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Esilio

Sino a qualche decennio fa era possibile rinunciare alla cittadinanza di un Paese europeo e assumere la condizione di apolide. Nietzsche, ad esempio, non fu più tedesco e non prese la cittadinanza svizzera. Era diventato un senza patria, un apolide per l’appunto. Il processo di burocratizzazione degli Stati successivo alla Prima guerra mondiale ha reso progressivamente impraticabile tale condizione.
Fosse ancora possibile, non vorrei essere più un italiano. Non vorrei appartenere alla nazione più corrotta d’Europa, nella quale basta scavare un poco per toccare vivo il malaffare. Non soltanto nelle grandi opere / grandi appalti, come il TAV Torino-Lione o l’Expo milanese del 2015, autentici verminai gestiti dai gruppi finanziari, dalle aziende, dagli enti locali legati al Partito Democratico, a Forza Italia e ai loro satelliti. Strutture, queste ultime, che succhiano il danaro pubblico e se lo spartiscono con le mafie, privando di risorse e di ossigeno i cittadini e le imprese che non entrano nel loro giro di tangenti, di complicità, di rapina e di violenza. Non è solo questo. Basta controllare i conti di qualunque Comune e appalto, di qualunque ente pubblico, del mio stesso Ateneo sino a quando abbiamo cacciato via coloro che ne hanno devastato le risorse; basta questo per accorgersi che l’Italia è senza speranza e che soltanto una svolta totale potrebbe salvarla. Una svolta che si affranchi dalla subordinazione ai nemici dell’Europa -la finanza ultraliberista che non conosce confini- e ai loro portavoce politici -i partiti liberali, democristiani e socialisti. Una svolta che faccia tabula rasa del ceto politico italiano, assolutamente incapace e indegno.
Un modo di essere apolide, una maniera di stare in esilio, l’ho però trovata. Mi sono affrancato dalla più pervasiva forma di cittadinanza italiana, dall’identità di telespettatore. Mi accorgo infatti che ignoro i riferimenti di molte conversazioni e di numerosissimi interventi che leggo sulla Rete. Non so chi siano centinaia di soggetti che appaiono del tutto familiari a tante persone, anche assai vicine a me. Non conosco nomi, personaggi, situazioni, programmi televisivi. E quando mi accade di incrociare uno schermo acceso sulla tv italiana, sento un senso di profonda estraneità, oltre che di autentica repulsione. Proprio come se stessi osservando degli stranieri dei quali so poco o nulla. Il mio esilio consiste nel non avere un televisore e nel non guardare la televisione. Decisione che presi ormai tanti anni fa e che benedico ogni giorno. Decisione che consiglio a tutti (è più facile di quanto si immagini). Decisione che ha purificato la mia mente dalle scorie della stupidità (rimane, eventualmente, quella mia naturale), dai veleni della menzogna, dal nichilismo profondo di un non luogo nel quale ciò che si vede non esiste ma che milioni di telespettatori credono essere reale. Felice esilio.

 

Expo

L’amico e collega Dario Generali in risposta a Liberi ha scritto:

Caro Alberto, 
premesso che non ho nulla in contrario, in linea di principio, alla TAV, che è un servizio che uso continuamente e che mi pare abbia contribuito a collegare l’Italia lungo il versante tirrenico della penisola, trovo che la mamma di Mattia abbia purtroppo assolutamente ragione nel giudizio che dà della classe politica italiana e della sua corruzione.
 Sono davvero maschere del potere oscene, prive di qualsiasi reale legittimità, perché la loro pratica di governo e le loro intenzioni sono in evidente conflitto con lo spirito della nostra Costituzione e con i più evidenti principi di onestà politica e intellettuale.
 Pure trovo che l’Italia sia da tempo avviata verso una condizione antidemocratica e autoritaria, di cui il progetto dell’Italicum ne è un’evidente riprova, che ci richiama la Legge Acerbo e la scalata al potere del fascismo. In questo clima l’insistito ricorso alla repressione poliziesca rappresenta uno strumento di contenimento e di eliminazione del dissenso, secondo logiche tipicamente autoritarie, che confliggono con quella che dovrebbe essere una regolata e democratica vita civile e politica.

