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Sugli dèi e il mondo

La vicenda dell’imperatore Giuliano e della sua corte sintetizza un intero mondo al suo tramonto. In quei pochi anni, dal 360 al 363, la civiltà greca tentò l’ultima impossibile impresa, quella di sopravvivere a una nuova fede sostenuta dalle masse e da una parte della classe dirigente: Ambrogio e Agostino provenivano dagli stessi ambienti e perfino dalle stesse famiglie di Simmaco e di Salustio ma decisero di aderire alla dottrina e al gruppo vincenti. Salustio (Saturninio Secondo Saluzio) fu praefectus praetorio Orientis, maestro e consigliere di Giuliano e suo amico fidato. Per Salustio e per Giuliano filosofia non è semplicemente l’aderire a un’idea o la capacità di pronunciare discorsi efficaci ma consiste in un modo di essere che informa di sé la persona, è una maniera di vivere.
Il divino è perfezione immutabile e felice. I Dodici dèi del pantheon ellenico che Salustio enumera -«Gli dèi che fanno il mondo sono Zeus, Poseidone e Efesto; lo animano Demetra, Era e Artemis; Apollo, Afrodite e Hermes lo accordano; mentre Hestia, Atena e Ares stanno a guardia» (Sugli dèi e il mondo, [Perì Theon] a cura di R. Di Giuseppe, Adelphi 2000, § 6, 3, 1-6)- diventano i paradigmi di un mondo imperituro e ingenerato. Non è quindi pensabile «che il divino reagisca agli affari umani: né positivamente, né negativamente […] Siamo piuttosto noi -essendo buoni- a entrare, per somiglianza, in unione con gli dèi e a distaccarcene per dissimiglianza, divenendo cattivi» (14, 1, 9-18). Culti, sacrifici e preghiere hanno quindi senso soltanto dal punto di vista umano ed è agli uomini che servono. Gli dèi non accettano né rifiutano, non benedicono né condannano, «sicché, dire che è il dio a respingere i cattivi equivale a sostenere che il sole si rifiuti a chi è privo della vista» (14, 2, 6-9). Viene in tal modo superata anche l’obiezione epicurea: gli dèi agiscono nel mondo ma lo fanno senza fatica alcuna, per il semplice fatto di esistere, come il sole che nulla perde della propria potenza e perfezione illuminando lo spazio, anzi la esplica.

Se tale è l’essenza del divino, enti ed eventi sono guidati dal lògos. Il male -come poi ripeterà il cristiano Agostino- è solo  apousìa de agathou, assenza del bene (12, 1, 5). Nel mondo nulla esiste che sia cattivo per sua natura, ogni cosa si tiene con ogni altra, tutto è scaturito dalla medesima sorgente. A questa unità metafisica corrisponde quella gnoseologica di soggetto che conosce, oggetto conosciuto e conoscenza in atto. Il mondo si nasconde e si svela nella forma di un’allegoria sensibile dell’eterno, un’immagine mobile di ciò che non passa, forma che solo i migliori sono in grado di cogliere, dopo lunga fatica. La maggioranza è impotente ad apprendere e sarebbe grave errore «la pretesa di insegnare a tutti la verità sugli dèi» (3, 4, 1-2). Le condizioni per capire e per vivere il divino sono, infatti, numerose e difficili: bisogna essere stati ben educati fin da bambini e non essere cresciuti in mezzo a opinioni errate e superficiali; l’educazione, tuttavia, non basta se «per natura» non si è nobili e assennati (1, 1, 4) e se non si nutre familiarità con le adeguate conoscenze sugli dèi e sugli umani.
Gli “affari umani” -il loro valore, l’esito- dipenderanno quindi dalla conoscenza: da Omero a Plotino l’intellettualismo etico rimane una cifra del mondo greco. Saggezza è soprattutto comprendere la perfezione di ogni ente e dell’intero poiché tutto è derivato da qualcosa di perfetto e cioè di delimitato nei confini armoniosi della Misura. Affermando che «oude apeiròn ti en to kosmo» (20, 3, 3-4) -che nulla al mondo si dà di indefinito- Salustio raccoglie il senso dell’intera cultura ellenica. Essa offriva agli esseri umani non la hybris di paradisi oltremondani ma la felicità della comprensione del qui e dell’ora nell’unità del tempo. È il presente il tempo dei Greci. Tutta la loro religione, arte, filosofia -il loro mondo unitario- è rivolto a gustare l’attimo che coincide con l’eterno. È per questa ragione che la virtù è per i Greci fine a se stessa, poiché il tempo è l’adesso; lo spazio della gioia o del dolore è il qui. La materia è trasformazione degli elementi, non è creazione o distruzione assolute.

