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Il materialismo antiumanista di Leopardi

Il giovane favoloso
di Mario Martone
Italia, 2014
Con Elio Germano (Giacomo), Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (Monaldo), Valerio Binasco (Pietro Giordani), Paolo Graziosi (Carlo Antici), Sandro Lombardi (precettore di casa Leopardi), Isabella Ragonese (Paolina Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Federica De Cola (Paolina Ranieri)
Trailer del film

Il problema sono le biografie. Le quali possono essere a volte utili alla comprensione ma che nel caso di artisti, filosofi, scienziati costituiscono per lo più un equivoco. L’equivoco della dipendenza dell’opera dal fattore biografico. È evidente che le esistenze di tutti gli esseri umani -compresi coloro che hanno lasciato qualcosa di duraturo, di fecondo, di bello nel tempo- sono segnate anche da contraddizioni e da miserie. Poiché sono segnate dal limite. Il problema è la riduzione dell’opera a tale limite. Il film di Martone cade in questo errore. E dire che ne è consapevole. Uno dei momenti chiave del film è infatti l’incontro di Leopardi con dei letterati in un caffè di Napoli. Alcuni di costoro criticano il tono eccessivamente «malinconico» delle sue composizioni. Qualcuno cerca di difenderlo ricordando i problemi di salute del poeta e facendo dipendere da questo elemento tale tono. Leopardi risponde con determinazione che questo non c’entra nulla, che -se riescono- debbono smontare i suoi ragionamenti e non le sue malattie, che non debbono ridurre a una questione di salute o di umore ciò che è frutto «del mio intelletto». Esatto. Ma il film naviga in direzione opposta. E lo fa anche esagerando, inserendo scene -come l’incontro con le prostitute- del tutto superflue e tendenti solo a titillare l’inevitabile voyeurismo di ogni biografia.

Giacomo Leopardi non c’entra nulla con tutto questo. Leopardi è uno dei più importanti filosofi europei dell’Ottocento. Un pensatore che come Kierkegaard, Schopenhauer, Heidegger, Cioran sa che l’esistere umano è un oscillare tra il dolore e la noia, il cui ultimo esito è l’essere per la morte. «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono» (Cantico del gallo silvestre, in «Operette morali», Garzanti 1982, p. 287). La metafisica di Leopardi è radicalmente  materialistica. Egli vede nel mondo un continuo aggregarsi e sciogliersi di enti, in cui ciò che rimane costante è solo la quantità di energia e di sostanza. Nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco leggiamo che «le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno» (p. 294).
La logica conseguenza è il lucido e costante rifiuto di ogni antropocentrismo. L’infantile pretesa che il mondo sia stato fatto a esclusivo uso di una specie, che il volgere delle galassie e della materia sia finalizzato al progresso della vicenda umana, la dismisura antropocentrica -insomma- è deprecata da Leopardi con giusta ironia e a volte con ferocia. Prometeo riconosce di aver perduto la sua scommessa, di aver fatto un errore nell’esaltare le capacità dell’animale uomo, dato che il genere umano è sì sommo ma «nell’imperfezione» (La scommessa di Prometeo, p. 112). Nella chiusa del Dialogo di un folletto e di uno gnomo quest’ultimo splendidamente osserva che dopo la scomparsa degli umani «le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie» (p. 69). Leopardi si inserisce, così, in quella linea della filosofia europea che da Spinoza a Heidegger sottolinea la finitudine dell’ente uomo, il suo essere effimero in un mondo che si muove e vive in assoluta indipendenza rispetto alle sue componenti. La Natura risponde, gelida, all’Islandese che «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvederei» (Dialogo della natura e di un Islandese, p. 155). Questa antica e sempre argomentata concezione teoretica si riduce nel film di Martone alla Natura che assume il volto della madre di Leopardi. Banale psicoanalisi, insomma.