Ringrazio il Prof. Generali per questo denso intervento, con il quale naturalmente concordo, e osservo che il Treno ad Alta Velocità contestato dal Movimento NoTav non è quello della linea Milano-Napoli, certamente utile anche se ormai finanziato a danno e detrimento delle linee ‘normali’, ma quello che dovrebbe collegare Torino a Lione, completamente inutile, economicamente disastroso, tecnicamente irrealizzabile, ambientalmente devastante. 
Voluto però todo modo dalle forze legate alla delinquenza organizzata, alle banche, a Comunione e Liberazione. Questa è la situazione. E sul tema c’è un’ampia documentazione, che la stampa mainstream -megafono degli interessi finanziari- ovviamente ignora quasi del tutto. Anche gli arresti di questi giorni nell’ambito dell’Expo milanese confermano in pieno a che cosa servano ormai le cosiddette ‘grandi opere’.
Un esempio: l’Expo stava devastando i due parchi vicino ai quali abito -di Trenno e delle Cave- con dei fantomatici ‘canali leonardeschi’ di cemento che avrebbero inflitto un danno irreversibile all’equilibrio e alla struttura dei due parchi. Per fortuna la mobilitazione nostra (dei cittadini del quartiere) sostenuta dal Movimento 5 Stelle (unica forza politica a farlo) ha impedito che il progetto fosse portato a termine. 
Questo è per me la politica e spero vivamente che l’Expo milanese fallisca, lo spero per il bene della mia e nostra città. Si tratta infatti soltanto di un’enorme occasione di furto del pubblico danaro da parte della ‘ndrangheta e delle sue interfacce politiche (Forza Italia e Partito Democratico). Pisapia è probabilmente un ingenuo in mano a costoro ma in politica l’ingenuità è un delitto. Ricordo quando Milano sconfisse (nel 2008) la concorrenza di Smirne per l’organizzazione dell’Expo 2015. Ricordo l’esultanza dell’allora sindaco Letizia Brichetto Moratti e dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. Ricordo il loro abbraccio. Ricordo che fu per me un momento di grande amarezza. Perché sapevo che cosa l’Expo sarebbe diventato. I fatti mi stanno dando ragione.

 

Schiavi

Una delle più interessanti e tragiche caratteristiche della vita collettiva consiste nel vedere individui, gruppi, ceti e nazioni affidarsi con fiducia a coloro che operano per la loro distruzione.
Tra gli esempi attuali c’è la fede che non pochi dipendenti pubblici, pensionati, persone senza lavoro nutrono ancora nei confronti del Partito Democratico e del suo governo, in particolare nei confronti del decreto sul lavoro, che costituisce in realtà un ulteriore e grave passo verso la precarizzazione a vita, verso la schiavizzazione, verso la fine di ogni speranza per le nuove generazioni. Per disinformazione, per militanza di partito, per semplice superficialità si rinuncia a un diritto e ci si offre come schiavi. Davvero il potere può fare ciò che vuole anche perché le sue vittime glielo consentono.

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Renzie è dalla parte di Marchionne e contro i lavoratori, senza se e senza ma. Con il decreto lavoro vuole rendere tutti i lavoratori precari. #GlieloChiedeSergio.

«Il 20 marzo 2014 il Governo Renzi ha reintrodotto la schiavitù che per primo soppresse Abramo Lincoln nel gennaio del 1865, con il XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Il lavoro è tornato ad essere schiavitù, la flessibilità è divenuta iperprecarietà. Con il Decreto Legge sul Lavoro, n. 34/2014, assistiamo alla liberalizzazione dei contratti a termine, per la cui stipulazione non è più richiesta una causa di giustificazione oggettiva. Con le innumerevoli proroghe possibili pensate dagli schiavisti del nuovo millennio, e l’estensione della durata massima di successione dei contratti a complessivi 36 mesi, si procede allo smantellamento del diritto al lavoro. Queste disposizioni sono palesemente in contrasto con la direttiva 1999/70/CE, come confermato anche dalla giurisprudenza prodotta dalla Corte Costituzionale italiana e dalla Corte di Giustizia Europea. Il decreto non crea nuovi posti di lavoro ma crea nuovi posti di schiavitù iperprecaria. Inoltre sono state presentate modifiche che consentono di aggirare il pur blando paletto che poneva un limite alle assunzioni a termine pari al 20% rispetto al totale della forza occupata»

