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Il sogno di un dio

Ferdinando Scianna. Ti ricordo Sicilia
Castello Ursino – Catania
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 20 ottobre 2023

Bagheria, il mare, le ragazze, i mostri di Villa Palagonia, la campagna, la bellezza conturbante e gelida di Marpessa, le processioni, la festa, i bambini, i vecchi, Leonardo Sciascia. E l’andare e venire dalla Sicilia verso l’altrove. Il dover fuggire ma poi sempre ritornare nel grembo dell’Isola di tripudi e di sfacelo, di cenere mista al sangue degli eroi, dove – nelle urne memori dei Padri – morire è acquietarsi nella luce.
La Sicilia appare fra lontane terre emerse come la sintesi semplice del mondo, una lucente antologia dell’universo. I suoi scrittori la disegnano, la scavano. I suoi fotografi – al Castello Ursino di Catania Ferdinando Scianna, in tante occasioni e luoghi Franco Carlisi – la illuminano, la raccontano. I suoi pittori ne restituiscono le tenebre e la luce. I suoi filosofi, Gorgia, Nicola Spedalieri, Giovanni Gentile, la rendono teoretica.
Ma forse la Sicilia non esiste. Forse l’Isola è il sogno inquieto di un dio e noi siamo parte di questo sogno.

In partibus infidelium

Leonardo Sciascia
Dalle parti degli infedeli
Sellerio, 1979
Pagine 87

Per Leonardo Sciascia la Storia della colonna infame fu un costante punto di riferimento. In Dalle parti degli infedeli il modello manzoniano si manifesta nella puntigliosa ricostruzione di un evento e in un senso profondo della giustizia e dell’ingiustizia nelle società, in un impegno civile che resta inseparabile dalla dolente consapevolezza della malvagità dell’umano e delle sue istituzioni.
Lo stesso Sciascia ammette, con un poco di autosorpresa, che ci troviamo di fronte alla ricostruzione «apologetica» (p. 77) della vita di Monsignor Angelo Ficarra, vescovo di Patti nei cruciali anni della Guerra fredda e del massiccio appoggio della Chiesa cattolica al partito della Democrazia Cristiana.
Questo prelato – candido e testardo, obbediente ma non disposto a farsi complice, dedito alla preghiera, agli studi, all’«operosa carità quotidiana» (27) – fu perseguitato da parte della DC pattese e da alcuni organismi della Curia vaticana, a causa del suo rifiuto di sostenere le campagne elettorali e gli esponenti di un partito politico e diventando in questo modo un «ostacolo nella sua indifferenza al potere politico, alla politica; nella sua diffidenza o avversione a contaminarsene, a rendersene partecipe o complice» (42).
Mediante l’analisi di numerosi documenti, alcuni dei quali riservati tanto che la loro divulgazione comporta per lo stesso Sciascia «scomunica maggiore» (53), viene ricostruita la trama di menzogne, ricatti, lusinghe con le quali la Sacra Congregazione Concistoriale, nella persona del cardinale Piazza, costrinse Mons. Ficarra a lasciare il governo della Diocesi, seppure dopo uno scontro lungo e – per il vescovo – assai amaro.
Con la sua scrittura illuministica e sempre coinvolgente, Sciascia delinea dunque una vicenda simbolo. La persecuzione subita dal vescovo di Patti segue modalità vicine a quelle che negli stessi anni un’altra istituzione totale, il Partito Comunista di Stalin, adottava per sbarazzarsi dei propri avversari interni costringendoli «all’accettazione e confessione della colpa, anche se colpevoli non si è» (29).
La storia di Mons. Ficarra conferma anche quella «refrattarietà dei siciliani alla religione cristiana» (78) sulla quale Sciascia ha sempre insistito e che rende l’esistere nell’Isola un vivere in partibus infidelium.

