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Presente

The Father
di Florian Zeller
Gran Bretagna, 2020
Con: Anthony Hopkins (Anthony), Olivia Colman (Anne), Imoges Poots (Laure)
Trailer del film
Trailer in lingua originale

La memoria, ripetiamolo ancora una volta, è l’identità di un essere vivente: memoria genetica (DNA), memoria storica, memoria esistenziale. Condizione della salute mentale è la danza della memoria e dell’oblio: dimenticare molto per ricordare l’essenziale. Ricordare significa esserci, pensare, vivere.
Che cosa accade quando la memoria di un umano comincia a ballare da sola, a traballare nell’incertezza dei volti, dei luoghi, degli istanti? Si può riuscire a entrare nel corpomente che comincia a smarrire i ricordi che lo rendono quel corpomente lì e non una cosa, non altro, non un altro? Si può farlo mediante strumenti che non siano i segni asettici di un elettroencefalogramma, della TAC, della PET, della risonanza magnetica, di analoghe, utili ma rozze e approssimative misurazioni? È quanto riesce a fare The Father.
Il corpomente di Anthony vede la figlia Anne e al successivo ingresso non la riconosce più; chiede al marito della figlia come sia entrato a casa sua, chi sia, che cosa vuole e lui risponde che si trova a casa propria e l’ospite è Anthony; confonde il volto dell’ennesima badante con il volto di Lucy, l’altra figlia che non vede da mesi ma che forse non può vedere; accusa Anne di volergli sottrarre la casa che ha acquistato e dove abita da decenni e poi però la ringrazia per la cura che si prende di lui; in ogni caso non è chiaro se Anne sia sposata, separata, se voglia continuare a vivere a Londra o per amore trasferirsi a Parigi, «un posto dove neppure parlano inglese». E, in tutto questo, corridoi che si trasformano, porte che si aprono verso luoghi imprevedibili, il conforto della musica ascoltata mediante cuffie, l’ossessione dell’orologio da polso continuamente perduto, nascosto, ritrovato. Orologio del quale Anthony è sicuro di essere stato derubato dalla precedente badante, che per questo ha insultato e costretto ad andarsene e che invece si trova nel consueto nascondiglio, la cui posizione però Anthony ha dimenticato. Orologio che costituisce naturalmente la metafora più evidente e più cruda della dissoluzione della persona, poiché quando il tempo comincia a dissolversi è la sostanza temporale del corpomente a mancare. In un drammatico e memorabile dialogo con colui che forse è il genero, Anthony chiede continuamente informazioni sull’orologio che costui porta al polso, e lo fa mentre l’interlocutore tenta vanamente di descrivergli la situazione nella quale per responsabilità di Anthony lui e Anne si trovano. Orologio e tempo che ritornano alla fine, quando Anthony vorrebbe ricevere la visita della madre. La madre che gli vuole bene, la madre tra le cui braccia vorrebbe piangere.
Visto e ascoltato in lingua originale, come ho avuto la fortuna di poter fare, il corpomente di Anthony, dell’attore Anthony Hopkins (la sua voce, i silenzi, gli intervalli, gli sguardi), trasmette in modo totale il tramonto della persona che definiamo morbo di Alzheimer e la cui radice è probabilmente e semplicemente l’invecchiamento medio della popolazione umana. Le nostre cellule infatti, le nostre persone, sono programmate per una durata più breve rispetto a quella che gli avanzamenti delle tecnologie mediche consentono oggi in media di raggiungere. Forse una sessantina d’anni. Rimanere lucidi e autoconsapevoli dopo quest’età è probabilmente un dono, è un presente.

Theorein / Kairós

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Pornografia
(1960)
di Witold Gombrowicz
Con: Riccardo Bini (Witold), Paolo Pierobon (Federico), Ivan Alovisio, Jacopo Crovella, Loris Fabiani, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini
Traduzione di Vera Verdiani
Scene di Marco Rossi
Regia di Luca Ronconi
Sino al 5 aprile 2014

 