Il primo a respingere con decisione il riduzionismo biografico è stato naturalmente lo stesso scrittore, il quale fu perfettamente consapevole della propria strategia ermeneutica e dei suoi fini e rifiutò con grande lucidità la tesi che voleva fare delle sue opere la mera conseguenza dei suoi malanni: «E sentendo poi…dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso…poi tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi» (Lettera a De Sinner, 24.5.1832). A chi gli vorrebbe negare la qualità teoretica e l’oggettività dell’analisi, Leopardi così risponde: «Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (Dialogo di Tristano e di un amico, in «Operette morali», p. 377).
Una filosofia dolorosa, ma vera. Leopardi non fu un uomo che soffriva, fu un corpomente che pensava. Ha quindi ragione Jaspers quando afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa» (Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia 1996, p. 104).
In questo film sono certamente suggestive la forma, il taglio delle inquadrature, la luce. Suggestivo e ben trovato è soprattutto il titolo. E però di questo «giovane favoloso» non si comprende in che cosa consista la meraviglia, lo splendore, la favola. La vicenda si conclude con la lettura di alcuni versi della Ginestra da parte di Leopardi di fronte allo «Sterminator Vesevo». Una lettura che però si interrompe insensatamente prima dei versi finali, che avrebbero potuto esprimere meglio l’ironia e l’antiumanesimo del pensiero leopardiano: «Ma più saggia, ma tanto / Meno inferma dell’uom quanto le frali / Tue stirpi non credesti / O dal fato o da te fatte immortali» (vv. 314-317).

Misura e hýbris nell’architettura

L’architettura del Mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi
Palazzo della Triennale  – Milano
A cura di Alberto Ferlenga
Sino al 10 febbraio 2013

Uno dei versi più celebri e importanti di Giacomo Leopardi non è suo ma è una citazione da un entusiastico testo che Terenzio Mamiani aveva dedicato alle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità (La ginestra o il fiore del deserto, v. 51). L’architettura del Novecento è stata, ha voluto essere, una delle più esplicite manifestazioni di questo ottimismo. Progettare Innovare Costruire l’esistenza dei singoli e della nazioni in vista di una razionalizzazione assoluta del corpo sociale e dei suoi desideri, questo è uno dei significati che il lavoro architettonico ha rivestito e tuttora riveste.
Non a caso Guy Debord dedica un capitolo de La Société du Spectacle all’«aménagement du territoire», all’architettura e all’urbanesimo. Debord sostiene che «l’urbanisme est cette prise de possession de l’environnement naturel et humain par le capitalisme qui, se développant logiquement en domination absolue, peut et doit maintenant refaire la totalité de l’espace comme son propre décor» (Gallimard, Paris 1992, § 169, p. 165). Discutendo del classico studio di Lewis Mumford su The City in History: Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects (1961), aggiunge che «le mouvement général de l’isolement, qui est la réalité de l’urbanisme, doit aussi contenir une réintégration contrôlées des travailleurs, selon les nécessités planifiables de la production et de la consommation. L’intégration au système doit ressaisir les individus isolés en tant qu’individues isolés ensemble» (Ivi, § 172, pp. 166-167).
Direi che questa ampia e istruttiva mostra è un’efficace illustrazione del bisogno che architettura e potere hanno di integrare gli individui in una solitudine collettiva.
Una prima sezione documenta con progetti tecnici e portfolio fotografici alcune delle realizzazioni che tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo hanno trasformato città e natura attraverso nuovi ponti, stazioni, metropolitane, porti, aeroporti, riusi del già costruito. Si nota in pressoché tutti questi progetti un disperato bisogno di oltrepassare la pesantezza del cemento. Un risultato tra i più belli e rispettosi è il Concrete Bridge che a Ebnit (Austria) realizza una continuità del tutto naturale tra la pietra, l’acqua e il cemento; stupefacente anche la National Tourist Route che in Norvegia consente delle magnifiche visioni in mezzo ai fiordi; davvero notevole -nella sua apparente semplicità- anche il passaggio pedonale che a Halsteren (Olanda) permette di oltrepassare un canale tagliandolo in due e dando l’impressione che i pedoni attraversino le acque.
La seconda sezione è dedicata all’Italia. Vi emerge con chiarezza il predominio di grandi opere costose, distruttive, superflue. Vi si dice, giustamente, che «in un paese come l’Italia in cui il paesaggio rappresenta una risorsa economica rilevante […] le infrastrutture non tengono sufficientemente conto della frequente presenza di un paesaggio eccezionale. […] Per progetti di tale portata sono necessari processi decisionali e operativi dal basso verso l’alto». E che nonostante tutto si possa agire per obiettivi più razionali rispetto alla hýbris che intesse di sé il Ponte di Messina, il MOSE di Venezia, il TAV franco-piemontese, è dimostrato -ad esempio- dal Minimetro di Perugia o dal rinnovamento della Ferrovia della Val Venosta in Alto Adige.
Con un’inversione assai significativa rispetto alla forma mentis architettonica degli anni Sessanta, si fa un vero e proprio elogio della lentezza, vi si parla -appunto- di «infrastrutture lente» che abbandonino il mito della velocità (quantità) a favore della qualità del muoversi e dello stare.

