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Alla madre degli dèi

ALLA MADRE DEGLI DEI e altri discorsi
di Giuliano Imperatore
Introduzione di Jacques Fontaine
Testo critico a cura di Carlo Prato

Traduzione e commento di Arnaldo Marcone
Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore
Milano 1997
Pagine CX-351

Posto esattamente a metà fra l’epoca di Marco Aurelio e quella di Giustiniano, l’imperatore Giuliano rimane per molti versi un enigma della storia tardoantica. Di una personalità così complessa, la cui azione ha suscitato passioni opposte e feroci, è difficile dire chi veramente sia stato e che cosa abbia rappresentato dentro un’istituzione e un mondo che andavano lentamente sgretolandosi. Forse Giuliano capì assai meglio di tanti altri una delle ragioni che contribuivano dall’interno alla dissoluzione della Romanità e cercò di fermarne l’espansione con i mezzi che la cultura, la fede, il potere gli mettevano a disposizione. Stratega capace e lettore onnivoro, sacerdote pagano e filosofo neoplatonico, imperatore austero e autore pungente di satire, Giuliano è forse davvero l’ultimo grande politico romano come Plotino fu l’ultimo filosofo greco.
Costretto al potere dalle circostanze, avrebbe preferito vivere sempre nella sua Atene interiore ma vide nell’ascesa alla carica imperiale un segno della Moira che gli imponeva una missione titanica: salvare la fede negli dèi mentre trionfava la fede nel Galileo. Cercò, quindi, Giuliano di opporsi al cristianesimo prendendo da esso alcune delle sue armi. Tentò, infatti, di trasformare la religione dei padri in una sorta di ellenismo ecclesiastico « “entrando nel platonismo” così come si dice di un religioso cristiano che “entra negli ordini”» (pag. XVIII). L’imperatore innesta sul tronco della metafisica greca gli apporti magici, teurgici, eclettici della tarda paganità, sperimentando -alla fine- «una sorta di superamento dialettico del paganesimo antico e dello stesso cristianesimo, riassorbendoli in una teosofia solare, che si fonda sulle speculazioni dell’ultimo neoplatonismo» (LV). Giuliano ritiene, infatti, «che le teorie dello stesso Aristotele siano incomplete, se non si integrano con quelle di Platone e, ancora di più, con gli oracoli resi dagli dei» (Alla Madre degli dei, 162 c-d, 4, 36-38, pag. 55).

Del cristianesimo assume l’organizzazione ecclesiastica e gli intenti pastorali e propagandistici, cercando di creare una vera e propria chiesa pagana. Dal cristianesimo, dal neoplatonismo e dalla gnosi assorbe anche il disprezzo per la materia e per le masse dedite solo ai piaceri, in particolare a quelli sessuali. La salvezza di un uomo consiste per Giuliano nel riconoscere dentro di sé la scintilla del divino che è la luce della conoscenza.

I testi che compongono questa raccolta sono diversi fra di loro. La Lettera a Temistio trasmette tutta la preoccupazione nutrita da Giuliano di non essere all’altezza del compito che gli dèi hanno voluto affidargli; Alla Madre degli dei è il manifesto dell’ellenismo teosofico del suo autore; A Helios re costituisce una sintesi molto ricca della speculazione neoplatonica del IV secolo; nel Misopogon, infine, Giuliano mostra le ragioni profonde, personali e passionali, del suo paganesimo attraverso una originale demolizione di se stesso che si risolve in dura invettiva contro Antiochia, la città da lui beneficata ma ormai in preda all’empietà dei cristiani e contemporaneamente vittima della sua antica immoralità. In tutti questi scritti risulta però comune il vivo desiderio di Giuliano d’esser considerato filosofo. Egli sa che il beneficio che potrà dare agli umani non dipende tanto dalla carica politica che ricopre quanto dal pensiero che esprime. Infatti: «chi fu salvato grazie alle vittorie di Alessandro? (…) Al contrario, quanti oggi si salvano grazie alla filosofia, si salvano attraverso Socrate» (Lettera a Temistio, 264 d, 10, 41-46, pag. 35) E, come Socrate, Giuliano morì da «eroe neoplatonico, proibendo che si piangesse dal momento che era sul punto di salire al cielo e di confondersi con il fuoco delle stelle» (Ammiano, XXV 3, 21; pag. 283). Il suo nome fra le stelle, in qualche modo, è rimasto come segno di un tentativo nobile e impossibile, mentre i nomi di altri imperatori pagani e cristiani non sono -come il suo- altrettanto liberi dalla ferocia e dal fanatismo.

Pilato

Elio Lamia chiede a Ponzio Pilato se si rammenta di un certo Gesù, «jeune thaumaturge galiléen (…) mis en croix pour je ne sais quel crime». La risposta del procuratore è: «Jésus? murmura-t-il, Jésus, de Nazareth? Je ne me rappelle pas». Con queste parole si chiude il racconto di Anatole France Le procurateur de Judée (1902). Pilato vi appare come un uomo giusto, sobrio, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. La fama del più celebre governatore romano è però affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne l’ignavia.

