eccezione.
Gli strumenti attuali di sorveglianza e controllo, i pervasivi dispositivi foucaultiani che ci attraversano, sono di una efficacia che i vecchi totalitarismi del Novecento sognavano senza poterla realizzare. Alla loro base, alla base della nuda vita, del controllo e dell’eccezione, c’è l’impulso a far vincere l’Identità rispetto alla Differenza, l’Uno rispetto al molteplice, a far vincere il Leviatano al quale accenna Galli.
Un’Identità fondata sul Terrore e che «porterebbe gli uomini a sacrificare la loro libertà al Leviatano. Con la pandemia, la fuga assoluta davanti alla morte conduce allo stesso risultato, con il rischio di avere solo una vita mutilata, posta sotto una perpetua sorveglianza. La dittatura sanitaria dello Stato materno e terapeutico, quello che ci dice come bisogna soffiarsi il naso ed abbracciarsi, è il nuovo Leviatano. Si appoggia a ‘la scienza’ e ci propone la sua tecnologia. Anch’esso è un Titano. […] Per il momento, il mondo titanico estende ovunque le sue metastasi. Il caos sale» (de Benoist, DL 360, p. 4).

[Una versione leggermente ridotta dell’articolo è uscita su Corpi & politica e su girodivite.it]

 

Schmitt

Carl Schmitt
Terra e mare
Una riflessione sulla storia del mondo

(Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, 1942)
Traduzione di Giovanni Gurisatti
Con un saggio di Franco Volpi
Adelphi, 2002
Pagine 149

Uno dei fatti che meglio esprimono la presunzione della specie umana consiste, secondo Nietzsche, nel chiamare «la sua storia, storia del mondo» (Umano, troppo umano II, af. 12). I pochi ma potenti tratti con i quali Carl Schmitt delinea la storia dell’umanità si sottraggono, almeno in parte, a questo rimprovero. Essi, infatti, coniugano la nostra storia con i grandi elementi della terra, dell’aria, dell’acqua, del fuoco.
L’uomo è un animale terrestre che chiama Terra un pianeta composto per tre quarti dall’elemento liquido e «la storia del mondo è una storia di conquiste di terra» (pag. 76). E tuttavia il mare ha rappresentato per numerose popolazioni ed epoche la dimensione decisiva dell’esistenza, tanto che la storia del mondo può essere definita anche come «la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime» (18). L’animale più grande -la balena- e quello più furbo –l’uomo- hanno avuto nel mare lo spazio di uno scontro millenario. Sono state le balene e i balenieri ad aprire le rotte e le vie d’acqua più sconosciute e ardite, fino a quando tra di loro il rapporto è stato paritario, fino a che non sono apparsi i «macellai di balene meccanizzati» (35).

A partire dalle civiltà del Mediterraneo orientale sino a Lepanto (1571), le battaglie navali non furono altro che scontri di fanteria trasferiti sulle tolde delle navi, ma già dalla sconfitta della Armada spagnola nella Manica (1588), con le bocche di fuoco dei cannoni e con i nuovi agili velieri inventati dagli olandesi, lo scontro di mare assunse le sue caratteristiche specifiche, che contribuirono a trasformare gli inglesi, un popolo di allevatori di pecore, nei dominatori del globo.
I pirati, i corsari, gli schiumatori del mare furono tra i protagonisti di una trasformazione radicale con la quale l’Inghilterra trasferì completamente la propria esistenza dall’elemento terrestre a quello marittimo. Un mutamento che fu contemporaneo –e strettamente intrecciato- non solo alle grandi scoperte geografiche, non soltanto alle nuove tecnologie belliche e navali, non solo allo scontro fra cattolicesimo e protestantesimo ma anche alla lotta che oppose il calvinismo “marittimo” al gesuitismo “terrestre”. Integrando e rendendo così più plausibile il quadro di Max Weber, Schmitt scrive che «se invece ci volgiamo al mare, vediamo immediatamente la coincidenza o, se così posso dire, la fratellanza che, nella storia del mondo, unisce il calvinismo politico alle nascenti energie marittime europee» (86-87).
Con la comparsa del grande Impero inglese sull’acqua, muta radicalmente il modo di combattersi degli uomini tra di loro. Nella guerra terrestre a fronteggiarsi in campo aperto sono quasi sempre soltanto le truppe, i soldati, gli armigeri. La guerra marittima, invece, tende a colpire le risorse dell’avversario, a strozzare la sua economia, a cannoneggiare le sue coste e le città, a coinvolgere l’intera popolazione diventata tutta e inevitabilmente «nemica».