La terza e ultima sezione è la più affascinante e inquietante. Alcuni grandi schermi illustrano il «gigantismo delle infrastrutture planetarie e della bulimia progettuale» che nel Novecento ha indotto il potere sovietico, soprattutto con Stalin, a realizzare immense opere dagli Urali al Mar Caspio e alla Siberia; ha indotto il potere statunitense a colonizzare anche gli ambienti più difficili e ostili del continente nordamericano; ha indotto Gheddafi a costruire fiumi artificiali che in Libia portassero acqua dalle profondità dei deserti alla costa. E indusse l’architetto espressionista Herman Sörgel a progettare negli anni Venti la chiusura del Mediterraneo con delle ciclopiche dighe in modo da favorire l’evaporazione delle sue acque e abbassare il livello del bacino di un centinaio di metri. In questo modo si sarebbe ottenuta energia  e si sarebbe creato un territorio del tutto nuovo, con la Sicilia collegata alla Calabria e molto più vicina all’Africa, con le isole greche diventate un insieme unico e così via. Il nome di questo nuovo spazio sarebbe stato Atlantropa. Un gigantismo prometeico che il futuro ha ridimensionato e che oggi può invece rivolgersi ad obiettivi più rispettosi della Terra. Tra questi il progetto di un impianto che potrebbe utilizzare 20.000 km2 del Sahara per produrre energia sufficiente per l’intero pianeta. Un’energia pulita nella sua fonte: il Sole.
In ogni caso, si fa strada la consapevolezza che una «conoscenza globale» deve essere sensibile «alle differenze che ogni luogo esprime». Olismo e differenza possono costituire due delle parole chiave di un’architettura che alle sorti magnifiche e progressive sostituisca la misura del limite che siamo.

Progressisti

Nel corso degli anni ho criticato -su varie liste telematiche, con interventi e libri– l’atteggiamento di chi accusava di “conservatorismo” e “passatismo” quanti si opponevano alle “novità” distruttive verso la scuola e l’università che vari ministri (primo tra i quali il progressista Luigi Berlinguer) andavano imponendo. La natura del tutto retorica, ideologica e truffaldina dell’equazione “nuovo=bene; vecchio=male” emerge ora per tutti (almeno spero) dall’utilizzo che il replicante non umano Mario Monti e i suoi complici fanno delle stesse parole.
Costoro infatti accusano di conservatorismo e vecchiume quanti semplicemente intendono difendere le persone -le persone vere, non le statistiche- dai crimini che la finanza internazionale e le grandi banche vanno perpetrando in tutto il mondo, mondo che vorrebbero ridurre al desolato deserto delle borse e degli scambi monetari.
A proposito di deserto, un grande italiano e una grande mente –Giacomo Leopardi– aveva già nel 1836 (nel pieno quindi di un’altra ondata “progressista”) ironizzato nella sua Ginestra o il fiore del deserto sulle «magnifiche sorti e progressive» verso le quali ci si illudeva l’umanità stesse felicemente e inesorabilmente andando.
Al di là di questo uso infantile e disonesto di termini come “vecchio” e “nuovo”, la differenza reale passa forse tra coloro che non si fanno illusioni ma continuano a tendere a una società più giusta, a una trasformazione faticosa e tenace dello stato di cose esistente -senza mai dimenticare i limiti dell’essere e della vita-, e quanti invece promettono nuovi mondi e terre nuove, le terre e i mondi del loro dominio.

Il vulcano della storia

Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013

Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di  Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.