Gelati

Paradise. Una nuova vita
di Davide Del Dean
Italia, 2020
Con: Vincenzo Nemolato (Calogero), Giovanni Calcagno (il killer), Catarina Kas (Claudia), Branko Zavrsan (Padre George), Selene Caramazza (Lucia)
Trailer del film

Nello splendore di Cefalù. Due uomini portano in piazza una bara vuota. La buttano a terra, le sparano contro. E minacciano il destinatario di questo lugubre rito. Il destinatario è un gelataio che ha assistito a un omicidio, ha visto il killer, ha testimoniato contro di lui. Per salvarlo gli si dà una nuova identità: venditore di granite nel gelo dell’inverno friulano, ospite di un residence – Paradise – aperto soltanto per lui. Ma non, alla fine, solo per lui. Arriva infatti un altro ospite, nel quale a Calogero sembra di riconoscere l’assassino. Lo afferra, ovviamente, il panico ma la vicenda si dipana senza tragicità, piuttosto attraverso una mescolanza di usanze alpine, affetti trattenuti, μετάνοια, rasserenanti presenze di bambine. E magnifici paesaggi innevati che sembrano indifferenti alla presenza di questi animaletti dotati di maglioni, lampadine e carabine, alcuni dei quali vengono dall’Isola, da Σικελία, dalla Trinacria
«Io non so niente – disse il confidente – […] non so niente: ma tirando a indovinare allo scuro, posso dire che le proposte le avrà fatte Ciccio La Rosa, o Saro Pizzuco… – e già quel verticale volo di gioia diventava caduta, pietra che precipitava al centro del suo essere, della sua paura» (Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi 1972, p. 31).

Il potere

Esterno Notte
di Marco Bellocchio
Italia, 2022
Con: Fabrizio Gifuni (Aldo Moro), Margherita Buy (Eleonora Chiavarelli Moro), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Toni Servillo (Paolo VI), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Davide Mancini (Mario Moretti), Daniela Marra (Adriana Faranda), Fabrizio Contri (Giulio Andreotti), Gigio Alberti (Benigno Zaccagnini), Pier Giorgio Bellocchio (Domenico Spinella), Paolo Pierobon (Cesare Curioni)
Sceneggiatura di Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino
Trailer del film

Figure. Un film fatto di figure. Che si alternano nella loro differenza, che convergono nella loro identità.
Sei prospettive, sei stazioni dolorose, sei figure del potere.
La prima figura è Aldo Moro, la sua paziente, estenuante, efficace capacità di mediazione tra posizioni all’apparenza inconciliabili. La sua formula delle «convergenze parallele» per descrivere il cammino storico della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano è figura dell’ossimoro che il potere è. L’ossimoro che consiste nell’idea di un «potere buono».
La seconda figura è Francesco Cossiga, un bipolare -come lo definisce lo stesso Moro- con tratti paranoici, una ‘eccellenza’ incerta e tuttavia pronta a servire i padroni statunitensi, in particolare nella figura del «consulente» Steve Pieczenik, inviato dagli USA e successivamente inquisito per «concorso nell’omicidio» di Moro. L’oscillazione esistenziale e politica di Cossiga riguardava da un lato la gratitudine verso colui che lo aveva reso ciò che era (Moro, appunto) e dall’altro la ragion di stato. Cossiga appare nel film un allucinato e un allucinatore, vittima del sangue che scorre anche per sua complicità e vittima soprattutto della propria figura di potere folle.
La terza figura è Paolo VI, amico di Moro, coraggioso sino a tentare ogni strada -anche il denaro ‘sterco del demonio’- e ingenuo sino a chiedere agli «uomini delle Brigate Rosse» di rilasciare Moro «così, semplicemente, senza condizioni», contribuendo probabilmente in questo modo alla sua fine, comunque già stabilita. Paolo VI con il cilicio, con le sue preghiere e con i suoi sogni sacrificali. Paolo VI che rivolgendosi al ‘Signore’ dice «Tu non hai esaudito la nostra supplica» e che morirà il 6 agosto del 1978, tre mesi dopo la morte del suo amico. Figura del potere sacro.
La quarta figura sono le Brigate Rosse. In particolare Adriana Faranda, convinta che la Rivoluzione vincerà e sconcertata quando la Rivoluzione non vince; Valerio Morucci, un nichilista dannunziano che trova solo nell’azione il senso del proprio vivere, che afferma di non volere obbedire a nessuno ma poi dichiara che bisogna obbedire senza discutere all’ordine di uccidere Moro; Mario Moretti, una macchina gelida probabilmente eterodiretta (dagli USA). Le Brigate Rosse che uccidendo Moro uccisero se stesse e ogni prospettiva rivoluzionaria in Italia. Figura del potere sciocco e fanatico.
La quinta figura è Eleonora Chiavarelli Moro, moglie, madre, cristiana, paziente, ribelle solo alla fine, quando comprende che la Democrazia Cristiana vuole morto il marito. Figura del potere familiare e affettivo.
La sesta figura è l’insieme di Tύχη e di Ἀνάγκη, di caso e necessità, del piano inclinato che sono i fatti umani individuali e collettivi, anche quando si illudono e pensano di se stessi di essere fatti stabiliti, voluti, pensati. L’insieme di fatti che nei 55 giorni dal 16 marzo al 9 maggio del 1978 costituiscono un coacervo di eventi, di menzogne, di omissioni, di tradimenti, di convinzioni fanatiche, di rozzezze, di morte. Figura del potere, della sua essenza, come Leonardo Sciascia mostra in uno dei suoi testi più lucidi e preziosi.
Un film che dura più di cinque ore ma che coinvolge perché costituisce un’altra figura ancora: la tragedia, una tragedia greca. 

