Creature proustiane
in Gente di Fotografia
anno XXV – numero 72 – marzo 2019
pagina 118 – immagini, pp. 119-127
Nella sua brevità, questo è uno dei testi più importanti che abbia pubblicato. È ciò che ho imparato sui sentimenti umani.
Creature proustiane
in Gente di Fotografia
anno XXV – numero 72 – marzo 2019
pagina 118 – immagini, pp. 119-127
Nella sua brevità, questo è uno dei testi più importanti che abbia pubblicato. È ciò che ho imparato sui sentimenti umani.
Ringrazio l’équipe del fotografo Franco Carlisi che ha ripreso e montato con rigore ed empatia la lettura del racconto Di stelle e di buio, in occasione della presentazione del volume di Carlisi ll valzer di un giorno al Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania il 9 novembre 2018. L’elemento per me più interessante è costituito -oltre che dalle immagini iniziali dello splendido Monastero dove lavoro- dai volti degli ascoltatori, con le loro espressioni sorprese, attonite, divertite, attente. Tra questi volti, numerosi miei studenti che ringrazio ancora una volta per la presenza affettuosa e partecipe.
Piccolo Teatro Strehler – Milano
Concerto per Amleto
da The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark (1600-1601)
di William Shakespeare
Drammaturgia Fabrizio Gifuni, con la consulenza musicale di Rino Marrone
Voce Fabrizio Gifuni
Direttore dell’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano: Rino Marrone
Musiche di Dmitrij Šostakovič: da Op. 32, musiche di scena per l’Amleto di Nikolai Akimov e Op. 116, musiche per il film Hamlet di Grigori Kozintsev
La voce di Fabrizio Gifuni si fa anch’essa strumento, diventa solista che si staglia dentro le note ilari e tragiche di Šostakovič. Una voce capace di essere i personaggi della tragedia paradigma, dell’Orestiade rivisitata da Shakespeare con tutta l’interiorità e l’autocoscienza che i Greci per loro fortuna non avevano.
Il nichilismo che pervade Amleto non è infatti soltanto la sapienza che ben sa come «ogni cosa vivente è dovuta alla morte» (trad. di Luigi Squarzina, atto I scena II) ma è anche l’incertezza su cosa sia meglio, se l’esserci o il suo contrario, è il bisogno di una «felicità» capace di affrancarsi dal doloroso respiro «di questo mondo acre» (V, II).
Acre è infatti la vita. E non l’addolciscono né la vendetta né il perdono. La consola, alla fine, soltanto il silenzio sul quale Amleto si chiude senza potersi chiudere, rimanendo aperto al tempo fuori dai cardini, all’imprevedibile che sempre scompagina i piani degli umani, li ferma, li capovolge, li nega e li compie.
Ma c’è una potenza che tutta attraversa la vita, anche per Shakespeare, la potenza «capace di annientare se stessa e di condurre la volontà ad atti disperati, come nessun’altra passione umana» (II, I); la potenza che è la stessa in Medea come in Proust, al di là dell’abisso dei secoli; la potenza dell’amore e del desiderio dell’Altro che appare come promessa di luce e però come ombra svanisce nei sentieri del divenire.
Il concerto di Gifuni comincia premettendo qualcosa che nel testo shakespeariano non c’è ma che ben contribuisce a spiegarlo. Comincia con le parole di Eraclito sul tempo come αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη (detto 52), sull’umano come un giocattolo in mano al tempo/bambino, il quale si trastulla sulla scacchiera del mondo, dandogli ordine, senso, divenire e disfatta.
L’umano, «questa quintessenza di polvere», non piace al Principe di Danimarca (II, II). Se a ciascuno si desse secondo il suo valore, le frustate sarebbero secondo Amleto la ricompensa da ognuno meritata. Soltanto chi è in grado di porsi l’enigma e di non cercare illusioni, soltanto questi -forse- merita qualche luce. Il «dolce principe» (V, II), sin dall’inizio morente, ci ricorda ciò che siamo, ci canta la musica disumana del mondo.
Cold War
di Pawel Pawlikowski
Polonia, 2018
Con Joanna Kulig (Zula), Tomasz Kot (Wiktor)
Trailer del film
Non sono le parole a narrare questa storia ma è la cinepresa. Tale è il cinema quando è cinema. Lo sguardo gira intorno alla giovane cantante Zula e a poco a poco appare Wiktor, i suoi occhi che la scrutano, il suo sorriso che la desidera. E poi gli altri, a poco a poco e sullo sfondo. Così deve essere quando il legame è forte più della morte e la morte lo attraversa nelle figure del distacco, dell’assenza, del mistico, del canto.
Dentro la costrizione è naturale che stia questo legame. La costrizione del formato quadrato dello schermo, la costrizione della dittatura sovietica in Polonia, la costrizione del timore di liberarsi, la costrizione del Verlust, della perdita che la vita intera è, per tutti. Ma Wiktor non rinuncia. Non rinuncia alla «donna della sua vita». E anche lei lo cerca. Attraversando confini nazioni treni polizie orchestre teatri. Sino a tornare a guardare entrambi un affresco che raffigura gli occhi di una dea, a stare davanti a un altare con una candela sola, a vivere e a morire sotto una cupola aperta verso il cielo dell’αἰών.
