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Da da da

Da da da è una scanzonata e insieme realistica canzone composta ed eseguita dal gruppo tedesco Trio nel 1982. Il verso principale recita «Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht», ‘io non ti amo, tu non mi ami’; forse è quanto alla fine si dicono, possono dirsi, gli umani tra di loro.
Questo brano chiude magnificamente Il divo di Paolo Sorrentino, un film doloroso e splendido, dedicato a ciò che nelle sue lettere Aldo Moro (1916-1978) definì il «cupo sogno di gloria» di Giulio Andreotti (1919-2013), un uomo il quale – è sempre Moro a parlare –  ha «conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita». Che quest’uomo sia stato uno degli ‘statisti’ dell’Italia repubblicana dice molto su che cosa sia stata e sia l’Italia.
Sul plesso storico Italia-Moro-Andreotti consiglio di vedere anche un altro film: Esterno notte di Marco Bellocchio.

Ma torniamo al Trio e al suo ritmato divertimento:

-Brano su Spotify
-Brano su YouTube

Was ist los mit dir mein Schatz? Aha
Geht es immer nur bergab? Aha
Geht nur das was du verstehst? Aha
This is what you got to know.
Loved you though it didn’t show 

Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht
Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht
Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht
Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht

Da da da
da da da
da da da
da da da

So so,
du denkst es ist zu spät, aha.
Und du meinst, dass nichts mehr geht, aha.
Und die Sonne wandert schnell, aha.
After all is said and done
It was right for you to run

Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht
Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht
Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht
Ich liebe dich nicht, du liebst mich nicht

Da da da
da da da
da da da
da da da

Asfissia

Dopo la pubblicazione del mio breve intervento sulla Russia un amico che conosce la lingua di quel Paese e i suoi social network mi ha confermato che «la libertà e durezza dei commenti sugli account ufficiali russi contro il governo o suoi rappresentanti qui probabilmente porterebbe la digos in casa».
Come si vede dal gravissimo episodio di Desio (Provincia di Monza e Brianza), queste parole sono vere alla lettera. In Italia non è lecito criticare persino i governi di altri Paesi, persino gli evidenti genocidi da essi perpetrati. La società occidentale respira sempre più a fatica e i suoi membri vanno diventando semplice carne da obbedienza.
Lo avevo previsto (ma era facile) in un intervento del luglio 2021, dal titolo Il piano inclinato.

Qohélet, la Sicilia

Iddu
di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Italia, 2024
Con: Elio Germano (Matteo), Toni Servillo (Catello Palumbo), Daniela Marra (Rita Mancuso), Fausto Russo Alesi (Emilio Schiavon), Barbara Bobulova (Lucia Russo), Antonia Truppo (Stefania), Betti Pedrazzi (Elvira)
Trailer del film

«Mio padre è morto tra le pecore e io vivo come un topo». Questo pensa e dice con amarezza Matteo, capomafia di una imprecisata zona della Sicilia. Devotissimo al padre Gaetano, ne assume alla morte eredità e ruolo, vivendo per decenni come latitante in una abitazione del suo stesso paese e da lì continuando a dare ordini di violenza e di morte, pur vivendo appunto come «u suggi». Tra le lettere e comunicazioni, assume un ruolo centrale il rapporto con Catello Palumbo, suo padrino di cresima ed ex sindaco del paese. Tornato da sei anni di detenzione, Palumbo viene costretto dai servizi segreti a partecipare a un’operazione il cui scopo sembra l’arresto di Matteo.
Sembra. Tutto è cangiante e simbolico nel cinema di Piazza e Grassadonia. Un cinema intessuto della deformazione dello spazio, del tempo, della memoria, delle vicende. I silenzi e la desolazione di Salvo (2012); la tenerezza e la crudeltà di Sicilian Ghost Story (2017) si trasformano nel grottesco di Iddu, un’opera che scende scende negli abissi insensati dell’esistenza siciliana, tra finti vivi, vivi a metà, morituri i quali «vivono giorni contati di vita inutile», come ancora una volta Matteo afferma. Questo criminale è un lettore attento della Bibbia e in particolare del Qohélet o l’Ecclesiaste che legge nella edizione Einaudi tradotta da Guido Ceronetti. 