Avevo visto Fabrizio Gifuni interpretare a teatro la figura di Aldo Moro. E avevo intitolato la mia riflessione  su quello spettacolo con una frase da Moro rivolta alla moglie nell’ultima lettera a lei indirizzata: «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Un testo nel quale ponevo la questione del perché Aldo Moro sia stato ucciso dalle Brigate Rosse quando la sua liberazione sarebbe stata una formidabile arma contro lo Stato italiano. Su tale questione, sui segreti che contiene, si è edificata la storia dell’Italia dal 1978 a oggi. Da vivo e da libero, Moro avrebbe potuto davvero colpire «il cuore dello Stato» come i dannunziani delle Brigate Rosse amavano dire. Da vivo e da libero Moro non avrebbe potuto essere così facilmente definito «pazzo», come la stampa corrotta allora e corrottissima oggi dichiarò quasi unanimemente. Il timore non era che Moro uscisse morto dalle mani delle Brigate Rosse ma che ne uscisse vivo. E infatti ne uscì morto.
Le Lettere  e il Memoriale di Aldo Moro costituiscono l’ultima figura del potere, lo spettro che da nulla può più essere ucciso e che con la sua sola presenza rende chiara l’essenza stessa dell’autorità: la morte.
Di questa figura è emblema un personaggio al quale il film di Bellocchio non dedica una specifica stazione ma che -certo- ne costituisce una delle ragioni; un personaggio che nelle sue lettere dalla ‘prigione del popolo’ Moro descriveva come figura del potere miserabile.

Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge, anche se l’umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal carcere sarebbe potuto andare all’estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant’altro ancora. Che significava in presenza di tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della D.C.? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita?  Tutto questo non significava niente. Bastava che Berlinguer stesse al gioco con incredibile leggerezza. Andreotti sarebbe stato il padrone della D.C., anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no, con la pallida ombra di Zaccagnini, dolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazione, appassionato senza passione, il peggiore segretario che abbia avuto la D.C.
Non parlo delle figure di contorno che non meritano l’onore della citazione. On. Piccoli, com’è insondabile il suo amore che si risolve sempre in odio. Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre, perché è costituzionalmente chiamato all’errore. […]
Eravate tutti lì, ex amici democristiani, al momento della trattativa per il governo, quando la mia parola era decisiva. Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti. […]
Tornando poi a Lei, On. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Partito con o senza di voi, la D.C. non farà molta strada. […] Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia. Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà (si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice.
Che cosa ricordare di Lei? La fondazione della corrente Primavera, per condizionare De Gasperi contro i partiti laici? L’abbraccio-riconciliazione con il Maresciallo Graziani? Il Governo con i liberali, sì da deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato? Il flirt con i comunisti, quando si discuteva di regolamento della Camera? Il Governo coi comunisti e la doppia verità al Presidente Carter? Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli? La trattativa di Caltagirone per la successione di Arcaini? Perché Ella, On. Andreotti, ha un uomo non di secondo, ma di primo piano con Lei; non loquace, ma un uomo che capisce e sa fare. Forse se lo avesse ascoltato, avrebbe evitato di fare tanti errori nella Sua vita. Ecco tutto. Non ho niente di cui debba ringraziarLa e per quello che Ella è non ho neppure risentimento. Le auguro buon lavoro, On. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto, anche se tutto serve a scoprire del bene negli uomini, purché non si tratti di Presidenti del Consiglio in carica.
[Fonte: Archivio del Novecento – Memoriale Moro]

