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Medicina

Dopo il primo incontro -dedicato a Viaggio al termine della notte Morte a credito– continueremo il nostro percorso dentro l’opera di Louis-Ferdinand Céline occupandoci della tesi di laurea in storia della medicina, che discusse nel 1924.
Il ciclo è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict.
L’appuntamento è per il 12 marzo 2021 alle 15,30 nella sede del Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania. L’evento è purtroppo (ma inevitabilmente) a numero chiuso. Le richieste di partecipazione vanno inviate all’indirizzo dell’Associazione: assocstudfilunict@gmail.com.

«Niente è gratuito in questo basso mondo. Tutto si espia, il bene, come il male, si paga prima o poi. Il bene è molto più caro, per forza. […]
Semmelweis attingeva la sua esistenza a fonti troppo generose per essere ben compreso dagli altri uomini. Egli era di quelli, troppo rari, che possono amare la vita in ciò che essa ha di più semplice e di più bello: vivere. L’amò oltre il ragionevole. Nella Storia  la vita non è che un’ebrezza, la Verità è la Morte»

(Il Dottor Semmelweis, Adelphi 2002, pp. 12 e 28).

Labirinti

Mescolanze di sensi tra le parole filosofiche e quelle letterarie
il manifesto
26 febbraio 2021
pagina 11

Filosofia e letteratura costituiscono modi tra i più profondi di indagare il nostro abitare il mondo, mantenerlo pulito, renderlo forte rispetto alle intemperie che inevitabilmente si infrangono sul vivere.
Lo spaesamento è una delle cifre della letteratura contemporanea, un sentimento verso la vita fatto di timore ma anche di venerazione, di potenza e di bellezza, di una misura che ci oltrepassa ma proprio per questo ci avvolge e ci affascina. È anche questa tonalità dell’essere e del vivere che la più radicale e illuminante filosofia del Novecento ha cercato di pensare: «la tematizzazione della strutturale estraneità dell’uomo contemporaneo al mondo che lo circonda, elaborata peculiarmente dal pensiero esistenziale, la Heimatlosigkeit, l’‘assenza di patria’: venuta meno la stabile terraferma dell’ontologia tradizionale, non resterebbero che il riconoscimento dello ‘spaesamento’ come modo originario e fondamentale di ‘essere-nel-mondo’» (Pio Colonnello, Sinestesie e anamorfofismi. Tra filosofia e letteratura, Mimesis 2021, p. 70).

«È il nascere che non ci voleva»

Prosegue anche quest’anno l’iniziativa dell’Associazione Studenti di Filosofia Unict dedicata a Filosofia e letteratura. Nei precedenti cicli ci siamo occupati di Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020, un solo incontro quasi…clandestino).
Quest’anno parleremo di Louis-Ferdinand Céline. Inizieremo venerdì 12 febbraio 2021 alle 15,30 nella splendida sede del Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania. Converseremo sui primi due romanzi di Céline: Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932) e Morte a credito (Mort à crédit, 1936).
Non la notte che ci avvolge, non il buio che percorriamo ma la notte che siamo. La potenza della solitudine. L’invincibile muraglia del destino, ai cui piedi si ricade «ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido». Lo studio, l’istruzione che fa l’orgoglio di un uomo e attraverso la quale «bisogna proprio passare per entrare nel cuore della vita; prima, ci si gira soltanto intorno», tanto che non basta essere ostinati e carogne se non si aggiunge la cognizione, la quale soltanto consente di andare più lontano degli altri. Qualunque cosa accada, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento: «La verità di questo mondo è la morte».
Tutto questo e molto altro è il Voyage. Una narrazione che va da Parigi al Congo, dal fronte franco-germanico a Detroit, «dalla vita alla morte». Spinta da una inesausta «voglia di saperne sempre di più», intessuta e materiata di un linguaggio senza modelli, insieme gergale ed elegante, immediato e raffinato, sensuale e plebeo senza mai essere volgare.
Una volta entrati nel puro ritmo che è la scrittura di Céline, a poco a poco si penetra –fino a sprofondare- nell’epica allucinazione che è la vita, nel delirio del grumo di tempo che si è, nella comprensione esaltata e senza speranza dell’esistere. Mort à crédit prosegue il viaggio dentro la famiglia, le istituzioni educative, personaggi sognatori e imbroglioni, eloquenti e spregevoli, infimi e grandi.
Tenteremo un confronto tra Céline e Proust e cercheremo di comprendere il nesso tra la morte, l’infinito, il tempo. «Ah, è terribile però…hai voglia d’esser giovane quando t’accorgi per la prima volta…come la gente la si perda per via…compagni che non rivedremo più…mai più…che son scomparsi come tanti sogni…che tutto è finito…svanito…che anche noi ci perderemo così…un giorno ancor molto lontano…ma ineluttabilmente…nello spietato torrente delle cose, delle persone…dei giorni…delle forme che passano…che non si fermano mai…».