E tutto il film è pervaso della dimensione biblica, di citazioni dall’antico testamento, di quello Havèl havalím, vanità delle vanità o – come Ceronetti traduce- «fumo di fumi / Polvere di polveri / tutto fumo / polvere» (Qohélet o l’Ecclesiaste, Einaudi 1988, 1,2). Davvero la vita dei mafiosi che sparano e di quelli che decidono a chi e perché sparare è «orrore / Perché per me è tutto male / Qualsiasi cosa si faccia sotto il sole (2.17).
In questo film, come nel Qohélet, la donna è «amara più che la morte» (7.26) e il mangiare-bere-godere è l’«unico bene dell’uomo» (2.24). Se qualcosa si vuol pur capire, è meglio non attribuire colpa al mondo o al dio e comprendere, invece, che «dal cuore dei figli d’uomo / Trabocca il male» (9.3), che se una sapienza è possibile essa sta nel comprendere l’insignificanza degli umani e il loro limite in un universo perfetto nella sua indifferenza. Certo, forse al crescere della conoscenza «più grave si fa il tormento» (1.18) e tuttavia soltanto uno sforzo di sapienza può diradare un poco le tenebre del mondo. Quella sapienza che è più forte delle armi e di ogni semplice violenza, sapienza che è anch’essa un’ombra ma che «illumina il viso» (8.1) ed è «la vita di chi vive per lei» (7.12).
Nella sua ignoranza e rozzezza Matteo percepisce e sente la verità di ciò che legge nel Qohélet, soprattutto percepisce e sente che «felice» è chi «ancora non è stato», ancora non è nato e meglio sarebbe che non nascesse (4.3).

Il finale della storia conferma che latitanze di decenni dei mafiosi sono possibili soltanto perché le istituzioni della Repubblica non costituiscono l’altro di Cosa Nostra ma sono una loro espressione. Per chi conosca anche solo da lontano e per fugaci occasioni qualche mafioso, appare del tutto evidente che si tratta di persone inconsistenti, rozze, quasi analfabete, di pecorai arricchiti, di individui senza strumenti che non siano un’arma in mano. Persone che la forza militare e giuridica di uno Stato contemporaneo non avrebbe nessuna difficoltà a spazzare via. Se invece costoro controllano ancora territori ed economie è perché godono della protezione di imprenditori, forze dell’ordine, magistrati, presidenti di amministrazioni, presidenti del consiglio, presidenti della repubblica. Soggetti, questi ultimi, che non sono l’altro della mafia ma sono la mafia, come la vicenda della cosiddetta «trattativa» ha confermato.
Disperante da pensare e da dire? Forse. Ma non per un siciliano, che tutto questo lo vede – se lo vuole vedere – da quando è nato. E io lo vedo. Meravigliosa l’interpretazione di Elio Germano come Matteo ed è sempre una gioia vedere recitare Toni Servillo, qui nei panni del sindaco complice e traditore del capomafia.
A Matteo il padre aveva affidato un «pupo», un antico bronzo greco, raccomandandogli di non venderlo mai, di tenerlo sempre con sé. Simbolo, forse, di ciò che l’Isola è stata nei millenni che hanno eretto i templi agrigentini, Segesta, Selinunte, luoghi dove la mafia di Sicilia è oggi ancora padrona. Emblema di una Sicilia libera certo non dal male (questo da nessuna parte è possibile) ma da un male così rozzo, così inutilmente feroce, così insipiente, come quello di Cosa Nostra.