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Mente & Cervello 49 – Gennaio 2009

In natura non si dà alcun teleologismo. Ce lo hanno insegnato, fra gli altri, Democrito, Darwin, Nietzsche e lo ricorda anche Enrico Bellone in apertura di questo numero di Mente & cervello. E fa bene, perché uno dei postulati della sapienza consiste nell’ammettere che l’essere è assai più complesso, intricato, ricco e stupefacente di quanto qualunque conoscenza umana possa immaginare, tanto meno raggiungere. Basta sfogliare questa Rivista.

«La visione non è una fotografia della realtà: ciò che vediamo dipende da un insieme di motivi, alcuni legati alla struttura dell’occhio, altri a fattori centrali, cioè le caratteristiche della corteccia visiva e i processi mentali» (Oliverio, p. 18; consiglio sul tema il volume di Paola Bressan Il colore della luna).
Se -come tante volte ho avuto occasione di sostenere- la coscienza dimentica, «il cervello non dimentica (…) ogni esperienza vissuta lascia una traccia precisa nel nostro cervello» e nell’intero corpo (Murelli, 22).
Ciò che i piccoli moralisti chiamano “egoismo” è semplicemente il naturale Wille zum Leben, la “volontà di vivere” che per Schopenhauer costituisce la struttura di fondo di ogni cosa e che «il comandamento dell’evoluzione» conferma: «“Persegui un’azione che ti procura piacere; sospendi un’azione che ti procura fastidio”» (Clément, 39). La vita, la sua potenza, è racchiusa in queste parole. Persino il morire per salvare altre persone, o “per il bene della causa”, è espressione di tale desiderio di autoaffermazione. Il “piacere”, infatti, ha una miriade di forme, espressioni, direzioni. Lo mostra l’articolo di copertina, dedicato al feticismo, nel quale Olaf G. Schmidt afferma giustamente che «non tutto ciò che è atipico deve necessariamente essere considerato patologico», tanto più che «continua comunque a sorprendere la capacità del cervello umano di produrre astrazioni, fantasie e pensieri di ogni genere per generare piacere fisico» (57 e 61). La neurobiologia dà ragione anche a Leopardi, alla sua preferenza per il sabato, dato che «anticipare qualcosa di piacevole crea infatti una maggiore attività nel centro di piacere del cervello rispetto a quanto non faccia l’effettivo raggiungimento dell’obiettivo prefissato» (Lambert, 91).
Cervello che ha nel linguaggio una delle sue espressioni più potenti. Un articolo assai interessante dedicato al “cervello da interprete” conferma -come ha intuito Heidegger– che in ogni caso (anche quando si conoscono perfettamente più idiomi) si pensa davvero in una sola lingua poiché si vive sempre in un solo mondo; il clamoroso e ripetuto fallimento dei software rivolti alla traduzione mostra che il linguaggio non costituisce un algoritmo ed è quindi impossibile «mettere a punto una macchina in grado di realizzare le complicate operazioni simboliche, sensoriali ed emotive necessarie per realizzare un’operazione così complessa» (Cicerone, 43).
Cervello che da sempre è ibridato con apparati e sistemi artificiali e lo diventa sempre di più poiché «cellulari, computer e iPod sono diventati estensioni del nostro corpo» (Barberi, 70).

È anche tale complessità a spiegare le numerose forme di creduloneria di cui approfittano demagoghi, commercianti, politici, cartomanti e anche…terapeuti e scienziati. Se, infatti, la credulità «consiste nel rifiuto di nuove credenze per attaccamento a credenze precedenti» (Clément, 38), anche con essa si spiega il proliferare di soluzioni ad hoc nell’ambito -ad esempio- della cosmologia, dove emerge sempre più l’implausibilità dell’ipotesi del cosiddetto Big Bang (si veda il recente studio di Marco De Paoli su La relatività e la falsa cosmologia, Piero Manni Editore 2008). Ha quindi ragione Max Planck quando afferma -nella sua Scientific Autobiography– che «una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa» (cit. da Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche [1962 e 1970], Einaudi 1978, p. 183).