E invece è sua la parola più pulita e ironica dei Vangeli: «Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei -è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno -che importa?…Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore -la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “che cos’è verità?”…» (Nietzsche, L’Anticristo).

Romolo il Grande

di Friedrich Dürrenmatt
Teatro Carcano – Milano
Con Mariano Rigillo, Roberto Pappalardo, Anna Teresa Rossini, Antonio Fornari, Francesco Frangipane, Luciano D’Amico, Alfredo Troiano, Francesco Sala, Martino Duane
Regia Roberto Guicciardini
Produzione Doppiaeffe
Sino al 15 marzo 2009

romolo_grande_310

Idi di marzo del 476. Nella sua villa di Sorrento, Romolo imperatore non si preoccupa delle notizie che arrivano prima da Pavia e poi da Roma e che annunciano l’arrivo dei Germani vincitori. Piuttosto, cura il suo pollaio -alle cui galline ha dato i nomi dei suoi predecessori- e cerca di tenere a bada sia i traditori che passano al nemico (e sono tanti) sia gli ultimi eroi di Roma. Quando finalmente arriva Odoacre, è pronto a morire ma il capo dei barbari desidera solo essere nominato da lui Re d’Italia. Con la corte ormai in fuga -e annegata nel tentativo di fuggire in Sicilia- Romolo accetta la pensione e proclama la fine dell’Impero.

«Una commedia storica che non si attiene alla storia», la definì il suo autore.

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Ricordi – A se stesso

Marco Aurelio Antonino
(Ta Eis Eauton, 172 d.C.)
Introduzione di Max Pohlenz
Traduzione di Enrico Turolla
Commento di Marcello Zanatta
Testo geco a fronte
Rizzoli, Milano 1997
Pagine 770

Marco Aurelio ama e disprezza gli uomini in una trama di sentimenti davvero inestricabile: egli disdegna l’opinione del volgo la cui ammirazione è rivolta immancabilmente a quanto c’è di più basso, è convinto che il saggio non possa lamentarsi della malvagità dei molti poiché «è follia la pretesa che i malvagi non commettano colpe. Desiderio impossibile veramente!» (XI, 18) e tuttavia invita se stesso ad accettare e perfino amare coloro che la sorte gli ha posto accanto. Una contraddizione che diventa splendida in V, 20: «Un uomo è cosa, sotto un certo aspetto, in rapporto assai vicino con la mia persona, in quanto io debbo far del bene e debbo sopportare un mio simile; tuttavia in quanto taluni insorgono contro il loro dovere, in questo senso l’uomo diventa per me cosa indifferente non meno del sole, del vento, d’una bestia».
Qui appaiono chiarissime la comunanza e la differenza fra lo stoicismo e il cristianesimo. Anche Marco Aurelio denigra il corpo e i piaceri a esso legati, ribadisce di continuo una sorta di vanitas, omnia vanitas, giudica fumo «il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa» (IX, 30) mostrando di condividere in pieno il nichilismo cristiano; come Agostino, anche Marco Aurelio indirizza l’interiorità socratica verso la dimensione morale e non più metafisica; anche l’imperatore trasforma la filosofia da indagine sulla natura, la vita, la bellezza in meditatio mortis.
E tuttavia egli rimane un romano che vive nell’orizzonte degli dèi che tutto intrecciano in una Necessità non etica ma naturalistica («Concedi che la Parca faccia il suo intreccio con quegli eventi che vuole» [IV, 34]; «Qualunque cosa ti accada, da secoli senza numero t’era stata preparata. E l’intreccio delle cause ha preparato la tua esistenza, da tempo infinito intessendola insieme con lo svolgersi di quella singola cosa» [X, 5]), che immagina il mondo come un unico grande corpo pulsante di trasformazioni incessanti e quindi di vita e di morte; che attacca esplicitamente il volontarismo cristiano ribadendo per intero l’etica intellettualistica dei Greci: «Quale l’arte tua? Esser buono. E questa meta come puoi raggiungere se non per mezzo d’una preparazione intellettuale, uno studio profondo sull’universale natura, uno studio sulle caratteristiche proprie della costituzione umana?» (XI, 5; cfr. anche XI, 3). L’etica diventa antropologia. La sofferenza non è frutto di una colpa ma di un errato giudizio della mente che valuta come essenziali cose a lei in realtà indifferenti.

Le splendide e intime riflessioni rivolte dall’imperatore a se stesso possiedono un sapore amaro, come il presentimento di una sconfitta, di una rinuncia alla forza straripante della vita. Dei tre elementi che secondo Eric Dodds definiscono il saggio stoico –spassionato, spietato e perfetto– Marco Aurelio sembra possedere la perfezione morale e l’indifferenza verso le passioni ma non quella energia che, se necessario, diventa riso e sorriso sulla commedia tragica e grottesca della vita e degli umani.

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