Nel Tirreno

La chimera
di Alice Rohrwacher
Italia, 2023
Con: Josh O’ Connor (Arthur), Carol Duarte (Italia), Isabella Rossellini (Flora), Alba Rohrwacher, Vincenzo Semolato (Pirro)
Trailer del film

La bellezza dei pagani, la loro consapevolezza della morte, gli dèi diventati marmo, la loro presenza negli oggetti di uso quotidiano, le tombe dell’Etruria e la ricchezza della vita e della morte.
I tombaroli che cercano questi luoghi, li scavano, li depredano, ne vendono i ritrovamenti a impeccabili società d’aste e a eleganti collezionisti, questi tombaroli nulla sanno del mistero che avvolge le cose, il buio, i millenni. Conoscono soltanto le banconote per campare. Campare nella sporcizia e nei sogni. Arthur invece è un rabdomante, un ‘maestro’, uno che sente le tombe e indica dove scavare, è un archeologo. Durante un furto alle tombe gli altri scappano e soltanto lui viene arrestato. Liberato tramite l’intervento di Spartaco, un ricco e misterioso collezionista, torna alla sua baracca di alluminio sotto le mura di una città toscana. I compagni di impresa lo rivogliono con sé, anche se lui preferisce far compagnia a una vecchia signora della cui figlia è (era?) fidanzato. Una signora circondata da altre figlie e da una giovane brasiliana che impara da lei il canto e l’accudisce.
Ritornano le antiche imprese, Arthur non può vivere lontano dalle tombe, ritornano i furti, la miseria e il denaro, ma anche i simboli, i miti, l’enigma, la bellezza suprema «che occhi umani non possono vedere» e un’espressione della quale precipita nel Tirreno dopo essere venuta alla luce. Miti d’amore anche, miti di scansione del tempo (una festa delle befane/streghe), oggetti apotropaici, i volti degli dèi. E infine come sempre la morte, verso la quale l’itinerario di Arthur è diretto.
Morte che non è quella degli umani attuali, destinati in ogni caso a finire, ma dei morti antichi le cui dimore vengono violate non dai tombaroli, non dagli archeologi ma dalle industrie chimiche che affondano le loro costruzioni dove i morti abitano, rendendo mortale la terra e il mare.
Una magia percorre questo film, l’incanto della bellezza presente e perduta, l’enigma di civiltà aliene, completamente aliene dall’oggi, come quella degli Etruschi, le voci dei cantastorie, la sacralità che il finire dopo essere nati assume sempre agli occhi degli umani ἐφήμεροι, degli umani che niente sono nell’immensità della materia e del tempo. Qualcosa di struggente attraversa La chimera, qualcosa di perduto. Del quale è parte l’Italia degli anni Ottanta, poco prima che essa fosse svenduta alla globalizzazione, messa al servizio dell’Unione Europea e della sua Banca Centrale, degli Organi della finanza, venduta come un reperto di millenaria bellezza il cui unico valore è lo scambio, il mercato.