Cosmologia, etica e metafisica si unificano nella filosofia di Salustio, sintesi del pensiero di un intero mondo: «Tàuta dè eghèneto mèn oudépote, esti dè aei», queste cose mai avvennero e sempre sono, «l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione» (4, 8, 26-29). Su tale fondamento teoretico si eleva la conquista umana della serenità. Per i pagani la felicità non consiste nella speranza di un paradiso ma nel possesso di sé, metafora del dominio del mondo:

Ma anche se nulla di tutto ciò fosse vero: senza contare il piacere e la gloria, che da quella discendono assieme a una vita priva di crucci e senza servitù (adèspotos Bìos), la virtù stessa basterebbe da sola a render felici quanti scelsero di vivere secondo virtù, e ne furono capaci. (21, 2)

I pagani sconfitti sono uomini ancora vincenti.

Neuroni e identità

Il Sé sinaptico.
Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo
di Joseph LeDoux
(Synpatic Self. How our Brain Become Who We Are, Viking Penguin 2002)
Trad. di Monica Longoni e Alessia Ranieri
Prefazione di Edoardo Boncinelli
Raffaello Cortina Editore, 2010
Pagine 556

Uno degli elementi più discutibili della ricerca neurologica -e medica in generale- sta nell’utilizzo di quelli che anche LeDoux definisce “animali da esperimento”. Una formula chiaramente inaccettabile, che riduce la dignità dell’animale vivente a una cosa. Il retaggio cartesiano di molta neurologia è evidente anche in questa scelta lessicale e nell’estensione per analogia alla mente umana dei risultati di esperimenti attuati su altre specie. Di converso si continua ad applicare agli altri animali l’illogica pretesa di essere come l’Homo sapiens. Dato che tale pretesa è per definizione impossibile da soddisfare, se ne deduce che gli altri animali non abbiano coscienza, consapevolezza, mente. C’è da dire che per fortuna l’autore di questo libro tempera di tanto in tanto simili tesi antropocentriche, come quando scrive che «una volta che si accetta che il Sé di un essere umano abbia aspetti consci e inconsci, diviene facile osservare come gli altri animali possano essere pensati come aventi dei Sé, purché si sia cauti circa quali aspetti del Sé vengano attribuiti a ciascuna specie in questione» (p. 30).

Un altro limite del libro è la prospettiva nel complesso discreta e non olistica nella quale si pone. Vengono infatti narrate in dettaglio le vicende dei neuroni, dei dendriti, degli assoni, delle sinapsi. E si dà quasi per scontato che questo basti per comprendere il Sé. Ora, se è vero che tutti i pezzi e le parti di un motore devono essere attivi e funzionanti affinché si dia il movimento dell’automobile, il moto dell’auto nello spazio è altra cosa rispetto al funzionamento dei singoli pezzi meccanici. Il tutto, come l’empirista Aristotele sapeva, è superiore alla somma delle parti. Sembrerebbe quindi che anche LeDoux sia un riduzionista al pari di molti suoi colleghi. Ma più sopra ho sottolineato il “quasi”. Si tratta infatti di un riduzionismo temperato che ammette come le strutture e le dinamiche neuronali non si pongano in contrapposizione alla mente e al mondo ma con essi si integrino: «per quanto cominciamo a pensare a noi stessi in termini sinaptici, non dobbiamo sacrificare altre modalità di comprensione dell’esistenza» (18); «ritengo che le impostazioni non scientifiche (letteratura, poesia, psicoanalisi) e le scienze non riduzioniste (linguistica, sociologia, antropologia) possano coesistere con le neuroscienze, integrandole» (454).

