Teatro Greco – Siracusa
Le Supplici
da Eschilo
Adattamento scenico in siciliano e greco moderno di Moni Ovadia, Mario Incudine, Pippo Kaballà
Musiche di Mario Incudine
Regia di Moni Ovadia
Con: Mario Incudine (Cantastorie), Angelo Tosto (Danao), Donatella Finocchiaro (Prima Corifea), Moni Ovadia (Pelasgo), Marco Guerzoni (Araldo degli Egizi)
Scene Gianni Carluccio
Costumi Elisa Savi
Sino al 28 giugno 2015
I cinquanta figli di Egizio sono decisi a prendere le cinquanta cugine Danaidi, anche contro la loro volontà. Le ragazze e il loro genitore fuggono e cercano rifugio ad Argo, terra d’origine di Io, loro antenata amata da Zeus e per questo perseguitata in tutti i modi da Era, anche quando Zeus trasforma la ragazza in giovenca per nasconderla agli occhi della dea. Le sue discendenti supplicano ora Pelasgo di dare loro ospitalità; dopo qualche titubanza il re la concede, anche se questo significherà guerra certa con gli Egizi.
Le Supplici descrive dunque la ἀνδρών ὕβριν (v. 528), la dismisura del maschio che non sa fare dell’Eros qualcosa di diverso rispetto all’accoppiamento che genera altri umani, altro dolore. I Greci sanno infatti che «iridescenti sono i guai» e «sempre cangiante tu vedrai l’ala del dolore» (vv. 328-329, trad. di Franco Ferrari).
Di tutto questo, e di molto altro, nulla resta nelle Supplici di Moni Ovadia e del compositore Mario Incudine. L’idea della contaminazione etnica, del testo tradotto in siciliano e in greco moderno, trasformato in canto (ritmate e cantate erano infatti in Grecia le tragedie) sarebbe stata molto interessante ma la musica è assolutamente inadatta, sviante, banale. Ovadia e Incudine avrebbero potuto optare per dei ritmi arcaici, o per delle cadenze orientali, o per strutture sperimentali. Per qualcosa che in ogni caso potesse restituire la distanza dei Greci. E invece la musica è quasi quella folcloristica tipo «Sciuri sciuri». Mi ha ricordato coloro che nel mio paese d’origine vengono chiamati i foristeri, venditori ambulanti di frutta e verdura che arrivano dai paesi limitrofi e si fanno notare per le strade diffondendo ad alto volume canzoni siculo-napoletane. In quel contesto va benissimo ma non altrettanto per i foristeri di cui parla Eschilo, la cui tragedia viene utilizzata come strumento di una visione del mondo «umanistica», vale a dire quanto di più lontano ci sia dall’Ellade.
Se gli Elleni «di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi» (v. 242), è perché la loro non è una libertà soltanto politica, non è la «democrazia» come la si spaccia lungo tutto questo spettacolo ma è una radicale libertà dalla consolazione, dalla speranza, dall’illusione dell’istante che si tramuta in disperazione del sempre. I Greci riconoscono la potenza, la liceità, la naturalità del desiderio che produce «la freccia di seducente sguardo» (v. 1005) ma sanno anche che solo un’entità non umana può evitare il dolore che ogni desiderio, anche realizzato, porta con sé. Sanno che soltanto «ogni atto dei numi è senza pena» (παν απονον δαιμόνιον, v. 110) e mai gli atti degli umani. Tutto questo rimane qui radicalmente estraneo, foristeri.