Titoli di laurea e dottorato di ricerca

Uno degli inevitabili effetti delle lauree attribuite da parte delle Commissioni universitarie senza alcun merito dei candidati (lauree insomma regalate) è che esse valgono sempre meno.
La situazione si aggrava se si osserva che anche a candidati dal percorso modesto e con una tesi di laurea altrettanto ‘nella norma’ viene sempre più attribuito il voto massimo e la lode. In alcuni Dipartimenti del mio Ateneo – vari corsi di medicina ad esempio – il «110 e lode» è diventato pressoché ‘di default’ e anche in altri settori si va nella stessa direzione.
Un fenomeno inflattivo di questa natura e portata ha l’effetto di cancellare il significato e il valore delle lauree con lode ottenute da chi davvero le merita e, in generale, di svuotare il valore legale del titolo di studio. Effetto che rappresenta una grave ingiustizia sociale e impedisce che l’impegno, lo studio, i risultati ottenuti funzionino anche da ascensore sociale. Tutti laureati con 110 e lode significa infatti nessun laureato con 110 e lode. E subentrano, inevitabili, i privilegi delle condizioni sociali e familiari di partenza.
Una prova evidente di questa perdita di valore legale e sostanziale delle certificazioni di laurea è il bando di concorso di un Premio assai interessante che l’amministrazione della città di Recoaro dedica da quest’anno a uno dei suoi ospiti più famosi: Friedrich Nietzsche.
In un’altra pagina di questo sito ho invitato a partecipare a tale concorso (l’abstract va inviato entro il 30.1.2024). Ma quali studiosi potranno partecipare al concorso? Quali sono i requisiti? Sono due: uno è l’età massima «non superiore ai 40 anni», l’altro è il «possesso del titolo di dottore di ricerca».
E infatti molti studenti hanno cominciato a capire che la laurea magistrale vale sempre meno e si presentano numerosi ai concorsi per entrare in un Dottorato di ricerca, il quale non garantisce comunque nulla né sostanzialmente né giuridicamente sul futuro, una volta conseguito il titolo. E tuttavia il diploma di dottorato viene percepito sempre più come la vera laurea, visto che quella nominale cessa di avere significato e prestigio. I posti disponibili nei dottorati sono però pochi; in ogni caso sono assai meno rispetto alle candidature. E questo produce frustrazione in chi concorre e non accede, pur avendo spesso un’ottima formazione.
Sarebbe stato del tutto naturale, in condizioni normali, aprire ai possessori di una laurea magistrale il concorso dedicato a Nietzsche. Ma tali lauree non garantiscono più l’acquisizione di solide competenze, dato che appunto vengono regalate con facilità dagli Atenei. E vengono regalate anche perché è stato il Parlamento italiano, sono i governi italiani a premere verso tale direzione. Esiste una norma infatti che penalizza Dipartimenti e Atenei che vedono iscritti molti studenti «fuori corso». Penalizza vuol dire che tali Dipartimenti e Atenei ricevono meno finanziamenti dallo Stato. La soluzione più facile per le Università è dare la laurea a tutti gli iscritti (e farlo in fretta), che essi la meritino o meno. Come ha affermato Eugenio Mazzarella, a questo punto sarebbe opportuno dare il certificato di laurea insieme al certificato di nascita (il corso ovviamente a scelta dei genitori), in modo che tutti i cittadini risultino laureati.
Il danno funzionale per la società italiana in termini di competenze dei suoi membri laureati e il danno esistenziale e collettivo in termini di giustizia sociale è enorme. Ma molti studenti e le loro famiglie continuano a festeggiare con spumante, corone d’alloro e botti il conseguimento di un titolo dal valore sempre più insignificante.
Anche questo è un modo per mantenere il corpo sociale in una condizione infantile. Tale dramma educativo conferma che si fa di tutto, davvero todo modo, per non far pensare le persone. Dalla scuola ridotta ad assistenza sociale alla televisione del tutto obbediente e menzognera, alle grandi distrazioni costituite dai social network e da casi di cronaca nera seguiti dai media per settimane e settimane, si opera allo scopo di evitare che le persone diventino libere, competenti, critiche, mature. Questo è sempre stato l’obiettivo dell’autorità ma nel presente esistono mezzi assai efficaci per raggiungerlo (ho parlato in modo più ampio e argomentato di tutto questo in un saggio del 2019 dal titolo La scuola del liberismo e la crisi delle scienze europee).
Questo il testo del bando per chi intende, e può, partecipare al concorso nietzscheano:
Primavera 1881, Nietzsche a Recoaro: la straordinaria bellezza

[L’articolo è stato pubblicato anche su girodivite.it]

