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In viaggio con gli dèi

Il μῦθος è la forma più certa e più concreta di immortalità, è il racconto che perpetua immagini, idee e  strutture della vita individuale e collettiva, è la potenza della memoria condivisa. Il mito greco, la memoria della cultura nella quale si radica ogni identità europea, è stato raccontato innumerevoli volte ma un libro da poco uscito trasmette una sensazione di freschezza, verità e novità sia per il tono lieve del parlare, sia per la presenza di immagini sempre coerenti con la narrazione e soprattutto perché testimonia «la storia di una passione anarchica, partigiana e intensa per la Grecia e per i suoi racconti» (Giulio Guidorizzi – Silvia Romani, In viaggio con gli dèi. Guida mitologica della Grecia, Raffaello Cortina Editore 2019, p. 10).
Una passione che fa percepire la presenza delle divinità e degli eroi non soltanto negli spazi e negli istanti dentro i quali operano, non solo in luoghi arcani e appartati come Micene e Delfi, dove «l’uomo sentì l’alito del divino sin da epoche molto antiche, certamente pregreche» (145), ma ovunque, nelle nostre strade, oggi. Una passione che fa sentire questa presenza nel perenne desiderio di gaudio e nella consapevolezza tuttavia del limite che intride ogni vita, sempre.
Se a partire da Creta e da Micene l’arte greca appare gioiosa e colma di pienezza; se ad Atene dopo i tre giorni dedicati alle rappresentazioni tragiche, un quarto era consacrato sempre alla commedia, è anche perché gli dèi Greci «amano il riso: che vantaggio ci sarebbe a governare il mondo nell’afflizione e nella tristezza?» (232). Un sorriso che mai si separa dalla consapevolezza del limite del mondo e di tutte le vicende umane. Ate, l’accecamento, venne da Zeus scagliata sulla terra ed essa ci fa cadere continuamente nell’inganno, fa in modo che ciascuno commetta prima o poi qualche errore decisivo nella vita. Anche questo è il significato dell’inesorabile enigmaticità degli oracoli di Apollo, i quali «segnalano come l’intelligenza umana sia irrisoria di fronte a quella divina» (151); questo è il significato della magnifica storia che chiude la vicenda della tragedia greca, delle Baccanti, nelle quali «il Dioniso del teatro dimostra con la forza della parola e del dramma quali sono i limiti della ragione umana, quando vuole respingere quello che non capisce, e i pericoli della follia che è sempre in agguato» (219).
A distruggere questo mondo, ad abbattere le sue architetture, a bruciare i suoi libri, a dannare la sua memoria, fu una «superstizione ignorante» (253) che ebbe in molti imperatori romani, Teodosio soprattutto, lo strumento politico della distruzione. E tuttavia il significato di quel mondo ha fecondato anche i suoi nemici e vive in coloro che neppure sanno che cosa gli antichi Greci siano stati.
Libri come questo lo confermano, mostrandoci il «sorriso remoto e terribile che appartiene solo agli dèi» (197), il sorriso di Dioniso e quello di Apollo, suo fratello, i cui occhi ci guardano intensi da una statua conservata a Delfi e le cui parole risuonano ancora in una delle più celebri risposte della Pizia: «Io conosco il numero dei granelli di sabbia e le dimensioni del mare, intendo il sordomuto e la voce di colui che non parla» (151).

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