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To pass away

«It’s getting hard to know what else Silvio Berlusconi, the Italian prime minister, has to do to get evicted from power. In most countries, just one of the dozens of scandals he has been involved in would be enough to finish him off politically. Each time a new scandal explodes, more sordid and incredible than the last, you think he can’t possibly ride this one out. He can’t possibly, you hopefully imagine, survive a court verdict that says he was bribing a lawyer to give false testimony or just shrug off the mountain of evidence that he regularly organises orgies with paid escorts at his private, and official, residences. And yet, there he is, still in power, still the leader of one of Europe’s most cultured and important countries. After all these years, it still beggars belief.
[…]
The only way to liberate Italian politics from his immense and deleterious influence would be either for him to pass away, or for the country to undergo a thorough, programmatic deBerlusconification, an attempt to return to reality after 20 years of his televisual brainwashing. The first, I’m afraid, is more likely than the second, but it still seems a very long way off».

(Tobias Jones, The Guardian, 16 novembre 2010. Invito a leggere l‘intero articolo, che mi è stato segnalato da Dario Sammartino)

Spegnere le catene, un mondo da guadagnare

Nel belletto della “democrazia” le attuali società rimangono sempre la stessa broda spettacolare e totalitaria. Sui quotidiani italiani di ogni tendenza, e anche sulle loro versioni in Rete, si parla ossessivamente di programmi televisivi; sembra che gli eventi non possano essere raccontati se non attraverso il filtro della loro icona catodica. La televisione trionfa ovunque e totalmente, non soltanto in una società profondamente realityshowizzata come quella italiana. Un gesto politico tanto semplice quanto apparentemente difficile da compiere ma dagli effetti dirompenti prima di tutto sulle vite di chi lo attua e poi -se esteso a una massa sufficientemente critica- sul sistema pubblicitario e commerciale che ci domina sarebbe questo: spegnere il televisore, non riaccenderlo, disfarsene. In cambio ci verrà restituito il tempo, il rifiuto dell’ovvio, lo sguardo straniato e straniante rispetto al veleno che ormai non ci rendiamo più nemmeno conto di assorbire ogni giorno dalla scatola incantatrice e incatenatrice. Per quanto mi riguarda, nessun accordo con l’esistente, nessuna concessione alla miseria televisiva, nessuna complicità col nucleo profondo del dominio contemporaneo.

L’omosessualo

Mussolini era certamente assai più colto e meno volgare ma tra i caratteri comuni ai due uomini politici più importanti dell’Italia del Novecento e del XXI secolo uno è evidentissimo: il fascino sessuale che entrambi hanno esercitato sulle masse. Freud e soprattutto Reich colsero bene la natura erotica del rapporto che il capo assoluto intrattiene coi suoi servi adoranti, in particolare nei fascismi. Il caso Berlusconi credo che però vada oltre e costituisca un impensabile gorgo somatico. I governi guidati da questo personaggio hanno prodotto risultati economici e sociali del tutto catastrofici, impoverendo le famiglie, annullando uno Stato sociale pur minimo (sanità, scuola, università, energia, trasporti) a vantaggio anche di dissennate guerre coloniali, raggiungendo il picco della corruzione amministrativa, trasformando l’Italia nello zimbello del pianeta, imponendo una televisione pubblica e privata degna della Romania di Ceausescu. Gli italiani, insomma, “la prendono nel culo” continuamente. E tuttavia sembra che ancora milioni di loro apprezzino, difendano o almeno giustifichino chi li sta violentando. Il disprezzo mostrato da costui verso gli omosessuali appare dunque una forma di denigrazione verso l’intera società da lui sodomizzata ma anche verso se stesso in quanto androgino. Berlusconi racconta infatti che «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silviooooo, Silviooooo: sei una gran bella figa!”. È stato il complimento più bello della mia vita» (M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda 2009, p. 77). Insomma, disprezzando gli omosessuali disprezza la gran figa che è in lui.

(Su questo vortice politico-carnale segnalo un approfondito articolo di Andrea Cortellessa nel numero di ottobre di Alfabeta2, Dalla Pornocrazia alla Mignottocrazia; aggiungo che oggi, 6.11.2010, l’Unità ha pubblicato dei brani da Eros e Priapo di Gadda, dove -tra l’altro- lo scrittore disegna il seguente ritratto del potente narciso: «in lui tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo»).

