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Goya

Goya
La ribellione della ragione

Palazzo Reale – Milano
A cura di Victor Nieto Alcaide
Sino al 3 marzo 2024

A Francisco Goya Milano aveva dedicato nel 2010 un’ampia mostra. Questa nuova occasione di incontro con uno dei massimi artisti europei conferma tutto ciò che allora ne pensai, in particolare questa frase: «Goethe scrisse che, se visti dall’altezza della ragione, la vita appare una malattia e il mondo un manicomio. E sono esattamente questa vita e questo mondo che Goya disvela nella loro chiara e dolente assurdità» (Goya y Lucientes).
Si tratta infatti di un’opera che a ogni contatto mostra di essere nuova e diversa, di aprire corridoi nella comprensione del mondo, di attirare come un magnete lo sguardo. E di essere l’incunabolo di tutta la pittura moderna, a partire dalla sua stessa varietà e dalla tecnica davvero perfetta. Scrive infatti il curatore della mostra: «L’espressività tracima oltre la rappresentazione, mentre il colore è del tutto arbitrario. Dipingere tenendo conto del disegno presupponeva fedeltà al tema e alle norme stabilite. La rinuncia al disegno, il protagonismo della pittura, l’autonomia del colore, il valore in sé e per sé della materia pittorica e di una pennellata libera ed espressiva, l’originalità di soggetti che sorgono dall’immaginazione dell’artista e non da un’iconografia costituita fanno di Goya l’autore del primo capitolo della storia della pittura moderna». L’artista è del tutto consapevole di tale autonomia della forma, tanto è vero che in occasione di una relazione tenuta il 14 ottobre 1792 in un’Accademia di Belle Arti affermò che «non ci sono regole in pittura […], l’obbligo servile di far studiare o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima, che più di ogni altra si avvicina al divino».

A volte le figure si dissolvono, frastagliate nei confini delle loro forme diventate ciò che poi si chiamerà impressionismo, ad esempio ne La cattura di Cristo (1797-98)

Altre volte invece i confini degli enti e dell’accadere sono netti e potenti, come in tutta l’arte rinascimentale. E ovunque pulsa una forza lucida e disperata che è l’essenza stessa di ogni espressionismo. Le due serie di incisioni dal titolo Disastri della guerra e Capricci costituiscono le manifestazioni più note e conturbanti di tale espressionismo. I Disastri sono infatti quasi una cronaca senza infingimenti e insieme onirica dell’orrore che ogni guerra è e produce. I Capricci dispiegano gli incubi, il grottesco, l’insensato che abita nelle cose e negli eventi, dispiegano gli archetipi stessi del male e del dolore, della ὕβρις che abita i fatti umani.

Un’impresa eroica! Con_morti!

Nei Ritratti l’arte di Goya si fa limpida, inquietante e profonda. Sono ritratti che colgono una sostanza stranamente e impossibilmente immortale dei corpi. In queste opere Goya conferma il suo sguardo oggettivo e insieme partecipe e tragico alla vicenda umana.

Marianito (1813)

Tragicità, inquietudine e grottesco rendono questo artista assai vicino, pur in ogni differenza, a uno dei vertici del delirio e del genio, a Hieronymus Bosch. Lo avvicinano certamente nei Capricci e nei Disastri ma anche in alcune opere emblematiche e fondanti come la Processione di flagellanti (1808-812, immagine di apertura) e Il Colosso (1808), nel quale la dismisura della figura che sta al centro emerge su una pianura di attività minute, frenetiche e oscure, attraversate come dal lampo di un sogno.

Lampo, fulmine, bagliore e sfolgorio si distendono spesso nella luce pacata e diffusa che Goya assorbì da Rembrandt e che lo rendono, non soltanto per il tempo nel quale visse ma per la declinazione che di questo tempo diede, uno dei massimi artisti dell’Illuminismo, di una ragione che si ribella, sì, perché da se stessa ha compreso i limiti di ogni sogno razionalista sull’irrazionalismo costitutivo della vicenda umana.

Autoritratto al cavalletto (1785)

Dotti, medici e sapienti

Edoardo Bennato
Dotti, medici e sapienti
da «Burattino senza fili»
(1977)

La solennità del barocco fa da ironico fondamento a questa ribelle e divertente messa alla berlina dei medici asserviti all’autorità, ai costumi, al conformismo.