Esterno Notte  è un film «misto di storia e d’invenzione», formula di Alessandro Manzoni che ben si adatta a quest’opera. La storia che rimane oscura, l’invenzione che la illumina con la luce delle sue figure.

 

Sciascia / Marpessa

FERDINANDO SCIANNA
Viaggio Racconto Memoria
Palazzo Reale – Milano
A cura di Paola Bergna, Denis Curti, Alberto Bianda
Sino al 5 giugno 2022

In cinquant’anni di immagini, Ferdinando Scianna ha scattato più di un milione di fotografie. Ma, dichiara, «pochissime sono le foto buone». In effetti, qualunque mostra fotografica -tanto più se l’autore è molto noto- costituisce un distillato dello sguardo incessante che indaga le forme del mondo e da esso cerca di ricavare senso, simbolo, bellezza. Nonostante le sue dichiarazioni sul primato del reale rispetto alle immagini, nonostante le affermazioni per le quali «le fotografie non sono metafore» poiché «mostrano, non dimostrano», la più parte delle opere di Scianna sembrano in realtà costruite; non emergono dal mondo ma lo plasmano con degli obiettivi ben precisi per quanto ogni volta diversi in relazione ai soggetti: paesaggi, umani, ritratti, moda, feste, lavoro, solitudini. Emblematica una immagine dal titolo Mantova, 1991 nella quale una serie artificiosa di specchi inquadra una donna, le sue cosce, in una fuga che fa pensare a Velázquez.
Scianna scrive molto e dichiara apertamente che «fare libri è diventata la ragione e l’ossessione essenziale della mia esistenza e del mio lavoro». Esistenza e lavoro che si sono aperti ai luoghi più diversi del pianeta ma che trovano nella Sicilia il loro vero centro estetico ed esistenziale: le feste religiose, la nebbia di Enna, gli umani di Bagheria (città natale del fotografo), il latifondo e il mare, la solitudine e l’arcaico, il Sole. Al quale Scianna dice di essere interessato «soltanto perché fa ombra». Ma per un siciliano sole e ombra sono inseparabili, sono la stessa realtà, sono il «barbaglio della promiscuità» che sfocia «in una limpida e attonita sfera» (Ungaretti). Lo si vede anche nei tagli di luce che chiudono il loro raggio illuminando un cane solitario tra le strade di Valencia.
Il «sentimento del tempo» di Ungaretti è simile a quello che prova Scianna quando vorrebbe «fermare il tempo, non fosse che per un istante». L’istante maschile/femminile, femminile/maschile che si coniuga in due delle migliori espressioni della sua arte, che sono anche due nomi: Leonardo Sciascia e Marpessa Hennink.
Coniugare uno dei massimi scrittori del Novecento e una modella olandese può sembrare bizzarro e tuttavia è su questi due corpi, sui loro volti e posture, che Scianna ha dato il meglio di sé: Marpessa è la femmina, nella sua potenza sensuale divertente distante funerea e maliziosa. Sciascia non è Sciascia, Sciascia è il pensare dei siciliani, il loro «sentimento» che in siciliano significa appunto anche «pensiero».
Entrambi, Sciascia e Marpessa, sono emblema di ciò che emerge con chiarezza nell’immagine forse più singolare di questa mostra, scattata a Bagheria nel 1972: una testa sorridente e quasi divertita, che emerge da alcune ghirlande di un funerale. La femmina, il maschio, la morte, la Sicilia, la gloria e il disincanto, l’ovunque.

«Della più elementare intelligenza»

Che cosa significhi e che cosa sia l’intelligenza è questione assai dibattuta. Propongo la lettura di un testo che mostra l’intelligenza all’opera. Si tratta della Relazione di minoranza del deputato Leonardo Sciascia, redatta il 22 giugno 1982 per la «Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia» (Legislatura VIII —- Disegni di legge e relazioni-documenti, pp. 397-413).