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Ricordi – A se stesso

Marco Aurelio Antonino
(Ta Eis Eauton, 172 d.C.)
Introduzione di Max Pohlenz
Traduzione di Enrico Turolla
Commento di Marcello Zanatta
Testo geco a fronte
Rizzoli, Milano 1997
Pagine 770

Marco Aurelio ama e disprezza gli uomini in una trama di sentimenti davvero inestricabile: egli disdegna l’opinione del volgo la cui ammirazione è rivolta immancabilmente a quanto c’è di più basso, è convinto che il saggio non possa lamentarsi della malvagità dei molti poiché «è follia la pretesa che i malvagi non commettano colpe. Desiderio impossibile veramente!» (XI, 18) e tuttavia invita se stesso ad accettare e perfino amare coloro che la sorte gli ha posto accanto. Una contraddizione che diventa splendida in V, 20: «Un uomo è cosa, sotto un certo aspetto, in rapporto assai vicino con la mia persona, in quanto io debbo far del bene e debbo sopportare un mio simile; tuttavia in quanto taluni insorgono contro il loro dovere, in questo senso l’uomo diventa per me cosa indifferente non meno del sole, del vento, d’una bestia».
Qui appaiono chiarissime la comunanza e la differenza fra lo stoicismo e il cristianesimo. Anche Marco Aurelio denigra il corpo e i piaceri a esso legati, ribadisce di continuo una sorta di vanitas, omnia vanitas, giudica fumo «il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa» (IX, 30) mostrando di condividere in pieno il nichilismo cristiano; come Agostino, anche Marco Aurelio indirizza l’interiorità socratica verso la dimensione morale e non più metafisica; anche l’imperatore trasforma la filosofia da indagine sulla natura, la vita, la bellezza in meditatio mortis.
E tuttavia egli rimane un romano che vive nell’orizzonte degli dèi che tutto intrecciano in una Necessità non etica ma naturalistica («Concedi che la Parca faccia il suo intreccio con quegli eventi che vuole» [IV, 34]; «Qualunque cosa ti accada, da secoli senza numero t’era stata preparata. E l’intreccio delle cause ha preparato la tua esistenza, da tempo infinito intessendola insieme con lo svolgersi di quella singola cosa» [X, 5]), che immagina il mondo come un unico grande corpo pulsante di trasformazioni incessanti e quindi di vita e di morte; che attacca esplicitamente il volontarismo cristiano ribadendo per intero l’etica intellettualistica dei Greci: «Quale l’arte tua? Esser buono. E questa meta come puoi raggiungere se non per mezzo d’una preparazione intellettuale, uno studio profondo sull’universale natura, uno studio sulle caratteristiche proprie della costituzione umana?» (XI, 5; cfr. anche XI, 3). L’etica diventa antropologia. La sofferenza non è frutto di una colpa ma di un errato giudizio della mente che valuta come essenziali cose a lei in realtà indifferenti.

Le splendide e intime riflessioni rivolte dall’imperatore a se stesso possiedono un sapore amaro, come il presentimento di una sconfitta, di una rinuncia alla forza straripante della vita. Dei tre elementi che secondo Eric Dodds definiscono il saggio stoico –spassionato, spietato e perfetto– Marco Aurelio sembra possedere la perfezione morale e l’indifferenza verso le passioni ma non quella energia che, se necessario, diventa riso e sorriso sulla commedia tragica e grottesca della vita e degli umani.

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