«Al congresso sono tanti,
dotti, medici e sapienti,
per parlare, giudicare,
valutare e provvedere,
e trovare dei rimedi
per il giovane in questione» 

Eh sì, al congresso della televisione trasformata in sede di primari e luminari della medicina asservita a Pfizer e alle altre aziende farmaceutiche; al congresso di un Parlamento ridotto a un insieme di automi obbedienti agli ordini dei conti e dei draghi; al congresso della malafede o, peggio, di una pura e immedicabile stupidità e creduloneria, si sono riuniti in tanti. In tanti sono stati e in tanti continuano a essere.
Non soltanto medici ma anche dotti e sapienti di ogni disciplina, rettori universitari, giornalisti che hanno «toujours un maître, parfois plusieurs» (Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard 1992, § VII, p. 31). E insieme ai dotti, medici e sapienti, al congresso dell’irrazionalismo e del servaggio si è unita gran parte del corpo collettivo, milioni di persone.
Ora si viene a sapere che stanno morendo in tanti, e ancor più si stanno ammalando sistematicamente e periodicamente, che gli effetti si sentiranno sul lungo periodo, che tanti giovani e ragazze rimarranno sterili (benedetto vaccino!)
Di fronte a tale spettacolo di sciocca obbedienza al male contro se stessi, rivendico di essere rimasto l’anarchico che ero a 17 anni, di essere rimasto «questo giovane malato» che «so io come va curato / ha già troppo contagiato / deve essere isolato».
Meglio da solo, infatti, che in una compagnia così triste.

Astrattezza e dissoluzione

Il presente come dissoluzione. Questo si osserva ogni giorno e sempre di più. Forme di dissipatio del legame sociale sono il liberismo e il capitalismo. In contrasto con le società tradizionali, infatti, «dove le relazioni economiche sono incastonate in un tessuto di relazioni comunitarie (politiche, religiose, simboliche), il capitalismo si caratterizza per una quasi completa autonomia dell’economia: le interazioni sociali motivate dall’interesse individuale dominano qualunque altra forma di interazione non utilitaria o di interesse comunitario. Questa tesi, che è diventata classica a seguito della pubblicazione del lavori di Karl Polanyi e di Louis Dumont, deve costituire il punto di partenza di ogni seria analisi del capitalismo» (Guillaume Travers, Trasgressioni. Rivista quadrimestrale di  cultura politica, n, 67, settembre-dicembre 2021,  p. 3).
Una prova della costitutiva irresponsabilità collettiva che inerisce al capitalismo è l’invenzione, fondamentale ai suoi scopi, delle «società anonime», delle aziende a responsabilità limitata, strumento che nella sua apparente tecnicità costituisce in realtà «una causa cruciale della devastazione moderna del mondo» (ibidem). La ragione è abbastanza evidente: «se una strategia arrischiata porta i suoi frutti, tutti i profitti sono per gli azionisti; se, viceversa, fallisce, le perdite degli azionisti sono limitate all’ammontare del loro apporto iniziale. In questo caso, le perdite residue sono sostenute da terzi, dai creditori dell’impresa o dalla società nel suo insieme» (19).
Le «società a responsabilità limitata» hanno prodotto monopoli, truffe, iniquità sempre più estese, sino ad arrivare, come previsto dall’analisi marxiana, a poche aziende che decidono i destini degli stessi Stati, il cosiddetto GAFAM: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Si tratta non a caso di aziende il cui cuore è costituito dal digitale. È lo spirito del tempo, certo; è lo sviluppo di tecnologie assai comode, certo. Ma è anche segno e sostanza di un altro carattere del liberismo/capitalismo: l’astrattezza.
Le società anonime sono per definizione indifferenti alla concretezza, alla realtà delle persone e dei corpimente con un nome e cognome, alle motivazioni degli investitori, alle loro storie, indifferenti alle vite e al reale. Il capitale, infatti, «vale ormai soltanto come entità astratta. Ogni centesimo ormai equivale ad un altro. Per questo l’emergere della società anonima può essere visto come l’atto di nascita, in materia di diritto economico, del capitalismo. Il capitalista è colui che si lega agli altri esclusivamente attraverso il capitale, con apporti di fondi anonimi, senza impegnarsi in alcuna relazione interpersonale» (16).