Espressionismo manzoniano

I Promessi Sposi
di Mario Bonnard
Italia, 1922
Con: Domenico Serra (Renzo), Emilia Vidali (Lucia), Umberto Scalpellini (Don Abbondio), Mario Parpagnoli (Don Rodrigo), Enzo Billiotti (Fra’ Cristoforo), Rodolfo Badaloni (L’Innominato), Ida Carloni Talli (Agnese), Ninì Dinelli (Gertrude), Olga Capri (Perpetua)

Restaurato e accompagnato da musiche contemporanee, questo capolavoro del cinema muto mostra una coinvolgente originalità formale e narrativa. Mario Bonnard fa del romanzo di Manzoni un percorso dentro la storia, l’antropologia, il male. La vicenda di Renzo e Lucia quasi rimane sullo sfondo delle grandi scene collettive, fatte di folle, soldati, appestati, ribellioni. Scene nelle quali la violenza delle vicende, la malvagità degli umani, l’inesorabilità degli eventi emergono dallo sfondo ora idilliaco del lago ora concitato della città. I rappresentanti dell’ideologia religiosa di Manzoni – fra’ Cristoforo, il cardinale Federigo – appaiono costantemente rivolti verso l’alto, distanti, quasi emaciati, ininfluenti. Come se fossero estranei rispetto alla concretezza della manzoniana fenomenologia dell’umano. Le libertà narrative che Bonnard si è preso – l’Innominato alla guida dei suoi soldati contro i lanzichenecchi; Lucia malata in casa di Donna Prassede; i dettagli del tradimento del Griso e della sua morte; le lunghe scene del saccheggio di Mantova; – sono funzionali a una disincantata descrizione della città umana, così come essa va sempre o come andava ‘nel secolo XVII’:
«In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo»
(I Promessi Sposi, a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. VIII, p. 184).
E tutto questo viene narrato in una tonalità color seppia, con moderne dissolvenze delle forme, tramite giochi tra sfondo/primi piani e altre modalità espressionistiche. Un grande film.

Su Leopardi

Recensione a:
Rosalba Galvagno
Giacomo Leopardi tra antico e moderno
(Sinestesie 2019, pp. 102)
in L’immaginazione, n. 320, novembre–dicembre 2020, pagina 50

Un materialismo meditato a fondo; una cosmologia dell’infinito; un’antropologia disincantata e realistica; un’ironia sottile, sorridente, sarcastica; un pensiero sempre lucido. Sono anche questi gli elementi che fanno di Giacomo Leopardi uno dei maggiori filosofi del XIX secolo.
Il denso e vivace libro di Rosalba Galvagno segue alcuni dei percorsi di Leopardi dentro il mondo: le metamorfosi della materia e del mito; la sociologia della moda; la questione delle illusioni; lo schema ermeneutico del «velo»; la centralità del linguaggio.
Riporto qui un brano della recensione riferito proprio al linguaggio e al velo:
«Questo idolo del linguaggio è destinato allo squarcio e alla rivelazione. Un’epifania che ha esiti assai diversi in Leopardi e in Proust. Nel secondo la natura temporale degli enti di linguaggio che alla fine sono tutti gli umani, le relazioni, gli amori, (lo hanno ben chiarito anche i Fragments d’un discours amoureux di Roland Barthes) diventa la jouissance suprema, il disvelarsi del tempo ritrovato e quindi della pienezza aionica del corpomente. In Leopardi il velo trattiene sin che può e a stento la natura nichilistica degli amori, del divenire, degli eventi: “L’idolo insomma è sempre rappresentato come un oggetto sommamente idealizzato e quindi velato. Ma può accadere che il velo che proietta e/o protegge l’idolo, rischi di cadere o di lacerarsi e di svelare così l’oggetto supposto prezioso, come un oggetto deludente, derisorio, degradato e abietto o addirittura assente: un niente” (pp. 22-23).
Un niente. La radicalità di Leopardi, che questo libro mostra sino in fondo, conferma ancora una volta la natura teoretica della sua poesia».