A 38 anni di distanza da un evento che ha determinato la storia Italia, volgendola in farsa tragica, è ormai del tutto evidente che le Brigate Rosse costituirono il braccio armato di forze e organizzazioni ben collocate dentro lo Stato italiano e promosse dagli Stati Uniti d’America. Recenti acquisizioni mostrano che la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani erano presenti uomini della ‘ndrangheta. Da parte sua, Claudio Signorile -all’epoca vicesegretario del Partito Socialista Italiano- ha ribadito quanto ha dichiarato più volte, vale a dire che «in realtà la morte di Moro era funzionale a interessi terzi, categoria sulla quale Signorile insiste molto, cioè altre organizzazioni o intelligence internazionali; il potere reale alle fine, dice ancora, era nelle mani di chi controllava l’ostaggio e non è detto che fossero le Br» (Fonte il Fatto Quotidiano, 17.7.2016).

Si trattò, insomma, di un omicidio di Stato, come la più parte dei grandi crimini che sono avvenuti in Italia dal 1945 in poi.
Metto qui a disposizione l’intero volume che comprende la Relazione di Sciascia. Mi limito a riportare alcuni brani di un testo letterariamente splendido e concettualmente argomentato, acuto, libero, ironico, lucido, distante e appassionato. Di un testo, vale a dire, intelligente.

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La domanda prima ed essenziale cui la Commissione ha il dovere di rispondere, a noi appare invece questa: perché Moro non è stato salvato nei cinquantacinque giorni della sua prigionia, da quelle forze che lo Stato prepone alla salvaguardia, alla sicurezza, all’incolumità dei singoli cittadini, della collettività, delle istituzioni? (p. 400).

Si può nettamente rispondere che non solo le carenze ci furono, ma che ai tentativi della Commissione per accertarle sono state opposte denegazioni così assolute da apparire incredibili (400).

Leonardi aveva chiesto altri uomini, al Ministero dell’Interno: forse in più, forse in sostituzione di quelli che già aveva e che non gli pareva fossero «ben preparati per il servizio che dovevano svolgere». Questa richiesta, che la signora Leonardi colloca tra la fine del 77 e il principio del 78, non ha lasciato traccia né nei documenti né nella memoria di chi avrebbe dovuto riceverla. […] Il che, ribadiamo, non è credibile: Leonardi può non aver parlato col generale Ferrara, ma con qualcuno dei «comandi gerarchici della capitale» ha parlato di certo. Che ne sia scomparsa ogni traccia e che lo si neghi è un fatto straordinariamente inquietante. (401-402)

Prevalentemente condotte «a tappeto» (e però, come si vedrà, con inconsulte eccezioni) le operazioni di quei giorni erano o inutili o sbagliate. Si ebbe allora l’impressione — e se ne trova ora conferma — che si volesse impressionare l’opinione pubblica con la qualità e la vistosità delle operazioni, noncuranti affatto della qualità. […] Che senso aveva istituire posti di blocco, controllare mezzi e persone, la mattina del 16 marzo, a Trapani o ad Aosta? Nessuno: se non quello di offrire lo spettacolo dello «sforzo imponente». Si partì dunque — per volontà o per istinto — verso effetti spettacolari e forse confidando nel calcolo della probabilità (che non funzionò). Ed è comprensibile che per conseguire tali effetti si sia trascurato l’impiego di forze meno imponenti ma più sagaci per dare un corso meno vistoso ma più producente alle indagini: a tal punto che la Commissione si è sentita rispondere dall’allora questore di Roma che mancava di uomini per un lavoro di pedinamento che non ne avrebbe richiesto più di una dozzina; mentre solo a Roma 4.300 agenti spettacolarmente ma vanamente annaspavano. (403)