Dissipatio e astrazione sono due caratteristiche che il liberismo condivide con uno dei suoi frutti ideologici più pericolosi, il wokismo. Cosi l’analisi sociologica definisce il fenomeno di vittimizzazione sistematica, Victimhood Culture, da parte di individui e gruppi che si sentono oppressi da altri individui e gruppi senza che i gruppi e gli individui definiti oppressori se ne debbano necessariamente rendere conto, anzi tanto più vengono ritenuti ‘colpevoli’ quanto meno ne sono consapevoli. «Secondo Campbell e Manning, la cultura della vittimizzazione si differenzia tanto dalla cultura dell’onore quanto dalla cultura della dignità. Queste ultime due dominavano rispettivamente le società tradizionali e la modernità» (Pierre Valentin, p. 45). L’origine teoretica del wokismo è invece il postmoderno, esattamente una sua particolare interpretazione per la quale il fatto che ogni forma del sapere sia anche un’espressione di potere conduce all’irrazionale conseguenza che vada demolito ogni edificio di conoscenza, vada negata ogni neutralità/oggettività e il moralismo debba sostituire ogni altra forma di atteggiamento verso il mondo.
Si tratta di un fenomeno sorto naturalmente nella patria del liberismo e del capitalismo contemporanei, gli Stati Uniti d’America. Sue espressioni ormai note sono il Politically correct e la Cancel Culture, che si esprimono in forme sempre più virulente, violente, intolleranti, in particolare nell’ambito delle idee e della ricerca: «Il discorso woke che relativizza (o giustifica) il ricorso alla violenza nei confronti di tali oppositori svolge un ruolo particolarmente pernicioso nell’autocensura universitaria» (67).
Le ricerche sul fenomeno hanno evidenziato che negli USA studenti e militanti woke provengono per lo più da classi agiate: «la correlazione fra alti redditi dei genitori e comportamenti woke è innegabile» (50); provengono da famiglie iperprotettive, per le quali ogni più piccolo conflitto e osservazione critica verso i propri figli costituisce un intollerabile rischio di «trauma psicologico»; provengono dunque da ambienti nei quali c’è sempre un terzo, un adulto a risolvere il conflitto. E infatti la cultura woke produce un ramificato proliferare di comitati etici, commissioni di controllo, uffici per la protezione delle vittime, il cui scopo è la censura delle opinioni che possano apparire offensive a chiunque si proclami minoranza: «la cultura della vittimizzazione incoraggia la capacità di offendersi e di regolare i conflitti tramite gli interventi di terzi: lo status di vittima diviene oggetto di sacralizzazione» (46).
Ulteriori espressioni del wokismo sono la non scientificità delle sue asserzioni, in quanto esse sono tendenzialmente fideistiche e infalsificabili; la possibilità di costruire su di esso intere carriere accademiche e mediatiche, producendo una vera e propria corsa alla concorrenza vittimaria (competitive victimehood): «una volta che si sono tuffati in questo paradigma, poiché la loro sopravvivenza accademica dipende dalla capacità di scovare ingiustizie razziali invisibili ai comuni mortali, questi teorici sono costretti a ‘scoprirne’ molte altre. È l’ultima tappa del postmodernismo» (41); la forte componente di fanatismo, per la quale ‘o si è con me o contro di me’: «coloro che coltivano la cultura della vittimizzazione cercano generalmente di imporre un contesto binario al quale è impossibile sfuggire, il che ha l’effetto di impedire ai semplici passanti una posizione di neutralità o di indifferenza» (48).

L’atteggiamento moralistico che vede agire in ogni relazione il dispositivo vittima/oppressore costituisce dunque l’ennesima manifestazione delle tendenze più violente e oscure che sono sempre presenti nelle società umane e che diventano particolarmente aggressive quando in nome del Bene moltiplicano in realtà la violenza, l’uniformità, il controllo, la censura. In tali casi, ed è ciò che sta accadendo in molte università anglosassoni, la ricerca scientifica, sia nell’ambito delle scienze quantitative sia in quello delle scienze ermeneutiche, viene assoggettata in modo sistematico a imperativi di tipo morale, sino a pervenire a esiti come questi: «da diversi anni gli appelli a ‘decolonizzare’ le matematiche (o addirittura la luce) si moltiplicano, e nell’estate 2020 si è verificata una disputa attorno al tema ‘2+2=5’» (68).
Il piano inclinato del politicamente corretto/moralismo conduce dunque e inevitabilmente all’irrazionalismo.