Androidi

Philip K. Dick
Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
(Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)
Traduzione di Riccardo Duranti
Introduzione e cura di Carlo Pagetti
Postfazione di Gabriele Frasca
Fanucci, 2003
Pagine 286

Nel suo ancora barocco e già postmoderno e visionario romanzo, Dick ha attinto alla propria lucida capacità di comprendere le tensioni della contemporaneità radicandole nel presente antichissimo dei simboli e dei miti gnostici. In Do Androids Dream of Electric Sheep? l’abominio della desolazione di cui parlava il profeta antico assume tutta la fisicità della “palta” (kipple, nell’originale), l’inarrestabile avanzare della polvere, dei rifiuti, del disordine.
La vittoria da sempre stabilita dell’entropia che si estende su tutte le cose, che diventa tutte le cose perché implicita nella «dispotica forza del tempo» (pag. 88) trasforma gli esseri viventi, gli oggetti, le città, la terra «nell’abietto abisso del mondo della tomba» (96) dal quale spira «il fetore della morte» (32) e un silenzio che si riverbera come un bagliore, che percuote il mondo «con una tremenda energia assoluta, come venisse generato da un’immensa turbina» (44). Una desolazione che «era sulla scia di tutte le cose» (238) perché fondamento di ogni cosa creata, generata dalla stessa sostanza dell’ombra difettosa, assurda, atroce da cui un funesto demiurgo ha tratto ogni entità apparentemente reale.
Tale è il fondamento metafisico -coerente sino al dolore- di questo libro. Ma, appunto, Do Androids oltrepassa la grande tradizione gnostica rendendola ancora una volta uno sguardo della mente teso a comprendere il presente e –rispetto all’epoca in cui il romanzo venne scritto, il 1968- a capire ciò che presente sarebbe diventato, ciò che ora è divenuto reale: l’ibridazione, la trasformazione degli umani in parti e strutture dei computer e della Rete. Umani, noi, che lavorano, insegnano, apprendono, dialogano, fingono di incontrarsi rimanendo per intere giornate fermi davanti a un monitor (si chiama digital labor; espressioni come ‘lavoro agile’ e ‘smart working’ sono degli eufemismi ideologici), abitatori di un mondo privo di spessore, carne, calore, fatto di algoritmi e non di corpi; un mondo alienato alla radice, i cui effetti sulla salute e sulla relazionalità vanno diventando pericolosamente chiari.
Nel romanzo di Dick l’ibridazione assume la tonalità anche ironica dell’assenza di un criterio che consenta davvero di distinguere chi fra i vari personaggi è un umano e chi un androide. Buster Friendly e i suoi inesauribili amici televisivi sono chiaramente delle macchine mediatiche; l’ispettore Garland si rivela ben presto anch’egli un droide; il divino Wilber Mercer è un invecchiato fotogramma che si ripete all’infinito; gli animali abitano sempre al confine tra naturalità ed elettronica –soprattutto il gatto del capitolo 7 che Isidore non riesce a salvare-; Rachel è una macchina colma d’amore e d’inganni, di quell’inganno che l’amore è sempre, e gli stessi cacciatori di taglie, Rick Deckard compreso, non sono sicuri della propria identità. «E così la distinzione tra esseri umani autentici vivi e strutture umanoidi andava a farsi benedire» (164), come ammette il protagonista in un momento cruciale della sua giornata da Ulisse joyciano, quel 3 gennaio 1992 in cui accadono tutte le vicende del racconto. E nel penultimo atto che precede il ritorno dalla sua Penelope, nel mare della desolata tranquillità in cui il pianeta è stato trasformato, Deckard afferma «sono diventato io stesso un essere innaturale» (257).
E i veri androidi? Che cosa sentono, provano, vivono queste macchine quasi perfette, i robot così avanzati della serie Nexus-6? Essi sembrano rivelare la propria natura d’artificio nella facilità con cui si fanno rintracciare e uccidere, nella rassegnazione con la quale cedono ancor prima di combattere, nella consapevole tristezza con la quale sanno che il loro ciclo vitale non va oltre i quattro anni, nella freddezza inquietante e rigida del loro essere, nonostante la forza del loro intelletto: «era come se una particolare e malevola astrattezza pervadesse tutti i loro processi mentali» (179), privandoli della «consapevolezza emotiva», di quella «percezione sensibile del vero significato […] Solo la vuota definizione formale e intellettuale dei singoli termini» (213). Intelligenze puramente sintattiche, prive della profondità semantica e incapaci, pertanto, di stare davvero al mondo. E tuttavia la splendida replicante che è Rachel afferma che «noi androidi non riusciamo a controllare le nostre passioni fisiche e sensuali» (219) e per definire i pensieri di queste entità ho utilizzato più sopra parole come coscienza, tristezza, rassegnazione che sono termini, appunto, umani. Il fatto è che questi androidi sono creature hegeliane, sono «il servo […] divenuto più abile e sagace del padrone» (54), sono l’altro dell’umanità in cui l’umanità si è trasformata, in una ibridazione estrema proprio perché indistinguibile, in una contaminazione che per il solo fatto di essere in Dick tutta negativa non per questo risulta meno significativa del destino di complementarietà verso cui siamo –come specie e come singoli- avviati.
La prova che l’ibridazione costituisca uno dei nuclei generatori del romanzo la si trova nell’apparente digressione che l’Autore dedica a un dipinto: «il quadro mostrava una creatura calva e angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che la circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per esser contenuta nel proprio urlo». Questa descrizione dell’Urlo di Munch esprime certamente e sino in fondo l’angoscia di cui gli umani sono capaci, la disperazione che li attanaglia, la tenebra ancora una volta gnostica che, letteralmente, li invade. E tuttavia il commento di Phil Resch al quadro è il seguente: «secondo me è così che deve sentirsi un droide» (152). È così che deve sentirsi quell’entità protesica, inestricabilmente artificiale e naturale, che siamo noi, ora, noi immersi nel tempo perché di tempo intrisi, da sempre finiti e per sempre limitati.