Intanto il giorno 18 — il terzo dei cinquantacinque — la polizia, nelle sue operazioni di perquisizione a tappeto, arrivava all’appartamento di via Gradoli affittato a un sedicente ingegnere Borghi, più tardi identificato come Mario Moretti. Vi arrivò: ma si fermò davanti alla porta chiusa […] e in ordine all’istinto e al raziocinio professionale una porta chiusa, una porta cui nessuno rispondeva, doveva apparire tanto più interessante di una porta che al bussare si apriva. E tanto più che il dottore Infelisi, il magistrato che conduceva l’indagine, aveva ordinato che degli appartamenti chiusi o si sfondassero le porte o si attendesse l’arrivo degli inquilini. Ordine eseguito in innumerevoli casi, e con gran disagio di cittadini innocenti; ma proprio in quell’unico caso (unico per quanto sappiamo), che poteva sortire a un effetto di incalcolabile portata, non eseguito. Pare che l’assicurazione dei vicini che l’appartamento fosse abitato da persone tranquille, sia bastata al funzionario di polizia per rinunciare a visitarlo: mentre appunto tale assicurazione avrebbe dovuto insospettirlo. È pensabile che le Brigate Rosse non si comportassero tranquillamente e anzi più tranquillamente di altri, abitando piccoli appartamenti di popolosi quartieri? (404-405)

Il suggerimento della signora Moro, di cercare a Roma una via Gradoli, non fu preso in considerazione; le si rispose, anzi, che nelle pagine gialle dell’elenco telefonico non esisteva. Il che vuol dire che non ci si era scomodati a cercarla, quella via, nemmeno nelle pagine gialle: poiché c’era. (405)

E a questo punto altro garbuglio, altro mistero: i giornalisti arrivarono prima della polizia; i carabinieri seppero della scoperta soltanto perché riuscirono a intercettare una comunicazione radio della polizia. (405)

Il qual materiale, a giudizio del dottor Infelisi non apportava alcuna indicazione relativamente al luogo in cui poteva trovarsi Moro; ma sente il bisogno, il giudice, di mettere questo inquietante inciso: «almeno quello di cui io ho avuto conoscenza»: così aprendo come possibile il fatto che possa esserci stato del materiale sottratto alla sua conoscenza. Insomma: tutto quel che intercorre dal 18 marzo al 18 aprile intorno al covo di via Gradoli attinge all’inverosimile, all’incredibile: spiriti (che in una lettera inviata dall’onorevole Tina Anselmi alla Commissione appaiono molto meglio informati di quanto poi riferito dai partecipanti alla seduta), provvidenziale dispersione d’acqua (ma la Provvidenza aiutata, per distrazione o per volontà, da mano umana), assenza della più elementare professionalità, della più elementare coordinazione, della più elementare intelligenza. (406)

Ma a chi, in Commissione, si meravigliava non avere la polizia presa una così elementare misura, come quella di far sorvegliare i capi dell’Autonomia, il questore De Francesco rispondeva che mancava di uomini. E ne teneva impegnati più di 4000 in operazione di parata! (407)

Ci si chiede da che tanta estravaganza, tanta lentezza, tanto spreco, tanti errori professionali possano essere derivati .(408)

Ma crediamo che l’impedimento più forte, la remora più vera, la turbativa più insidiosa sia venuta dalla decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle Brigate Rosse il Moro di grande accortezza politica, riflessivo, di ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva (riconoscimento ormai quasi unanime: appunto perché come postumo, come da necrologico) era stato fino alle 8,55 del 16 marzo. (408)

Non si vede perché Moro, uomo di grande intelligenza e perspicacia, avrebbe dovuto comportarsi come un cretino: se gli era consentito di guadagnar tempo e di comunicare con l’esterno, di queste due favorevoli circostanze non poteva non approfittare. […] La cifra dei suoi messaggi poteva, per esempio, essere cercata nell’uso impreciso di certe parole, nella disattenzione appariscente. Quando Cossiga e Zaccagnini, per dire delle condizioni in cui Moro si trovava, citano la frase di una sua lettera (quella, appunto, diretta a Cossiga ministro dell’Interno): «mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato», è curioso non si accorgano che proprio questa contiene una incongruenza e che non definisce precisamente il tipo di dominio sotto cui Moro si trovava. Che vuol dire, infatti, «incontrollato»? Chi poteva o doveva controllare le Brigate Rosse? E perciò appare attendibilissima (e specialmente dopo le rivelazioni degli ex brigatisti) la decifrazione che ci è stata suggerita: «mi trovo in un condominio molto abitato e non ancora controllato dalla polizia». (409-410)