 M5S Camera

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Gadda, l’anarchico

Eros e Priapo
Da furore a cenere
di Carlo Emilio Gadda
Introduzione di Leone Piccioni
Garzanti, 2001 (1963)
Pagine 175

gadda_eros_priapo«Dopo i nove mesi di soggiorno nel Grand Hotel materno» (pag. 132) si viene gettati «sulla scena tragica e in un tempo carnevalesca del mondo» (169), dove identità e relazioni, speranze e sogni, angosce e disincanti frullano nel mulino del tempo. E nel tempo accade la “storia”, questa sequela di progetti e di morte, di bandiere e di soldi, di utopie e di ferocia.
Una feroce farsa fu agli occhi di Gadda il fascismo, la cui più intima forza e ragione di successo è data dal consentire profondamente con il carattere degli italiani, con la loro vicenda di servitù, di furbizia e di finzioni. «E i dimolti italioti di cui Modellone Torsolone incarnava come non altri la fatua scempiaggine e la livida malafede, sentivano risuonar di sé l’una e l’altra per συμπαθεια co’ le grandezze ricattarorie di lui: e ad ogni nuova sparata entravano secolui in vibrazione armonica» (76).
Infanti male e poco cresciuti, gli italiani si fecero governare per vent’anni da un “folle narcisista” la cui grottesca teatralità è il cuore di questo libro inclassificabile e furioso. Dal balcone il duce emanava «i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e ‘l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza villana» (42). Proclamatosi «genio tutelare» dell’Italia, «la redusse a ceneri ed inusitato schifo» (66), la ridusse a un’apparente grandezza, «in realtà scempiata grandiloquenza» che «altre genti meno verbose e più serie calpesteranno» (141), mandando a morire senza pietà, senza intelligenza e senza gloria i «sacrificati figli d’Italia», verso i quali «lui non ebbe amore per nulla, se non simulato e teatrale» (71), poiché tutto nel duce «è sfarzo baggiano da fuori, e nulla è angoscia vera da dentro» (152), «sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro» (156).
La descrizione di Benito Mussolini -l’uomo, il politico, il massimalista, il capo del regime, l’ideologo, il maschio- è realistica sino alla documentazione, per quanto trasfigurata nella incredibile e magnifica lingua di Gadda.

Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè, son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. […] Pervenne, pervenne. Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, e che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. […] Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiere di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!). Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile: datoché a guerra non serve: il vecchio cortello italiano de’ chiassi tenebrosi e odorosi, e degli insidiosi mal cantoni, la meno militare e la più abbietta delle armi universe. […] E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio. Si tenne a dugèn chilometri di linea. Riscappò via co’ sua cochi e marmellate dell’ulcera. Scipione Affricano del due di coppe. (27-28)

Questo fu, davvero, Mussolini e l’Italia con lui. Una descrizione esatta del fenomeno fascista nei suoi risultati storici e nella scaturigine dall’«Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo» (143), dell’«ismodato culto della propria facciazza», che sarebbe disposto anche a morire pur di andar a finire sui giornali (147 e 157), volendo tutto imbarcare «nell’Arca onnialbergatrice della propria insaziabile vanità e stoltezza» (152) poiché la “persona” dell’antropologia narcisistica e fascista «è persona scenica e non persona gnostica ed etica» (145).
Il discorso politico diventa subito discorso biologico, da esso inseparabile come il frutto è inseparabile dal suo involucro. Frutto la biologia, involucro la politica. Egli, il Duce Mussolini, agì sulle donne allontanando i concorrenti, gli altri uomini, ergendosi quale maschio dominante, e ciò con ogni strumento del potere politico, anche il più violento. Poiché soltanto lui, solo il “kuce” era «detentore de i’ barile unico e centrale dello sperma» (63). L’immenso virilismo fascista -«dacché tutto era, allora, maschio e Mavorte: e insino le femmine e le balie: e le poppe della tu’ balia, e l’ovario e le trombe di Falloppio e la vagina e la vulva. La virile vulva della donna italiana» (68)-, questo virilismo fece presa sulle donne, sul loro arcaico e naturale culto del fallo, che però nella modernità utilitaristica e non più sacra si fece obbedienza cieca ai dogmi del regime e non orgiastica libertà dai divieti. A tale culto, un misto di invidia ed emulazione, si accodarono e sottomisero naturalmente molti maschi.
In questo modo Eros coincide con Priapo, e dunque con una sua parte, essenziale sì ma non esclusiva e unica. Poiché «Te, se ami, a un certo punto di Io te tu diventi Tu» (169) e invece il culto assoluto che la personalità narcissica rivolge verso se stessa -perché altro non sa fare-  costituisce la negazione più evidente dell’Eros, la caricatura, la farsa. Vera cifra, quest’ultima, dell’Italia fascista e del suo Capo.
Il libro di Gadda dispiega in questo e in altri modi la propria natura anarchica. Che vuol dire impianto anticlericale1, antimilitarista2, antipatriottico3, avverso soprattutto a ogni omologazione, conformismo, servitù, per quanto volontaria. «La cosiddetta “civiltà contemporanea”, in realtà sudicia e inane verbosità, ha reso inetti i cervelli di miliardi di uomini a esercitare la benché minima funzione critica nei confronti della carta stampata, del proprio giornale in ispecie» (157). Allora il giornale, oggi ancora la stampa ma soprattutto la televisione, nella quale Gadda lavorò e che è diventata ora il luogo della più irredimibile volgarità. Quella volgarità della quale il Fascismo e il suo Duce furono emblema.