Sul nichilismo politico-sanitario

Ho il piacere di condividere una testimonianza audio della bella esperienza che ho vissuto a Firenze lo scorso 19 febbraio, invitato dall’Osservatorio permanente sulla contemporaneità a tenere un incontro sulle radici e sulle dinamiche dell’epidemia Covid19.
L’ho fatto nel cuore della città, in un antico palazzo dove ho parlato in una modalità che non accadeva dal marzo del 2020, data dell’ultima vera lezione che ho svolto presso il Dipartimento di Catania nel quale insegno. Ricordo gli studenti l’uno accanto all’altro nell’aula, alcuni seduti a terra, nessuno -ovviamente- con maschere addosso. Lo scambio degli occhi, i volti che parlano, i sorrisi, il moto degli zigomi coerenti con il movimento degli occhi, la serenità, la libertà. E insieme a tutto questo una competenza e lucidità testimoniate da quasi quaranta minuti di dialogo con colleghi, studenti, cittadini (quest’ultima parte non è riportata nel file che allego). La presentazione è della Prof. Roberta Lanfredini, ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Firenze.
Durante la lezione ho fatto due sole citazioni, una dalla Politica di Aristotele, l’altra da Ivan Illich: «Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica tramuta l’indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza. […] L’individuo è subordinato alle superiori ‘esigenze’ del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch’egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d’interventi curativi che sarebbero ancora più costosi» (Nemesi medica. L’espropriazione della salute [Limits to medicine-Medical Nemesis: the expropriation of health, 1976], trad. di D. Barbone, Red!,  2021, pp. 81-82).
Aggiungo qui, dallo stesso testo, una affermazione altrettanto lucida e profetica: «Ormai il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato. […] Risultato: una società morbosa che chiede una medicalizzazione universale, e un’istituzione medica che attesta una universale morbosità» (pp. 96-97).

 

Contro l’irrazionalismo

Su invito dell’Osservatorio permanente sulla contemporaneità, sabato 19.2.2022 alle 11,30 nel Palazzo Tolomei di Firenze (Via De Ginori, 19) terrò un incontro dal titolo Nella luce di un virus.
Questo l’abstract del mio intervento.

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L’epidemia Sars-Cov2, ciò che scatena nel corpo collettivo, è una forma sempre più evidente di nichilismo, di nascondimento dei volti, di dissoluzione della socialità, di timore diffuso e contagioso, di ignoranza dei corpi, di tramonto del senso, di declino della razionalità, di ubbidienza fanatica, di rifiuto del limite, di negazione della insecuritas, di terrore. È questa la follia del presente, è questo il cuore nero della desacralizzazione del mondo, lo sgomento per la sua misura mortale e finita.
A chi osserva senza pregiudizi dovrebbero risultare evidenti:
-la funzione politica che il virus sta svolgendo;
-l’accelerazione imposta ai processi di dematerializzazione;
-gli enormi interessi economici in gioco da parte delle piattaforme;
-il ritorno a un ‘positivismo’ così rozzo da non meritare neppure la denominazione comtiana;
-l’infantilizzazione del corpo sociale;
-il dilagare dell’ignoranza come frutto della chiusura e dell’impoverimento delle aule scolastiche e universitarie;
-la cancellazione del significato stesso del vivere e del morire.