Se questo accade in ambiti come la fisica e l’astronomia, figuriamoci in saperi incerti come la psicologia. Due esempi. Nel numero di ottobre di M&C Ester di Rienzo aveva difeso l’utilizzo delle testimonianze dei bambini in modi che mi erano parsi francamente eccessivi; lo sono sembrati anche a Giovanni Battista Camerini e al suo gruppo di lavoro, i quali criticano in modo assai duro l’articolo della loro collega, citando anche delle sentenze della Cassazione che mettono in guardia dalla creazione -da parte degli stessi “esperti” che interrogano i bambini- di «falsi ricordi», rilevando il grave rischio di «sottovalutare il ruolo della suggestione e, con esso, di alimentare le denunce infondate, ovvero i “falsi positivi”, la cui frequenza assume un rilevo sempre maggiore nel panorama giudiziario e i cui costi umani e sociali, specie per i bambini e per le famiglie coinvolte, possono essere molto alti, paragonabili (come hanno sostenuto Fonagy e Sandler) all’ignorare un “falso negativo”» (6-7). Sempre a proposito di psicologi, non è per nulla «sorprendente» un dato che sempre più emerge nella pratica clinica, e cioè «la centralità della personalità terapeutica del singolo professionista. In sostanza l’abilità clinica del terapeuta, al di là dell’appartenenza a uno specifico orientamento, sarebbe l’elemento fondamentale per la guarigione del paziente» (Castiello d’Antonio, 77). Come sempre, infatti, a contare sono le competenze professionali, la ricchezza culturale, la sensibilità umana delle persone e non la sequela dell’una o dell’altra scuola o corrente. E visto che di psicologi siffatti ce ne sono pochi, non hanno poi torto quanti si rifiutano di affidarsi a tali professionisti (circostanza che l’autore dell’articolo invece deplora…). Uno che se ne intende -Woody Allen- ha detto che «la psicoanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani» (Ivi, 75).

Dove lo spirito critico dà il meglio di sé è nello smascheramento operato da Michael Shermer della fiducia eccessiva riposta nel Brain imaging. Si tratta, ancora una volta, della tendenza ad applicare alla mente le analogie più in voga in ciascuna epoca. Vedere nel cervello una macchina idraulica (XVIII secolo), un calcolatore meccanico (XIX), un computer (XX), ha significato non comprenderne le peculiarità, la potenza, il sottrarsi a qualunque similitudine meccanicistica. Shermer critica sia tecnologie come la PET e la fMRI sia la concezione modulare del cervello quale «coltellino svizzero, con una serie di moduli specializzati evoluti per risolvere problemi specifici» (96). In realtà, le immagini ottenute con la risonanza magnetica funzionale hanno almeno cinque gravi limiti: i dati sono statisticamente non corretti perché escludono una significativa percentuale della popolazione che rifiuta di entrare in un ambiente claustrofobico e costringe quanti invece vi si sottopongono a “pensare” in un contesto del tutto innaturale; le immagini sono indirette poiché scaturiscono semplicemente dall’allinearsi di alcuni atomi al campo magnetico della macchina; nella ricostruzione finale i colori appaiono netti e divisi per zone, quando ciò che si ottiene è invece molto più distribuito tra tutte le parti del cervello, amalgamato e insieme approssimativo; il risultato è sempre una media statistica, frutto delle fotografie dei cervelli di numerosi soggetti; i tecnici cadono spesso nella fallacia induttiva del post hoc ergo propter hoc: «se creo in te uno stato di paura, la tua amigdala si accende, ma ciò non significa che ogni volta che la tua amigdala si accende tu provi paura. Ogni area del cervello si attiva in corrispondenza di innumerevoli stati differenti» (101). La vita, insomma, «è infotografabile» (F. Leoni, in Neurofenomenologia, Bruno Mondadori 2006) e il cervello è un organo olistico, non modulare o meccanico. Il Brain imaging non è una registrazione di quanto accade nella mente ma una costruzione a posteriori, è una metafora non una raccolta di dati: «le tecnologie di scansione cerebrale continueranno a produrre dati per le nostre teorie metaforiche» (101) e cioè per le sedicenti ipotesi empiriche e cerebrali sulla mente, che invece sono teorie anch’esse, né più né meno delle interpretazioni filosofiche o psicologiche del mentale.

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