Riprendo qui sotto un testo che avevo pubblicato nell’aprile del 2011. Lo faccio per varie ragioni: di ciò che vi scrissi sono sempre più consapevole; il Giubileo voluto dall’attuale pontefice ha per tema la ‘misericordia’ e anche di questo si parla nelle poche righe di questa riflessione; ho pensato a queste parole in occasione di un funerale al quale ho partecipato pochi giorni fa.
Il celebrante ha ricordato, infatti, che il Cristo sarebbe «il nostro fratello maggiore che si è sacrificato per noi davanti al Padre». Al cospetto di tali affermazioni -incomprensibili da ogni punto di vista: etico, ontologico, logico, teologico, esistenziale- penso, ancora una volta, che una divinità onnipotente e buona (qualunque cosa significhi questa parola) non elimina la finitudine ma certamente cancella il dolore. Non si immerge in esso dicendo: “Vedete? Ho fatto soffrire tremendamente mio Figlio. E quindi anche voi dovete accettare il dolore che vi tormenta”. Che salvezza è questa? Piuttosto, un Dio afferma: “Ecco, tolgo ogni dolore dal mondo, perché sono un Padre e voglio la gioia di tutti i miei figli, prediletti e no”.
In una lettera a Heinrich von Stein dei primi di dicembre del 1882 Nietzsche affermò di volere «liberare l’esistenza umana da ciò che essa ha di straziante e di crudele» (Epistolario, Vol. IV 1880-1884, Adelphi, 2004, p. 270). E in un coevo frammento postumo scrisse: «Vorrei togliere al mondo il suo carattere straziante» (Frammenti postumi 1882-1884 – Parte Prima, in “Opere”, vol. VII/1, parte II, Adelphi 1982, fr. 4[34], p. 110).
Se questo è il sentimento di un umano -con tutte le sue miserie e limiti- come fa a non essere il sentimento di una divinità che può tutto e che, se lo volesse, potrebbe rendere perfetto l’Essere eliminando da esso ogni sofferenza?
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Sono il padre. So che gli esseri umani soffrono ogni giorno per le ragioni più diverse. So che crudeltà, malattia e abbandono scandiscono la vita di tutti coloro che nascono. Sono anche onnipotente. Potrei trovare non una ma innumerevoli soluzioni che pongano immediatamente fine al fiume di dolore che avvolge le creature viventi. Ma invece di provvedere con un gesto autenticamente divino a cancellare il dolore dal cosmo, mando il mio figlio prediletto a patire, a essere seviziato, a morire asfissiato e sanguinante in una delle più atroci torture. Dopo lo faccio risorgere, ma l’universale sofferenza continua come se niente fosse accaduto.
È incredibile come questa orribile storia che ha per protagonista una delle più cupe divinità mai concepite -l’ebraico Jahweh- venga associata a parole quali “amore” e “misericordia”. Un padre che agisce in questa maniera se è davvero onnipotente è anche sadico; se non riesce a porre rimedio in altro modo, allora è uno di coloro che l’antica gnosi chiama “arconti”, divinità inferiori, demiurghi incapaci. Un amore onnipotente genera la gioia, non moltiplica sofferenze e crocifissi.