Il virus disvela tutto questo. Esso ci aiuta a comprendere il potere pressoché assoluto dell’informazione in mano alle grandi potenze economico-finanziarie. E ci aiuta soprattutto a comprendere quanto tremanti siano diventati gli umani, pronti a rinunciare alle libertà e alla razionalità, indipendentemente dal loro grado di istruzione, di ricchezza economica, età e condizione. Abbiamo il privilegio, per dir così, di assistere con i nostri occhi a degli eventi politicamente e antropologicamente epocali. Che ci insegnano, che devono, insegnarci, saggezza e sapienza, φρόνησις e σοφία.
In ogni caso non prevarranno, la tirannide si spezzerà, come sempre è accaduto nella storia. E chi avrà resistito a questa ondata di irrazionalismo avrà contribuito a portare alla luce quanto di più inquietante abita dentro l’umano.
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[Registrazione audio di una parte dell’incontro]

Infodemia

Ciò che risulta evidente nei regimi totalitari del Novecento vale a bassa intensità per qualunque regime contemporaneo, in quanto fondato su due elementi che prima della Rivoluzione industriale non esistevano: le masse e le tecnologie sociali capaci di scandire e trasmettere in tempi veloci gli ordini dell’autorità alle masse stesse. Capacità che nel XXI secolo è diventata fulminea come la luce, fondandosi sulla strumentazione elettronica la quale, appunto, viaggia alla massima velocità concepibile.
Il terrorismo politico/sanitario – scopo e insieme mezzo – non sarebbe stato possibile senza il terrorismo mediatico, senza l’infodemia; senza l’urlo di morte lanciato dalle televisioni; senza numeri arbitrari, falsi e inventati; senza la colpevolizzazione giornalistica dei liberi. Quello che sta accadendo è molto più di un’epidemia, è la manifestazione di un dominio mediatico-sanitario che probabilmente determinerà la vita politica negli anni e decenni futuri.
L’informazione è dunque diventata una malattia. L’effetto di questa tragedia è l’odio collettivo e la contrazione della vita. Un odio rivolto a tutte le figure non allineate e non obbedienti da parte di chi per una ragione o per l’altra si è sottoposto a pratiche i cui rischi sono reali e, in prospettiva futura, inquietanti.
A dominare la vita è il terrore della morte in una società diventata psicologicamente assai fragile, nella quale lo strapotere dell’informazione è del tutto schierato al servizio di governi i cui diktat vengono veicolati alle masse dalla propaganda televisiva. Nelle società contemporanee esercita egemonia, in senso gramsciano, il principe che possiede, seleziona, diffonde, inventa le notizie.
L’egemonia pandemica è il titolo di un articolo nel quale Giovanna Cracco (sul numero 75 di paginauno,  dicembre 2021 – gennaio 2022) riprende e aggiorna alcune analisi formulate qualche mese fa a proposito dell’epidemia.
L’autrice riassume il concetto gramsciano di egemonia e per suo tramite legge il presente. Queste alcune affermazioni  enunciate nelle righe conclusive:

Sul piano dell’egemonia, il potere strepita in modo sempre più forsennato al terrore e all’emergenza (indipendentemente dai numeri reali) accusando i no-vax dell’aumento dei casi positivi – nonostante l’ormai riconosciuta deficienza dei vaccini nel proteggere dalla trasmissione del virus.  Utile capro espiatorio da sbattere in prima pagina, i no-vax sono perfetti per compattare una popolazione che non deve avere dubbi e aizzarla contro un ‘nemico’, e per nascondere il fallimento della classe dirigente nella gestione della pandemia. […] L’emergenza e la pandemia sono gli strumenti che la classe dominante/dirigente sta usando per disegnare una nuova società e su di essi è riuscita a produrre una nuova egemonia: se non li denunciamo come tali, non può esserci opposizione.