Pornografia_3Un romanzo, Pornografia di Gombrowicz, dai molti strati, dai numerosi enigmi. Ronconi lo trasforma in un’azione teatrale nella quale gli attori raccontano i personaggi, descrivono quello che fanno mentre lo fanno. Non soltanto Witold, colui che nel romanzo dice ‘io’, ma anche tutti gli altri. Si raccontano mentre «si comportano» per «non fare altro», mentre parlano allo scopo quasi sempre «di non dire qualcos’altro», mentre sono spesso a terra, striscianti come il verme protagonista di una scena chiave dove amore e morte ancora una volta si accompagnano e si fondono.
I due protagonisti -Witold e Federico- vivono un soggiorno nella campagna polacca mentre intorno infuria la guerra. Loro sono concentrati sulla figlia dell’amico che li ospita e sul ragazzo al loro servizio. Vorrebbero che i due si amassero, si unissero, copulassero. E invece Enrichetta e Carlo mostrano reciproca indifferenza. Il parossismo del desiderio induce Federico e Witold non soltanto a guardare ma anche a costruire situazioni che favoriscano il loro obiettivo. Non li ferma l’arrivo di Venceslao, fidanzato di Enrichetta, di Amelia -madre di lui e donna «cattolica e di alti sentimenti morali»- di un partigiano in crisi, di un giovane ladro che uccide Amelia. Anzi. Ogni evento è inserito in una trama nella quale i due vivono e proiettano la loro potenziale ma evidente omosessualità. Si sentono gli echi del desiderio che muove von Aschenbach in Morte a Venezia, la frenesia che anima Bouvard e Pécuchet, la guerra antieroica e grottesca della Trilogia del Nord celiniana, il modello classico di Aminta.
Il semplice vedere, l’aprire gli occhi e guardare, è in sé pornografico perché l’umano (come ogni altro animale) è una macchina del desiderio che trova nell’eros il culmine del tempo destinato alla vita di ciascuno. In una pagina del suo Diario Gombrowicz scrisse che il vero problema della nostra specie non è la morte ma è «l’invecchiare, questa forma di morte che sperimentiamo ogni giorno. E non tanto l’invecchiare in sé, quanto il fatto di essere così completamente, così terribilmente tagliati fuori dalla bellezza. Quello che ci disturba non è che stiamo morendo, ma che il fascino della vita ci diventi inaccessibile. Al cimitero ho visto un ragazzo che camminava fra le tombe come una creatura di un altro mondo, misteriosa, rigogliosamente in fiore, mentre noi sembravano dei mendicanti» (1953; cit. nel Programma di sala, p. 23). Creatura intessuta di un tempo che appare infinito ma che può anche di botto sparire non nella morte ma nella trasformazione del desiderio in vita, in generazione, in figli. Gombrowicz lo dice con chiarezza: «La bellezza e la gioventù non dovrebbero essere qualcosa di gratuito e di fine a se stesso, un meraviglioso dono della natura, una specie di coronamento? E invece, nella donna, il fascino serve a generare, è foderato di gravidanze e pannolini e la sua massima realizzazione comporta un figlio che segna la fine del poema. Un ragazzo, incantato da una ragazza e da se stesso con lei, non fa in tempo a toccarla che è già padre e lei -madre; quindi la ragazza è una creatura che sembra praticare la gioventù, ma in realtà serve solo a liquidarla» (1954; ivi, p. 25). È la verità. È la negazione del presente in vista di un futuro altrui. È la «liquidazione» della bellezza a favore della generazione di qualcosa che a sua volta diventerà funzionale ad altra carne senza senso.
La corporeità metafisica che intesse Pornografia è anche un modo di affrancamento dal ciclo del nascere e del morire, per diventare il presente nel quale converge il tempo/ora, il Καιρός.

 

Sul tempo. Una prospettiva cinematografica

Amour
di Michael Haneke
Con: Jean-Louis Trintignant (Georges), Emmanuelle Riva (Anne), Isabelle Huppert (Eva)
Francia – Germania – Austria, 2012
Trailer del film