È la guerra totale, inventata dalla potenza marittima e calvinista inglese. Il suo dominio durò per più di due secoli sino a quando, trasformandosi da “pesce” in “macchina”, con la Rivoluzione industriale la Gran Bretagna sembrò attingere a una potenza incontrastata che invece di fatto rappresentò l’inizio della sua crisi. Con la meccanizzazione vennero meno lo slancio iniziale e il dominio sulle tecniche della navigazione a vela; da allora un’altra e più potente “isola” calvinista si sostituì progressivamente all’antica madrepatria. Agli inizi del Novecento, l’ammiraglio americano Mahan propose infatti la riunificazione fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, allo scopo di garantire la perpetuazione del dominio anglo-americano sul mondo.
La potenza secolare dell’elemento marino –il Leviatano- ha contribuito allo sviluppo dell’aviazione e del fuoco che distrugge dall’alto. I due nuovi elementi –l’aria e il fuoco- delineano un’ulteriore trasformazione tesa alla sconfitta e al controllo dell’antico elemento terrestre. Il grande uccello mitologico, il Grifo Ziz, combatte per la sottomissione della Terra Behemoth. Nella prima metà del Novecento nacque così, attraverso scontri e distruzioni immani, un nuovo Nomos der Erde, Nomos della Terra, quello che dal 1945 al tempo presente ha controllato il pianeta, sconfiggendo l’Europa continentale, lanciando un fuoco immane e distruttore sul Giappone, imponendo all’intera umanità la globalizzazione dei suoi modelli di vita e della sua economia. Non sono pochi i segnali che indicano l’esaurirsi anche di questo Nomos, tanto che possiamo forse fare nostre le fiduciose affermazioni conclusive del libro: «Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate. Anche qui sono e qui regnano Dei / e grande è la misura» (110; i versi sono tratti da Hölderlin, Il viaggiatore, 17-18].

Al di là della geopolitica, oltre la grandiosità del quadro cosmogonico nel quale prendono luce gli avvenimenti umani, uno dei meriti di questo splendido libro consiste nel dimostrare che prima c’è lo spazio interiore, la cultura dei popoli, il potere e i suoi obiettivi, prima c’è il mondo e solo dopo gli spazi geografici: «La scoperta di nuovi continenti e la circumnavigazione della terra furono solo manifestazioni e conseguenze di metamorfosi più profonde. Soltanto per questo lo sbarco su un’isola sconosciuta poteva condurre a un’intera epoca di scoperte» (69).
La Terra, elemento spesso negletto, è stata al centro della riflessione di Heidegger, di Jünger, di Schmitt. Quest’ultimo sembra ripercorrere la gerarchia platonica della conoscenza, andando al di là delle impressioni soggettive, dei fatti immediati, della deduzione razionale e attingendo in modo intuitivo le strutture profonde del tempo e della storia. La frase chiave del libro mi sembra quella che individua nella salvezza «alla fin fine, a dispetto di qualsiasi idea razionale, il senso decisivo di ogni storia del mondo» (85).
La forza del pensiero di Schmitt è la potenza della Gnosi, quella capacità di andare oltre l’ovvio che permetteva al “giurista del Terzo Reich” di tenere alla parete il ritratto dell’ebreo Disraeli e di ammirarne con timore la dimensione iniziatica che gli fece definire il cristianesimo una forma di ebraismo per il popolo. Anche se Schmitt respingeva sdegnato questa affermazione, essa è nondimeno vera e conferma la vittoria, nonostante tutto, di Behemoth sul Leviatano, del primato del popolo del deserto sugli spazi del mondo.

«Tu sei maledetta!»

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Quando il tiro si alza / When the barrage lifts
Il sangue d’Europa: 1914-1918
Scritto, diretto e interpretato da Guido Ceronetti e dagli attori del Teatro dei Sensibili
Con: Luca Mauceri (Baruk), Eléni Molos (Dianira), Valeria Sacco (Egeria), Filippo Usellini (Nicolas)
e con la partecipazione di Elisa Bartoli (Durga, la ballerina ignota)
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
3-5 ottobre 2014

Prima che il sipario si apra campeggia La Guerre di Henri Rousseau (1893). Poi sta e rimane sullo sfondo  una scritta: «1914-1918. La storia dal volto inumano». È vero, certo. Quell’evento terrificante, la cui responsabilità a Versailles venne attribuita alla sola Germania, ha avuto una molteplicità di cause complesse e intricate tra di loro. In ogni caso, ha rappresentato l’avvenimento sinora più importante della contemporaneità. La Prima Guerra Mondiale pose fine non soltanto a un periodo di 44 anni di pace in Europa, non soltanto alla lievità della Belle Époque e alla fiducia del positivismo nelle sorti umane. Pose fine soprattutto all’Europa, per mezzo di quel «suicidio obbligatorio di massa» (così lo definì Guido Piovene, qui ricordato) nel quale vennero massacrate dieci milioni di persone e altre venti furono ferite, storpiate, infollite. Fu il suicidio dell’Europa a favore dell’oriente russo e dell’occidente americano. Ne seguirono la rivoluzione bolscevica, il fascismo, il nazionalsocialismo, la Seconda Guerra Mondiale, Hiroshima e Nagasaki, la Guerra Fredda, il dominio attuale della finanza criminale. Tutto partì da lì, da quello sparo di Sarajevo che in realtà era stato preparato da lungi e nel quale si condensò qualcosa che va oltre le volontà le strutture le cause.
È per questo che quella scritta non è del tutto corretta. Tra il 1914 e il 1918 la storia svelò anche uno dei volti umani più profondi: quello della ferocia. Svelò il volto del Leviatano, di una struttura costruita per evitare la distruzione e che invece della distruzione diventa la causa determinante. Ferocia che arrivò al suo culmine negli Stati Maggiori di tutti gli eserciti, in quell’atteggiamento folle, incompetente e fanatico che accomunò Cadorna ai suoi colleghi di tutti i fronti e che viene descritto in modo perfetto da Kubrick in Orizzonti di gloria.
Guido Ceronetti ha scritto e costruito un cammino lucido, poetico e doloroso dentro il massacro. Lo ha fatto dando voce a testimoni e narratori -Apollinaire, Bloy, Jünger, Döblin, Remarque, Zweig, Lavedan, Ungaretti, Céline- e soprattutto dando carne e movimento ai suoi attori, tutti giovani, intensi, tragici. Il cammino si conclude con un soldato «crocifisso al legno della vostra demenza sadica».
A distanza di un secolo dall’inizio della fine, su quella Guerra sono state pronunciate infinite parole ma essa rimane qualcosa che va oltre le parole.