Gorbaciòf

di Stefano Incerti
Italia, 2010
Con Toni Servillo (Gorbaciof), Yang Mi (Lila), Gaetano Bruno (L’Arabo), Geppy Geijeses (L’avvocato), Nello Mascia (Vanacore)
Trailer del film

Marino Pacileo fa il cassiere nel carcere di Poggioreale. Lo chiamano “Gorbaciòf” a causa di una vistosa voglia che ha in fronte. Vive da solo, ha la passione del gioco d’azzardo, parla pochissimo. Per giocare sottrae soldi alla cassa del carcere ma poi li restituisce regolarmente. Un uomo come questo non può innamorarsi. E però si innamora, corrisposto, della figlia del proprietario del ristorante cinese nel cui retrobottega gioca a poker. Tra di loro un sentimento quasi adolescenziale, silenzioso, dolce, impossibile. Il gioco si fa grande.

Ennesima, meravigliosa interpretazione di Toni Servillo che si fa ancora una volta il suo personaggio, che diventa il corpo di Gorbaciòf. Di questo guappo intriso di tenerezza e di una primitività quasi selvaggia e insondabile. Un uomo senza morale e senza malvagità, per il quale non parla la lingua ma le gote, le labbra, il modo straordinario in cui cammina, quasi remando nell’aria vuota di Napoli, le gambe. E soprattutto gli occhi, sino alla fine. Una fisicità della quale fanno parte le banconote da 20, 50, 100 euro. Simboli onnipresenti di un’ossessione che gira a vuoto. Poche volte l’assurdità del denaro fine a se stesso è stata resa in un modo così gelido ed esplicito. Il film ha il grande merito di essere cinema, e cioè opera visiva, pura immagine. Le rade parole scandiscono il divenire visivo del silenzio. Lontani dalla chiacchiera della fiction televisiva, dentro il cuore d’amore e di tenebra del mondo.

La banalità del poliziotto

A Cagliari contro agricoltori e pastori; a Milano contro gli studenti; a Palermo contro chi ricordava al papa il vangelo; in Piemonte e in Campania contro donne e anziani. Gente rincorsa nelle strade, tra i campi, ovunque. Cittadini picchiati a sangue. Da parte di chi? Della polizia di stato dotata di manganelli, di armi, di scudi, di elmi. Dotata di furia. Che cosa sono le dittature? Luoghi in cui chi ha usato violenza verso gli inermi può sempre giustificarsi dicendo: «ho obbedito agli ordini». Come i nazionalsocialisti.

La passione

di Carlo Mazzacurati
Italia, 2010
Con Silvio Orlando (Gianni Dubois), Giuseppe Battiston (Ramiro), Corrado Guzzanti (Abbruscati), Kasia Smutniak (Caterina), Marco Messeri (Del Ghianda), Stefania Sandrelli (Sindachessa), Cristiana Capotondi (Flaminia Sbarbato)
Trailer del film

Gianni Dubois non dirige un film da cinque anni, non ha più idee e nessuno sembra ormai credere nel suo talento. Proprio mentre una giovane ma affermata attrice televisiva lo vuole come regista, gli capita tra capo e collo il rischio di una denuncia per aver provocato dei gravi danni a un affresco del Cinquecento che si trova vicino a una sua casa in Toscana. La sindachessa del paesino gli chiede, in cambio del silenzio, di dirigere la Sacra rappresentazione del venerdì santo. A recitare sono gli abitanti del luogo più un improbabile Gesù professionista. Tutto si accavalla e appare non più gestibile. A soccorrerlo è un ex galeotto al quale Dubois aveva insegnato a recitare durante un laboratorio per detenuti. La passione sembra preludere, in qualche modo, a una resurrezione.

I momenti migliori di questo film sono quelli comici. Il trio Orlando-Guzzanti-Battiston (davvero bravo quest’ultimo) funziona bene. La dimensione drammatica è invece sfilacciata e forse un po’ pretenziosa, anche se alla fine assume dei toni poetici e non banali Abbastanza trasparente è la metafora di un’Italia senza progetti, senza idee, fallita. Risorgere sarà ben più difficile che per Dubois.

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