L’immobilità di un appartamento parigino abitato da Georges e Anne. Ottantenni. Hanno vissuto insieme un’esistenza dedicata alla musica, all’arte, al reciproco comprendersi. Tornano dal concerto di un loro brillante allievo. Durante la notte Anne veglia guardando fisso davanti a sé. Il mattino successivo, durante la colazione, per qualche minuto la donna non risponde alle parole e alle domande del marito. Il suo sguardo è fisso e perduto. Georges le prende il viso tra le mani, stupito e preoccupato. Quando Anne rientra in sé, non ricorda ciò che è accaduto.
Sono i segnali di un ictus che le paralizza il lato destro del corpo. Seduta sulla sedia a rotelle. Messa a letto da Georges. Aiutata da lui a lavarsi i capelli e a tagliare il cibo nel piatto. Urina a letto senza accorgersene. Esercizi con la gamba destra. Un faticoso camminare abbracciata a Georges per le stanze di casa. La doccia immobile. Le parole proferite a fatica. Parole in parte prive di senso. La bocca contratta in una smorfia, nella piega. Bocca chiusa a rifiutare il cibo, a respingere via l’acqua che Georges cerca di farle bere.
È il piano inclinato del corpomente che decade, si sfalda, si spegne. Georges ha un incubo nel quale qualcuno bussa alla porta ma dietro la porta non c’è nessuno. Apre. L’ascensore è sparito. Non sarà più possibile muoversi da un piano all’altro. I corridoi del palazzo sono pieni di acqua. Una mano lo afferra alla bocca per soffocarlo. Si sveglia. Ha sognato l’immobilità del corpo, l’acqua/urina, la mano paralizzata della moglie.
Un supremo gesto d’amore, anticipato nella scena iniziale con la quale il film irrompe sullo schermo per chiudersi infine con il pianissimo della figlia Eva che torna nella casa ormai vuota, dove qualcosa è accaduto, è accaduta la vita, è accaduto il dolore.
L’immobilità di un’opera tutta girata in un interno è soltanto apparente. Amour è il puro dinamismo di un far vedere il tempo nelle sue trasformazioni inesorabili, nella dissoluzione alla quale tutti siamo destinati. Il Körper –l’organismo– all’inizio emerge dalle stanze sigillate a impedire che si diffonda l’acre odore della morte. Il Leib -il corpo– è altra cosa, è l’inesorabile esserci come tempo, anche quando il ricordo del proprio bene e della propria bellezza induce a respingere da sé lo specchio che testimonia -oggettivo- l’avanzare del tempo. Il cinema è immagine/movimento, il corpo è tempo/movimento. Entrambi sono temporalità in atto che racconta di se stessa e del mondo. A metà del film la macchina da presa  si sofferma su una serie di dipinti che descrivono l’andare delle stagioni e della natura. Film intessuto di raffinate e discrete citazioni da Bergman, da Vermeer, da Kubrick.
Il movimento lento, anziano e scandito di un meraviglioso Jean-Louis Trintignant è quello di un dio della vita e della morte che si inchina alla potenza suprema, superiore a quella di ogni divinità. La potenza della necessità e del tempo, di Ananke e di Chronos. Frammenti di un tempo cinematografico in un’opera  crudele e radicalmente impudica, che mette a nudo la struttura interna, temporale, dei corpi viventi. Destinati a morire.

Mente & cervello 72 – Dicembre 2010

La sensazione di essere liberi è tra le più belle e gratificanti che si possano provare. Liberi dal dolore e dalle angosce, prima di tutto. Liberi anche dalla dipendenza verso le persone e le cose. Se la prima però -quella dalle persone- è di fatto illusoria poiché siamo animali sociali e strutture comunitarie, anche la seconda -quella dalle cose- è continuamente sottoposta alle più diverse forme di dipendenza.
Non soltanto le vecchie dipendenze dall’alcol e da altre droghe ma anche dal gioco, dallo shopping compulsivo, da Internet (e da Facebook in particolare). Dipendenze ancora più profonde sono quelle dall’età, dalla memoria, dalla sua ricostruzione attiva di significati, dalla sua perdita. Dipendenze dalle sindromi più diverse, come quella “dell’impostore”, le cui vittime «non credono che i propri successi siano dovuti alle loro capacità. Sono invece convinte di dover ringraziare, per il buon giudizio ricevuto dalle loro performance, il proprio fascino, le proprie conoscenze o semplicemente la fortuna» (B.Spinath, p. 81). Dipendenze dall’intreccio profondo di biologia e cultura, come si vede dal disagio e dai tabù che tuttora vigono intorno al menarca, alle mestruazioni, a quel ciclo femminile nel quale si incontrano riferimenti cosmici (alla Luna) e repulsioni fisiologiche. Nonostante laicizzazioni, liberazioni sessuali, uguaglianze di genere, «basta un “promemoria” dell’esistenza del ciclo, atavico richiamo alla condizione di inferiorità fisica, per far prevalere l’istinto», fino al punto che la pubblicità riguardante il ciclo «per vendere i propri prodotti sempre più sicuri e a prova di “incidente”, abbia rinforzato l’idea che l’appalesarsi del sangue mestruale o dell’assorbente costituiscono un evento disastroso, da evitare in tutti i modi» (D.Ovadia, 56 e 58). Dipendenze da psicologi e psicoterapie, le quali «non [sono] sempre utili e, anzi, in alcuni casi [possono] persino far male», tanto che «chi si sottopone a psicoterapia dovrebbe quindi essere informato dei possibili effetti collaterali, proprio come succede quando vengono somministrati nuovi farmaci» (C.Spitzer, R.Richter, B.Löwe, H.Freyberger, 72 e 74). Dipendenze da superstizioni, amuleti, gesti scaramantici che spesso producono reali effetti positivi per la ragione che «credere nei portafortuna aumenterebbe il senso di “auto-efficacia” delle persone, e sarebbe questo sentimento di “posso farcela” a predire il successo, non certo qualche magica proprietà dell’oggetto in sé», poiché «l’influenza degli oggetti portafortuna e dei rituali propiziatori dipende strettamente dalla nostra fede nei loro poteri intrinseci» (P.Valdesolo, 103).

