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Attrici

Tre volti
di Jafar Panahi
Iran, 2018
Con Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Rezaei che interpretano se stessi
Trailer del film

Pochi mezzi -un fuoristrada, una cinepresa, vari cellulari-, un villaggio all’interno dell’Iran raggiungibile da sperdute strade, un’attrice professionista, il regista e una ragazza. Tutti interpretano se stessi in una storia che racconta come la giovane Marziyeh sia ostacolata dalla famiglia nel suo desiderio di diventare attrice, vale a dire -per la ristrettezza di orizzonti dell’ambiente- quasi una prostituta. Disperata, Marziyeh gira un video nel quale si impicca; qualcuno manda il video a Behnaz Jafari, famosa protagonista di soap opera. Sconvolta, la donna chiede all’amico regista Jafar Panahi di accompagnarla tra quelle montagne, alla ricerca della ragazza, viva o morta che sia.
Uno sguardo antropologico attento e oggettivo descrive umani, luoghi e animali. Narra lo splendore della campagna, i colori degli abiti, la cortesia cerimoniosa, sincera e insidiosa, l’intransigenza moralistica e coranica. E ancora una volta fa dell’opera singola una metafora del cinema. Credo che a questo tendano infatti sempre i registi, a rendere le proprie opere un simbolo stesso dell’arte cinematografica.
Il bisogno di interpretare storie, di raccontare, di fingersi altro da ciò che si è in modo da diventare meglio ciò che si è, assumono qui la fattezze di una ragazzina che la violenza moralistica del suo mondo non riesce a distogliere dall’inventarsi la vita. Un toro ammalato, i suoni ritmati del clacson, il chiaroscuro delle grotte e i colori delle porte completano la struttura mitologica del film.

I buoni della CIA

Argo
di Ben Affleck
Con: Ben Affleck (Tony Mendez), Alan Arkin (Lester Siegel), John Goodman (John Chambers), Bryan  Cranston (Jack O’ Donnel))
USA, 2012
Trailer del film

Come fanno dappertutto da sessant’anni, anche in Persia gli Stati Uniti sostennero un dittatore tanto feroce quanto stupido: Reza Pahlavi, il quale si faceva portare il pranzo da Parigi con un Concorde mentre gli iraniani erano alla fame. Nel 1979 questo squallido soggetto e la sua corte vennero deposti dalla rivoluzione sciita. Pahlavi fuggì negli USA e per ottenere la sua estradizione gli iraniani occuparono l’ambasciata statunitense facendo prigionieri i membri del corpo diplomatico. Sei di costoro riuscirono però a fuggire e a rifugiarsi nell’ambasciata canadese. Tirarli fuori da lì prima che il governo iraniano ne venisse a conoscenza fu il compito della CIA, uno dei cui agenti inventò lo stratagemma di un film di fantascienza da girare in territorio iraniano, spacciando i sei diplomatici per membri della troupe. L’operazione riuscì e i sei tornarono negli USA accolti come eroi.
Ben Affleck ricostruisce e interpreta questa vicenda con un onesto cappello iniziale nel quale delle «immagini di repertorio e una voce femminile dall’accento esotico fuori campo mostrano quali eccellenti ragioni avessero gli Iraniani per odiare lo Scià e gli Americani; e similmente che l’assedio all’ambasciata fosse stato provocato dal rifiuto degli USA di consegnare Reza Palhevi all’Iran» (Dario Sammartino).
Mano a mano che il film procede, però, una pesante cappa retorica e patriottica si stende sull’opera, sino alla conclusiva apoteosi a stelle e strisce. La tecnica è quella di un ottimo thriller in cui tutto è perfettamente scandito, i pezzi del puzzle si incastrano a meraviglia -pur nella loro evidente improbabilità- e la tensione rimane  alta sino alla fine, nonostante la fine sia appunto nota.
Ma tutto questo non nasconde a sufficienza la natura interamente ideologica dell’opera, nella quale i membri della CIA -vale a dire dell’agenzia governativa più terroristica che ci sia al mondo- appaiono naturalmente come delle brave persone, dedite a lavoro e famiglia. Come lo era Eichmann, in fondo.
Da evitare.

Sessuofobia islamica

Il 3 giugno 2011 avrebbe dovuto tenersi una partita di calcio tra le squadre femminili di Giordania e Iran. Le calciatrici persiane, però, hanno indossato lo hijab, una tenuta che copre l’intero corpo. La FIFA (l’organismo che governa il calcio mondiale) ha per questo annullato la partita, ha dato la vittoria alla Giordania e ha dunque escluso le ragazze iraniane dalle Olimpiadi di Londra del 2012. Decisione che reputo molto grave e discriminatoria, anche perché la federazione iraniana aveva cercato un compromesso rispetto alle richieste della FIFA. Risibile, poi, la motivazione per la quale durante le partite sono vietati abbigliamento e comportamenti che facciano riferimento a credenze religiose o politiche. Bisognerebbe, infatti, proibire anche il gesto del farsi la croce che alcuni calciatori mettono in atto all’inizio di una partita o dopo aver realizzato una rete.