Note

1. «Religione non è l’accomodarsi col Papa per l’averne o sperarne licenza o assistenza alle sbirrerie e alle ladrerie, non è il battezzare le navi da guerra con l’asperges, non è il berciare da i’ balcone “la santità della famiglia” per poi spaparanzarsi adultero ai tardi indugi di un sonnolento tramonto» (48)
2. «Sadismo è il modo della guerra, è l’arma naturale della guerra, di ogni guerra pensabile» (113).
3. «Gli occhî tuttavia mi si velano pensando i sacrifici, i caduti, il giovine spentosi all’entrare appena in quella che doveva essere la vita, spentosi a ventun anno appiè i monti senza ritorno: perché i ciuchi avessono a ragghiare di patria e di patria, hi ha, hi ha, eja eja, dentro al sole baggiano della lor gloria. Che fu gloria mentita» (72).

 

La Grande Impostura

«Si ripete, anche nel nuovo governo, lo stesso schema che abbiamo visto da qualche tempo: il ministero dell’economia è stato assegnato a un cosiddetto tecnico. La trasformazione delle scelte di politica economica in scelte tecniche, e dunque in qualche modo inevitabili e necessarie, è uno dei più grandi inganni di questi anni che è stato effettuato con la complicità di una politica ormai esautorata di ogni reale potere d’azione e a spese di una opinione pubblica anestetizzata dai grandi media che ha perso ogni riferimento culturale oltre che politico.
Questa situazione è spiegata magistralmente da Luciano Gallino nel suo libro Il Colpo di Stato di Banche e Governi (Einaudi, 2013) […] Le fasi della la crisi economica scoppiata inizialmente come una crisi bancaria e finanziaria innescata da una crisi di debito privato dovuto a un’incontrollata creazione di “denaro dal nulla” nella forma dei titoli derivati da parte delle banche sia in Europa che in America.
Quando questo castello di carte è crollato, con dei costi enormi per milioni di persone, il governo americano ha sostenuto le banche per quasi trenta trilioni di dollari, nella forma di prestiti e garanzie, in parte rientrati e in parte no, mentre alla fine del 2010 la Commissione Europea ha autorizzato aiuti alle banche per più di 4 trilioni di dollari. Con questi interventi la crisi finanziaria, che fino all’inizio del 2010 era una crisi di banche private e non si era tramutata in una catastrofe mondiale, è stata caricata sui bilanci pubblici che così hanno salvato i bilanci privati. In quel momento le parole d’ordine, diffuse dai principali media, sono diventate però altre: eccesso di indebitamento degli stati, eccesso di spesa pubblica, pensioni insostenibili, spese per l’istruzione “che non ci possiamo più permettere”, ecc. E come conseguenza, anche per rispettare i nuovi provvedimenti, primo tra cui l’incredibile norma del pareggio di bilancio inserita in Costituzione senza una discussione pubblica da un parlamento quantomeno distratto, è stato fatto passare senza grandi difficoltà il messaggio che  lo Stato spende troppo e dunque che è necessario tagliare le spese pubbliche: asili, scuole, sanità, istruzione, ricerca, pensioni, ecc. […]
Come osservato dallo storico Massimo L. Salvadori, l’economista Vilfredo Pareto, convinto che la democrazia fosse un’illusione, scriveva “La plutocrazia moderna è maestra nell’impadronirsi dell’idea di eguaglianza come strumento per far crescere, di fatto, le disuguaglianze”. Era il 1923: oggi siamo sempre allo stesso punto».
[Fonte: La grande mistificazione della crisi finanziaria, Roars, 14.3.2014]

Condivido interamente le parole di Francesco Sylos Labini e invito a leggere la versione integrale (poco più ampia) della sua analisi. In essa si fanno evidenti i profondi intrecci tra gli stati, le banche e la comunicazione. Diventano dunque  molto chiari almeno due elementi: dove risieda il nucleo del potere contemporaneo e quali siano le vere ragioni del fallimento ormai storico e totale di ciò che si è chiamato «Sinistra». In tutte le sue forme istituzionali e parlamentari i partiti di sinistra hanno assimilato integralmente i princìpi che stanno a fondamento della Grande Impostura. Ed è per questo che non hanno senso -se non quello marxiano del mascheramento- le differenze in Europa tra Schultz e Tsipras e in Italia quelle tra Bersani, Renzi, Civati, Vendola, Fassina e altri soggetti che hanno portato a compimento la dissoluzione di qualunque analisi critica dell’economia politica, accettando totalmente una diagnosi fasulla di quanto sta accadendo. Ed è per questo che bisogna farla finita con la sinistra, è per questo che abbiamo bisogno di altre prospettive, di altre rivolte, che partano dal tessuto sociale e non dai partiti, come l’anarchismo ha sempre sostenuto.