Qui il link all’articolo: L’egemonia pandemica (e qui la versione in pdf).
Sugli irrazionali comportamenti indotti dalla infodemia segnalo anche un intervento di Andrea Zhok (professore di Filosofia morale alla Statale di Milano): Infodemia istituzionale e stati ontologici dissociativi, «Sfero», 12.1.2022.
Il mezzo forse in declino ma ancora incomparabilmente potente dell’egemonia rimane la televisione. Essa è infatti ancora lo strumento primario e spesso esclusivo dell’informazione per milioni di persone, per coloro che non nutrono il minimo dubbio sulla verità e bontà delle notizie che la scatola televisiva ammannisce ogni giorno senza requie e che da questo ascolto e visione fanno discendere i propri comportamenti quotidiani e alla luce dei quali interpretano ogni evento, parola, idea della quale vengono a conoscenza.
Il fideismo mediatico-politico genera alcuni gravi fenomeni, tra i quali:
-la tonalità collettiva pervasa di terrore, odio e paura verso chi non è conforme agli standard stabiliti dall’autorità;
-l’esaltazione che alla maggioranza deriva dalla certezza di essere nel giusto e dalla convinzione che i dissidenti siano invece pericolosi per la salute del corpo sociale;
-la gravissima sottrazione a una parte dei cittadini dei diritti costituzionali (e dunque la cancellazione di fatto della Costituzione repubblicana);
uno stato di emergenza/eccezione permanente;
-la diffusione di un atteggiamento mentale antiscientifico, dogmatico, fideistico e superstizioso che si rivela incapace di rispondere a una sola, semplice e fondamentale questione che riguarda l’efficacia dei vaccini: se, in qualunque ambito, una strategia di contrasto si rivela infatti inadeguata, la logica, l’esperienza e il buon senso impongono di cercarne un’altra. E invece di fronte al clamoroso diffondersi del virus tra milioni di soggetti vaccinati con due e tre dosi, la soluzione che si invoca consiste nell’assurdità scientifica di rendere obbligatorio per tutti un vaccino inefficace, rifiutando invece le cure che esistono, tanto è vero che la stragrande maggioranza delle persone colpite dal virus guarisce.
Sulla natura totalitaria della televisione Karl Popper ha avuto ragione: la televisione non è soltanto una cattiva maestra, è la peggiore delle autorità, è «le soleil qui ne se couche jamais sur l’empire de la passivité moderne. Il recouvre toute la surface du monde et baigne indéfinitement dans sa propre gloire; il sole che mai tramonta sull’impero della moderna passività. Esso ricopre per intero la superficie del mondo e si immerge indefinitamente nella propria gloria» (Guy Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 13, p. 21), anche e soprattutto quando la gloria è il lutto, quando la gloria è la morte.

 

Epistemologia / Ontologia

Il mondo è più complesso di una formula matematica
il manifesto
28 agosto 2021
pagina 11

Il disegno che si vede qui sopra è di Albert Einstein. Si trova in una lettera da lui inviata il 7 maggio 1952 a Maurice Solovine. In Epistemologia storico-evolutiva e neo-realismo logico, un denso volume pubblicato da Olschki, Fabio Minazzi afferma che il disegno di Einstein delinea una «immagine ideale della scienza» (p. 187). In esso la linea orizzontale E indica il mondo della vita, l’esperienza immediata e ordinaria nella quale ciascuno di noi, scienziati ed epistemologi compresi, è immerso. Sopra questa linea si trova un punto A che rappresenta il luogo degli assiomi astratti della logica e della matematica. Nel mezzo  si susseguono le conseguenze specifiche che si deducono dal polo matematico: «S S’ S’’». L’elemento interessante del disegno è che tra la linea dell’esperienza ordinaria e quella degli assiomi astratti non si dà un percorso diretto. Anche le conseguenze dei principi generali sono staccate dal mondo della vita, fluttuando in una dimensione che indica il carattere intuitivo e creativo del lavoro scientifico.
Il «disegno tracciato dal tardo Einstein», scrive Minazzi, «vuole dunque esprimere la natura complessiva della scienza e giustamente Einstein sottolinea che ‘l’aspetto essenziale è qui il legame, eternamente problematico, fra il mondo delle idee e ciò che può essere sperimentato (l’esperienza sensibile)’» (p. 279).
Siamo dunque lontani da ogni forma di riduzionismo che pretende di esaurire la vita in alcuni «algoritmi di calcolo» (p. 282) e ridurre la scienza a un indiscutibile dogma. Riduzione che ovviamente nega lo statuto stesso del lavoro scientifico che procede sempre per prove ed errori, riduzione che è particolarmente evidente nella situazione fanatica e irrazionale in cui siamo precipitati, in un contesto che calunnia la scienza attribuendole procedure del tutto arbitrarie; protocolli negati; statistiche costruite ad hoc; tesi parziali contro le quali si esprimono scienziati che vengono insultati e tacitati; deduzioni e imposizioni del tutto e soltanto legali-amministrative poste tuttavia sotto l’egida di una scienza che si cerca di asservire al potere politico, come è accaduto in altri periodi oscuri della nostra storia.
Indagare la complessità dell’epistemologia e della storia della scienza è anche un modo per cercare di rimanere lucidi nella comprensione e liberi nei comportamenti.

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