Va detto, tuttavia, che un episodio come questo conferma la fobia della fede musulmana nei confronti del corpo femminile. Il monoteismo islamico è nel suo sviluppo storico la più estrema forma di negazione del piacere, della bellezza, della vita nella sua potenza corporea. Se si confronta l’Afrodite Callipigia (dal bel sedere) dei pagani -la quale solleva la propria veste in un gesto di divertita conquista- con il divieto ossessivo imposto alle donne islamiche di mostrare la propria pelle, si comprende quale nichilismo antierotico esprimano il Corano e il suo predecessore, il libro degli ebrei e dei cristiani.

I gatti persiani

di Bahman Ghobadi
(Kasi Az Gorbehaye Irani Khabar Nadareh)
Iran, 2009
Con Negar Shaghaghi, Ashkan Koohzad, Hamed Behdad, Ashkan Koshanejad, Hichkas
Trailer del film

A Teheran una giovane coppia di musicisti cerca di costituire una band e di trovare i passaporti per andare a suonare in Europa. Un loro coetaneo fa di tutto per aiutarli, muovendosi nell’intrico di un potere inflessibile e insieme corrotto, come tutte le tirannidi. Tra mucche che, stordite dall’heavy metal, non fanno più latte, rapper che chiedono conto ad Allah, feste clandestine a base di tekno, ascoltiamo l’intenso rock persiano che la Legge vieta di suonare, dimenticando che nulla diventa più attraente di ciò che è proibito.

Un film che non è soltanto una testimonianza politica ma è anche e soprattutto un atto d’amore verso la musica e la sua potenza. Molto bravi gli attori, che in gran parte interpretano se stessi. Ottimo il montaggio, che alterna lo svolgersi della vicenda con veloci sequenze a base di rock, capaci di descrivere l’Iran quale probabilmente in gran parte è: una società giovane, colta, estremamente vivace.

Il corpo di Sakineh, l'infamia del potere

Non so quale sarà il destino di Sakineh Mohammadi Shtiani, la donna iraniana frustata e condannata alla lapidazione per aver commesso adulterio. Ma so che l’essenza del potere è da sempre il controllo dei corpi e il dominio sui loro desideri. È quindi ingiustificata ogni nostra pretesa, nostra di cristiani europei o statunitensi, di essere diversi rispetto alla teocrazia che infesta l’Iran. La condanna a morte, l’isolamento sociale, l’angoscia psicologica costituiscono certo forme tra loro assai diverse di punizione e però hanno tutte a fondamento l’istituzione che più di ogni altra fa da tramite fra il potere e la persona: la famiglia. Quando essa è fondata su un contratto -civile o religioso che sia- e non sulla libera adesione di chi giorno per giorno sceglie di amare il proprio compagno o compagna, la famiglia diventa il luogo terrorizzante dell’oppressione che i maschi esercitano sulle donne. Tra tutte le religioni, i tre monoteismi del Libro sono le più maschiliste e sessuofobiche, sono delle autentiche macchine di infelicità, sono delle sadiche espressioni contro natura poiché naturale è il desiderio di cui i corpi sono fatti.

Ed è ingenuo credere che in questo il cristianesimo sia migliore del rigorismo ebraico e del fanatismo islamico. Anzi, nel Vangelo di Matteo si legge una frase che trasferisce il terrore (il cosiddetto “peccato”) dalle azioni esteriori alla psiche: «Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt, 5, 27-28). Che cosa c’è di più naturale del desiderio di un bel corpo? I Greci lo sapevano e lo accettavano; ebrei, cristiani e musulmani trasformano il desiderio in peccato. Lo conferma anche un altro brano evangelico, di solito addotto a testimonianza di clemenza. È vero, l’adultera non venne lapidata ma, rimasto solo con lei, Jeshu-ha-Notzri così le si rivolge: «“Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Gv, 8, 10-11). Come se il desiderio e il piacere fossero peccato!

Contro la legge islamica ma anche contro quella mosaica, evangelica e civile, va detto con chiarezza che libertà è il poter disporre in modo incondizionato, sovrano e ininterrotto del proprio corpo, del corpo che si è, senza che il potere dei preti e dello stato intervenga a imporre la sua infamia.

Frontier Blues

di Babak Jalali
Con Mahmoud Kalthe, Adolfazi Karimi, Hosseins Shams

Iran/Gran Bretagna/Italia, 2009

L’Iran contemporaneo. Una sua regione al confine col Turkmenistan. Quattro uomini, le loro esistenze lente, la memoria, i sogni. Girato al modo di Ciprì e Maresco -inquadrature fisse di personaggi e situazioni bizzarre- il film non brilla certo per ritmo ma il risultato è una sorta di struggente e malinconica ironia. Protagonista è un’assenza, quella delle donne -Hassan abbandonato dalla madre; suo zio col manichino femminile del negozio di abbigliamento quasi sempre vuoto; un cantante turkmeno al quale un pastore ha portato via la moglie; il difficile progetto di matrimonio di Alam con Ana-, come se senza di loro il tempo si dovesse fermare e la vita rimanere soltanto spazio.

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