Un ultimo particolare si vuole mettere in evidenza, a dimostrare come la volontà di trovare Moro veniva inconsciamente deteriorandosi e svanendo. Subito dopo il rapimento, venne istituito un Comitato Interministeriale per la Sicurezza che si riunì nei giorni 17, 19, 29, 31 del mese di marzo; una sola volta in aprile, il 24; e poi nei giorni 3 e 5 maggio. Ma quel che è peggio è che il Gruppo politico-tecnico-operativo, presieduto dal ministro dell’Interno e composto da personalità del governo, dai comandanti delle forze di polizia e dei servizi di informazione e sicurezza, dal questore di Roma e da altre autorità di pubblica Sicurezza, si riunì quotidianamente fino al 31 marzo, ma successivamente tre volte per settimana. Solo che di queste riunioni dopo il 31 non esistono verbali e «non risultano agli atti nemmeno appunti». Ed era il gruppo — costituito con giusto intento — che doveva vagliare le informazioni, decidere le azioni, avviarle e coordinarle.

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Eppure in quei 55 giorni del sequestro Moro le informazioni riservate non mancarono, soggetti onesti operarono, circostanze favorevoli ci furono.«Ma -scrive Sciascia- appunto dei vantaggi non si è saputo fare alcun uso» (p. 404). Un’affermazione illuminante, quest’ultima, e che mi ha ricordato il brano di un libro da Sciascia molto letto e molto amato.

«Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?»
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, «Introduzione».

[Devo la segnalazione di questo documento a Dario Sammartino, che ringrazio ancora una volta]

Ponzio Pilato

Il procuratore della Giudea
di Anatole France
(Le procurateur de Judée, 1902)
Traduzione e nota di Leonardo Sciascia
Sellerio, 1988
Pagine 48

France_ProcuratoreElio Lamia e Ponzio Pilato si intrattengono amabilmente durante una cena, ricordando il passato, la vita a Gerusalemme, il difficile governo della Giudea. Il procuratore difende il proprio operato, che era stato sempre rivolto a garantire la giustizia e le leggi, a promuovere anche in Giudea lo sviluppo e la pace che il dominio di Roma apportava alle Province dell’Impero. Ma essi, i Giudei -«questi nemici del genere umano» (p. 17)- «ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni» (26), fanaticamente certi di essere gli unici a conoscere il divino, seppure tra di loro continuamente in confitto sulla interpretazione delle proprie Scritture. Pilato presagisce che questo popolo non sarà mai domato, se non con la distruzione completa della Città santa e con la dispersione. Lamia è d’accordo con lui ma pensa che «in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità» (29), ricorda anche le virtù nascoste di quel popolo e soprattutto la bellezza delle sue donne, la sensualità straripante di «un’ebrea di Gerusalemme», con le «sue danze barbare, il suo canto un po’ rauco e insieme dolce, il suo odore d’incenso, il suo vivere trasognato […] Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco» (30-31). Questa donna fu da lui perduta quando lei si unì a «un giovane taumaturgo di Galilea»; Lamia chiede a Pilato se si rammenta di questo Gesù «crocifisso non ricordo per quale delitto». La risposta del procuratore è meravigliosa: « “Gesù” mormorò “Gesù il Nazareno? No, non ricordo» (31). E su queste parole si chiude il racconto, «che è un apologo -e un’apologia- dello scetticismo più assoluto (e quindi della tolleranza che ne è figlia)» (Leonardo Sciascia, p. 36).
La figura di Pilato è ricostruita con molta verosimiglianza. Un uomo giusto, ligio alla romanità, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. La fama del più celebre governatore romano è però affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne l’ignavia. Invece anche a me la vicenda di quest’uomo sembra singolare, rispettabile e -come afferma Lamia- di grande interesse.
Sua è la parola più pulita e ironica dei Vangeli: «Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei -è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno -che importa?…Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore -la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “che cos’è verità?”…» (F.Nietzsche, L’Anticristo, in «Opere», vol. VI tomo 3, Adelphi 1975, p. 229).
Questo bellissimo racconto di France spiega perché Pilato sia davvero degno d’onore.

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