Come un pilastro crollato, la colonna di una chiesa inclinata, l’acciaio ferito. Così è l’abbandono. Perché niente dura nei frammenti nomadi del tempo. Come una catastrofe che generi uno spazio vuoto che attende di riempirsi ancora, di nuovo, nell’ennesimo tentativo di dare torto a Marcel Proust e alla verità per la quale essere amati è un’illusione e l’oggetto amoroso è miraggio riflesso ombra. Luce che si plasma e che ritorna dopo che la torcia della passione ne ha modellato i contorni. Ma dentro quella forma, nulla. Nulla al di fuori dei pensieri che il sentimento crea. Che crea questo bisogno tutto umano di essere amati. Una maledizione, come sanno Lucrezio: «Sic in amore Venus simulacris ludit amantis» (‘così in amore Venere con simulacri illude gli amanti’, De rerum natura, Liber IV, 1101) e, appunto, Proust: «Aimer est un mauvais sort comme qu’il y a dans les contes contre quoi on ne peut rien jusqu’à ce que l’enchantement ait cessé» (nella splendida traduzione di Giorgio Caproni: ‘Amare è una malasorte come nelle fiabe, contro cui nulla si può finché l’incantesimo non è finito’ [Il tempo ritrovato, Einaudi 1978, p. 19]).
È un dipinto ogni inquadratura di questo film. Dall’iniziale melodia dei contadini alla campagna vuota della fine. Un’eleganza semplice e raffinata, un’eleganza immediata nel dire il canto dell’abbandono che sono i legami umani, i loro sentimenti, quando hanno il torto di diventare profondi e dunque dolorosi, di farsi solitudine che tasta il letto accanto a sé senza trovare altro che silenzio.
Il film si chiude sulle Variazioni Goldberg di Bach eseguite da Glenn Gould, una musica inevitabile e struggente come struggente e inevitabile è l’abbandono. «Vieni dall’altra parte, è più bello».
Hemingway
di Paolo Conte
Appunti di viaggio (1982)
Et alors, Monsieur Hemingway, ça va?
Era persona dura e anche per questo alla lunga le donne non lo tolleravano. Ma non molto gliene importava. E ripeteva impettito e imperterrito a se stesso «conduco le persone a un’altezza tale da far venir loro le vertigini, più non reggono e tornano là da dove le ho tratte». Superbo e sciocco come il secolo. Così si ritrovava solo, poveretto. Ma ora no, ora sentiva tutta la felicità del liberarsi, del librarsi la vita ad altri istanti, del porre una distanza irrimediabile tra sé e i lati di lei che non amava. Che da nulli, all’inizio, o solo in germe, si erano moltiplicati come i pani, cresciuti come alberi fronzuti, come bestie da preda alla riscossa. E avevano divorato il loro amore. Sempre così, sempre così funziona, non lo sai? Bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore. Lei così nobile non era. E più non rispettava i suoi silenzi. Non rispettava la vigile attenzione, il sorriso l’affetto il desiderio. Ora diceva a se stesso -sempre così sempre così la va-, si diceva che lei neppure era esistita, che l’aveva plasmata dal suo cuore, dal desiderio infinito dell’amore. E quando la statua l’illusione e il triste inganno s’erano dispersi come vento, nulla era rimasto tra le mani ma soltanto la nostalgia di una che mai era stata. E di lui che quel nulla aveva amato. Si ama sempre questo nulla, infine.
Et alors, Monsieur Hemingway, ça va mieux?
[Foto di Cartier-Bresson, La Lune au Bois de Boulogne, particolare]
Bellamore
Francesco De Gregori (1992)
Bellamore Bellamore non mi lasciare
Bellamore Bellamore non mi dimenticare.
Rosa di Primavera, isola in mezzo al mare
lampada nella sera, Stella Polare.
Bellamore Bellamore, fatti guardare
nella luna e nel sole fatti guardare.
Briciola sulla neve, lucciola nel bicchiere
Bellamore Bellamore, fatti vedere.
E vieniti a sedere, vieniti a riposare
su questa poltroncina a forma di fiore.
Questa notte che viene non darà dolore
questa notte passerà, senza farti del male.
Questa notte passerà, o la faremo passare.
Bellamore Bellamore, non te ne andare.
Tu che conosci le lacrime e le sai consolare.
Bellamore Bellamore non mi lasciare
tu che non credi ai miracoli ma li sai fare.
Bellamore Bellamore fatti cantare
nella pioggia e nel sole, fatti cantare.
Paradiso e veleno, zucchero e sale
Bellamore Bellamore, fatti consumare.
E vieniti a coprire, vieniti a riscaldare
su questa poltroncina a forma di fiore.
Questo tempo che viene non darà dolore
questo tempo passerà, senza farci del male.
Questo tempo passerà o lo faremo passare.
Ho messo a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della terza lezione dedicata a Proust, da me svolta al Disum di Catania il 20 aprile 2018.
Aggiungo qui le diapositive che ho utilizzato in questa occasione. Scorrendo le immagini/testo e ascoltando l’audio, spero si possa cogliere la potenza della scrittura di Marcel Proust, della sua arte, della dimensione cosmogonica e sacra delle parole che raccontano l’illusione suprema che sempre ci spinge verso l’Altro. L’oggetto amato è figura del Dio, in lui cerchiamo la Grazia, in lui ci sentiamo redenti. Abbiamo bisogno di tanto in tanto di trarre dalla specie una persona che diventa lo splendore che ci salva, che ci regala la gioia.
La Recherche è la notte dell’esistenza in un libro figlio del silenzio. È l’Adoration perpétuelle. È la Gloria.
«Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero».
Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, Einaudi 1978, pp. 560-561
«Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo. Nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale che può essere raggiunto con la completa identificazione di soggetto e oggetto. […] Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità».
Samuel Beckett, Proust, SE 2004, pp. 41-42.
Seconda lezione su Proust (6.4.2018)