Polizzi Generosa

Generosa davvero una città che accoglie dei visitatori dentro la sua chiesa principale per mano di una signora, conosciuta in quel frangente, che ci fa scoprire un magnifico trittico fiammingo, antiche statue, un piccolo e prezioso museo di argenti. Una città nella quale durante una pausa i camminanti chiedono un caffè e dei dolcini e il proprietario del bar fa pagare soltanto il caffè (e ha emesso anche lo scontrino). Una città che mostra nei suoi abitanti la distanza che sempre i siciliani sono e insieme la loro ospitalità senza condizioni. Fu Federico II – sempre lui appare nei luoghi più incantati di Sicilia – a definire nel 1234 Polizzi con quell’aggettivo che la qualifica.
Chiese numerose, come sempre nelle nostre città, e imponenti palazzi baronali. La cucina è strepitosa, genuina, saporita. Cortili vegetali e panorami dappertutto. Lo spazio più aperto è uno slargo –‘U chianu’– che lancia lo sguardo sulla potenza delle Madonie, così come dall’altra parte del paese l’alberata piazza del Carmine sta davanti al massiccio montuoso di fronte al quale ho avuto la fortuna di parlare dell’enigma del tempo agli amici che ascoltavano partecipi e attenti.
A Polizzi nacque Giuseppe Antonio Borgese, alla cui opera la Fondazione omonima dedica energie, libri, convegni che si tengono nello spazio dell’antica casa di uno scrittore che fu insieme visionario e pragmatico; una delle tante contraddizioni del labirinto antropologico siciliano. Borgese in Rubè così descrive il suo paese: «Ora la nebbia saliva, grave e pur trasparente, simile ad una bambagia che trapunta di stelle dovesse coprire il sonno della sua terra nativa. Lo spettacolo era pieno d’immobile eternità e di quella malinconia che grava sulle cose perfette».
Della Sicilia tutta intera Borgese scrisse anche nell’introduzione all’edizione del 1933 della Guida Touring. Introduzione che ora è un fascicolo che la Fondazione Borgese dona ai suoi visitatori. Vi si leggono parole come queste, che valgono per Polizzi, per i paesi etnei, per i luoghi del’Isola che guardano da lontano il mare:
«Nella parte interna, solitudini pastorali; città, borghi severi incastellati su picchi, su crinali di monti, anche a mille metri sul mare, anche più in alto. […] Le primavere esplodono con fioriture selvagge» (p. 10).
Il cielo e il sole sono una cosa sola come sempre nei luoghi più arcaici dell’Isola inventata, di questo spazio che splende dentro il Mediterraneo, di un sogno che gli altri umani stanno sognando. Noi siciliani non esistiamo, no. Esiste chi ci sogna. Noi diamo soltanto la generosità dell’illusione di bellezza, della nostalgia che ci attraversa.

[L’immagine di apertura è stata scattata da Marcosebastiano Patanè, quella di chiusura da Davide Amato, identiche e diverse. Ringrazio entrambi gli autori]

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