Vicoli e capitali

Ci sono dei luoghi che rappresentano una sintesi, un’epitome, un simbolo, un’antologia.
Il complesso di chiese, chiostri e monastero di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è uno di questi luoghi. L’ho visitato in occasione della presentazione di Chronos alla Federico II. Vi sono arrivato attraversando i vicoli e le piazze (vivacissima Piazza Dante) dei Quartieri Spagnoli, vero cuore della città, antico e del tutto contemporaneo. Li abita un’umanità variegata, dal linguaggio e dai costumi immutati nei secoli; un’umanità creativa e teppista, che lascia le automobili negli angoli più impensati, compreso il centro delle strade; un’umanità rassegnata e vibrante.
Su una piccola altura preceduta da una fontana, Monteoliveto, sta una chiesa che è quanto rimane di un antico monastero dei monaci olivetani. La facciata è sobriamente rinascimentale, l’interno coniuga il Rinascimento con il proliferare del Barocco, con il suo tripudio di forme, colori, ornamenti, putti, folle, estasi.
Il tesoro di questo luogo è la Sagrestia affrescata da Giorgio Vasari nel 1544-1545. In basso le tarsie lignee di Giovanni da Verona, in alto una vera e propria cosmologia che raffigura le costellazioni, le virtù e gli archetipi della Religione, dell’Eternità e della Fede [immagine di apertura].
La Sagrestia è preceduta da una cappella con l’insieme di terracotta del Compianto del Cristo morto scolpito da Guido Mazzoni nel 1492. Le statue a grandezza naturale esprimono la forza del dolore umano, la disperazione dell’irreparabile, l’amore e il rimpianto per chi più non è, una vera e propria lacerazione dell’esserci.


L’insieme dei luoghi, delle cappelle, delle opere di Monteoliveto conferma il dato antropologico della inseparabilità di mito, bellezza e tragedia che intrama tutte le forme religiose autentiche, di qualunque luogo e civiltà. Il cattolicesimo rappresenta uno degli esempi più compiuti di questo plesso di significati e di vita, una ricchezza che deve alla sua continuità con la civiltà del paganesimo mediterraneo. Osservata da questa prospettiva, la Riforma luterano-calvinista non è neppure una religione ma è un’ideologia politico-moralistica. Persino l’Islam, nonostante il divieto di raffigurare forme umane e animali, ha trovato la strada di espressioni artistiche che non descrivono persone ma costruiscono geometrie di grande eleganza. Nulla di tutto questo nell’ebraismo, che è figurativamente miserrimo e con il quale il cristianesimo riformato volle porsi in continuità nonostante l’accesso antisemitismo di Martin Lutero.
Ancora una volta e a ogni viaggio Napoli si conferma una città dalla scoperta infinita, città potente, viva e dai connotati antropologici che ne fanno la vera capitale d’Italia. 

Senso di responsabilità

Da una notizia dell’AGI del 14.8.2023:
«Dopo la fine dell’obbligo di isolamento nuovo cambio di passo del governo sulla gestione del Covid. Se il 2021 e il 2022 sono stati gli anni degli obblighi, il 2023 sarà invece quello della responsabilità. In autunno, infatti, la nuova campagna vaccinale sarà la prima senza alcuna imposizione. Neppure per gli operatori sanitari».

Fonti: 

Naturalmente mi aspetto che quanti si sono inoculati tre dosi non si fermino e dall’autunno prossimo mostrino «senso di responsabilità» proseguendo nella loro cura preventiva per sé e per gli altri, soprattutto gli operatori sanitari, gli ultrasessantenni e le donne in gravidanza ma poi tutti i cittadini vaccinati con tre dosi.
Se non lo dovessero fare, confermerebbero il sospetto che si sono inoculati soltanto per obbligo, per paura delle sanzioni e di perdere il lavoro, per il condizionamento televisivo e non per convinzione, cosa molto grave dal punto di vista sia sanitario sia civile.
Attendo dunque con fiducia che i cosiddetti «hub vaccinali» si riempiano di nuovo di cittadini responsabili.

 

[Foto di Helena Lopes su Unsplash]

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