La mente è davvero «in qualche modo, tutto», come sostiene Aristotele (De anima, Γ, 431b) e come si vede anche nell’ampio, interessante e divertente dossier di questo numero, dedicato alle illusioni ottiche più diverse e stupefacenti, che inducono a porre ancora una volta l’antica domanda metafisica su che cosa sia davvero la realtà: «quando sperimentiamo la sensazione della “rossezza”, o l’apparenza della “quadratezza” di una cosa, ma anche quando viviamo emozioni come l’amore e l’odio, questi non sono che i risultati dell’attività elettrica dei neuroni del nostro cervello […]. Tutti noi, insomma, in un certo senso, viviamo nella “matrice” di illusioni creata dal nostro cervello» (S.L.Macknik e S.Martinez-Conde, 30). Esemplare il caso delle figure ambigue -come quella, celebre, del vaso e dei due profili- nel quale «l’oggetto fisico non cambia affatto, eppure la nostra percezione oscilla fra due o più interpretazioni possibili. Per questo motivo, le immagini ambigue sono usate in molti laboratori nella ricerca dei correlati neurali della coscienza» (Id., 26).
Dipendenza dai meccanismi profondi delle cellule che ci costituiscono, e in particolare delle loro terminazioni, quei telomeri che la biologa e premio Nobel Elizabeth Blackburn ha paragonato in modo efficace «ai cilindretti di plastica che circondano le estremità dei lacci da scarpe, impedendo ai fili di separarsi» (A.Kortrscal, 98) e che si accorciano un poco a ogni divisione cellulare, sino a consumarsi del tutto e a far morire la cellula. È questa una delle cause conosciute dell’invecchiamento, i cui processi sono comunque «complessi e non dipendono da un solo enzima. Fra l’altro l’accorciamento dei telomeri che fa invecchiare e morire le cellule protegge anche l’organismo dai tumori aggressivi, che si alimentano proprio grazie all’attività della telomerasi» (Id., 100). Ebbene, la lunghezza dei telomeri dipende molto dallo stress della persona, dalle sue condizioni sociali, ambientali, esistenziali: «diversi fattori, come quelli riguardanti il comfort dell’abitazione, o esperienze difficili vissute nell’infanzia, sembrano influire sulla lunghezza dei telomeri» (Ididem). E a loro volta stress e malattie possono costituire la conseguenza della lunghezza dei telomeri. Il condizionamento è dunque bidirezionale e molteplice toccando sfere apparentemente assai diverse come i cromosomi, le memorie, le attese, i contatti sociali, i luoghi che abitiamo. E tutto questo conferma ancora una volta l’unità radicale e profonda del corpomente.

La sensazione di essere liberi è tra le più belle e gratificanti che si possano provare. Lo siamo davvero? Al di là della questione -pur fondamentale- del libero arbitrio, per quanto riguarda le libertà quotidiane, soltanto se diventiamo consapevoli della forza di ciò da cui dipendiamo potremo cercare di essere un po’ più liberi.

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