 

Potere / Grottesco

Teatro Stabile –  Torino
L’ispettore generale
(1836)
di Nikolaj Vasil’evič Gogol’
Con: Alessandro Albertin (il sindaco), Luca Altavilla (Pëtr Ivanovic Dobcinski 1), Alberto Fasoli (il giudice), Emanuele Fortunati (Pëtr Ivanovic Dobcinski 2), Michele Maccagno (sovrintendente alle opere pie), Fabrizio Matteini (ispettore scolastico-commissario di polizia), Eleonora Panizzo (la figlia del sindaco), Silvia Paoli (la moglie del sindaco), Pietro Pilla (Osip), Alessandro Riccio (ufficiale postale), Stefano Scandaletti (Ivan Aleksandrovic Chlestakov)
Scene di Paolo Fantin
Costumi di Carla Teti
Regia di Damiano Michieletto
Sino al 9 marzo 2014

Un bar sporco e decadente in una cittadina sperduta da qualche parte nel mondo. Il televisore sempre acceso sul vaniloquio dello spettacolo. Il locale è abitato dal sindaco affarista e cialtrone, ben coadiuvato dal direttore ospedaliero, dal giudice, dal provveditore agli studi, dall’ufficiale delle poste. Se la vivono e se la spassano con i soldi pubblici, che si dividono con commercianti e appaltatori, intascando tangenti e scambiandosi favori.
Finché non si diffonde la notizia dell’arrivo dalla Capitale di un ispettore generale in incognito. Panico. Smarrimento. Organizzazione di piani per neutralizzare il funzionario. Prima di tutto il danaro, è ovvio. Si cercano i segni della presenza dell’ispettore e lo si identifica in un giovane squattrinato che da giorni è ospite in uno degli alberghi della città. Tutti si convincono che l’ispettore sia lui e lo riempiono di lusinghe, di soldi, di compiacenza, compresa quella della moglie del sindaco. Il fortunato soggetto sta naturalmente al gioco. Intasca tutto quello che può, promette di sposare la figlia del sindaco e se ne va con i soldi che ha racimolato. Sicuri di imparentarsi con un simile potentato, si fa una grande festa in discoteca, si beve e si sogna a più non posso. Sin quando un piccolo particolare fa emergere la verità. A questo punto la figlia del sindaco (che sino ad allora aveva subìto tutto con umiliazione) comincia a ridere e a impacchettare nel cellophane l’intera combriccola, immobilizzata nell’istante in cui dalla bocca di ciascuno vengono fuori delle banconote.
Il testo di Gogol’ è un’immagine immortale dell’umano infetto e complice. Questa magnifica messinscena ne esalta ogni fibra, ogni parola, ogni intenzione e ogni divertimento. Una spettacolare rappresentazione del potere nella sua essenza sempre grottesca, miserabile e corrotta.

Briganti

Eugenio Bennato
«Ninco Nanco»
(YouTube)
Dall’album «Questione meridionale» (2011)

Giuseppe Nicola Summa -detto Ninco Nanco– fu uno dei più determinati guerriglieri che si opposero alla conquista piemontese del Regno di Napoli. Naturalmente venne ucciso. Eugenio Bennato gli ha dedicato una canzone che ha il merito di mettere in discussione la storiografia dei vincitori; discussione aperta ormai da tempo. Uno dei documenti letterari più celebri ed efficaci nel delineare il cuore di tenebra della conquista sabauda e della reazione meridionale è Il Gattopardo.
Mio nonno si chiamava Biagio Biuso (detto Brassi Manazza, 1887-1971). La foto qui sopra lo ritrae. Tutt’altro che brigante, era un uomo dolce e riservato. A lui dedico questo ascolto perché fu in ogni caso uno «zappaterra», un contadino analfabeta che conobbe la fatica riarsa di Sicilia, il dolore dell’emigrazione in Argentina, il ritorno senza soldi, la solitudine che si accompagna al bisogno. Un riscatto lo abbiamo avuto, nonno, e anche queste pagine lo testimoniano.

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