«Si dimostra che in una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa»

Questo è il lungo titolo del XX e ultimo capitolo del Trattato teologico-politico, nel quale si afferma -tra l’altro- che «se, dunque, nessuno può rinunciare alla propria libertà di giudicare e di pensare quello che vuole, ma ciascuno è, per diritto imprescrittibile della natura, padrone dei suoi pensieri, ne segue che in un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse, anzi contrarie opinioni l’obbligo di parlare esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere.
[…]
È dunque soltanto al diritto di agire di proprio arbitrio, che ciascuno rinunciò, e non a quello di ragionare e giudicare.
[…]
Ma supponiamo che questa libertà si possa reprimere e che gli uomini si possano dominare al punto che non osino di proferir parola che non sia conforme alle prescrizioni della suprema potestà. Con ciò, però, questa non potrà far sì che essi non pensino se non ciò che essa vuole: onde seguirebbe necessariamente che gli uomini continuerebbero a pensare una cosa e a dirne un’altra.
[…]
Tali essendo dunque le condizioni della natura umana, ne segue che le leggi che si fanno intorno alle opinioni non riguardano i malvagi, ma gli uomini liberi; e sono fatte, non per frenare i malviventi, ma piuttosto  per irritare gli onesti, e non possono essere mantenute se non con grave pericolo per lo Stato. Si aggiunga che tali leggi sono perfettamente inutili» (Trad. di A. Droetto ed E. Giancotti Boscherini, Einaudi 1980, pp. 480-486).
In queste parole pensate nel XVII secolo, pubblicate nel 1670, vi è non soltanto una grande saggezza ma anche una profonda conoscenza della storia e della passioni umane e la prefigurazione del politicamente corretto con le sue grottesche, oltre che nefaste, conseguenze.
Quando si perseguono penalmente le opinioni -per quanto possano sembrare ed essere aberranti- vuol dire che una società ignora la libertà o della libertà è stanca. Vuol dire che la potenza maligna del Leviatano si è affermata ancora una volta. L’idea che l’universo fosse infinito era assolutamente aberrante e pericolosissima per i cristiani che credevano alla unicità della incarnazione di Dio sulla terra. Vuol dire dunque che Giordano Bruno fu bruciato vivo per buone ragioni, per garantire la salvezza eterna a tanti esseri umani che dalle sue idee avrebbero potuto essere condotti verso il Male. Oggi viene ritenuta perseguibile con il carcere una certa opinione. E domani? Quali altre? Dato il via a questa sfera inquisitoria, il piano inclinato può condurre il potere davvero lontano. Spinoza, un ebreo, lo sapeva bene. Per chi volesse verificare che le parole del filosofo siano proprio queste, riporto i brani anche nel suo bel latino secentesco:

Ostenditur, in Libera Republica unicuique et sentire, quae velit, et quae sentiat, dicere licere.

Si itaque nemo libertate sua judicandi, et sentiendi, quae vult, cedere potest, sed unusquisque maximo naturae jure dominus suarum cogitationum est, sequitur, in republica nunquam, nisi admodum infoelici successu tentari posse, ut homines, quamvis diversa, et contraria sentientes, nihil tamen nisi ex praescripto summarum potestatum loquantur;
Jure igitur agendi ex proprio decreto unusquisque tantum cessit, non autem ratiocinandi, et judicandi;
At ponatur, hanc libertatem opprimi, et homines ita retineri posse, ut nihil mutire audeant, nisi ex praescripto summarum potestatum; hoc profecto nunquam fiet, ut nihil etiam, nisi quid ipsae velint, cogitent: atque adeo necessario sequeretur, ut homines quotidie aliud sentirent, aliud loquerentur.
Cum itaque humanam naturam sic comparatam esse constet, sequitur, leges, quae de opinionibus conduntur, non scelestos, sed ingenuos respicere, nec ad malignos coërcendum, sed potius ad honestos irritandum condi, nec sine magno imperii periculo defendi posse. Adde, quod tales leges inutiles omnino sunt.

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