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Adriano

Marguerite Yourcenar
Memorie di Adriano
seguite dai Taccuini di appunti
(Mémoires d’Hadrien, suivi de Carnets de notes de Mémoires d’Hadrien, 1951)
A cura di Lidia Storoni Mazzolani
Einaudi, 1988
Pagine 330

È uno dei libri che restituiscono alla lettura il suo senso più proprio, il suo significato proustiano, il suo essere prima di ogni altra cosa un molteplice dialogo con se stessi e dunque un confronto pieno con l’esistere. La scrittura splendida e semplice di Marguerite Yourcenar mostra quanto vivo sia il mondo dei Greci, il mondo dei pagani.
Tra il 117 e il 138 dell’e.v. un uomo a tutto interessato, viaggiatore instancabile, soldato abilissimo, lettore e scrittore, amante della bellezza in ogni sua forma, politico accorto e lungimirante, prende il potere e fa della pax romana molto più che un’aspirazione o una formula. Con Adriano l’integrazione dei popoli, la molteplicità religiosa, lo sviluppo economico, la pace alle frontiere, l’incremento urbanistico, culturale, artistico, costituiscono delle realtà tangibili.
Yourcenar ha disegnato di quest’uomo un ritratto compiuto e di grande bellezza. Ha lavorato con acume su moltissime fonti ma non ha scritto un saggio storico. E tuttavia sono pochi gli episodi frutto di sola invenzione. L’autrice afferma di aver voluto «rifare dall’interno quello che gli archeologi del XIX secolo hanno rifatto dall’esterno» (p. 285). Ne scaturisce un’opera sintesi, nella quale i temi e i caratteri più propri dell’epoca imperiale al suo apogeo si intrecciano con motivi e pensieri universali, di profonda qualità filosofica.
Adriano vuole comprendere l’esistenza e gli enti; sa di disporre a questo scopo di tre mezzi soltanto: «lo studio di se stessi […], l’osservazione degli uomini […] e i libri» (21-22). Questi ultimi sono stati la sua «prima patria» perché è tramite loro che per la prima volta ha «posato uno sguardo consapevole su se stesso» (32). Da allora ha compreso sempre più lo splendore e l’assurdità del vivere. La carriera politica, le campagne militari, le iniziazioni religiose, le passioni amorose, le opere tratte dalla pietra o incise con lo stilo, costituiscono tutte degli strumenti per il raggiungimento di una gioia possibile, poiché «qualsiasi felicità è un capolavoro» (155).
Adriano molto ha sperimentato, da tante cose si è allontanato, senza però mai aver rinunciato a nulla che promettesse una sia pur piccola pienezza. Per lui il potere è stato soltanto un modo di essere libero: «Ho cercato la libertà più che la potenza, e quest’ultima soltanto perché, in parte, secondava la libertà» (41). Il suo sguardo sugli umani è disincantato senza essere arido, è anzi colmo di una pietà libera da ogni sentimentalismo. Ha vissuto con appassionato trasporto «le gioie dolorose dell’amore» (205), fino a disperarsi per la morte dell’amato ed elevare a lui un vero e proprio culto: la religione di Antinoo. Ha nutrito verso la molteplicità delle fedi e delle idee quella feconda tolleranza di chi sa che «vi è più di una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo» (253). Ha amato la Grecia e ha fatto di essa la vera padrona del mondo poiché da lei proviene «tutto quello che c’è in noi di armonico, cristallino e umano» (210) e ha saputo riconoscere in Roma soprattutto la perennità dell’ordine politico. Compiute le opere, raccolti i pensieri, accettato il dolore, ha cercato «d’entrare nella morte a occhi aperti…» (276).
Ma Yourcenar non ha voluto proporre un’immagine ideale e dunque artificiosa di Adriano; lei stessa scrive con arguzia di essersi divertita «a fare e rifare questo ritratto d’un uomo quasi saggio» (286). Adriano non nasconde infatti a se stesso nessuna della proprie viltà, debolezze, limiti, e in questo modo mostra di essere -nonostante tutto– un nostro contemporaneo più che un imperatore del II secolo.
Forse il significato del libro consiste proprio nell’aver coniugato le epoche, nell’aver delineato l’umano nella sua espressione migliore e fatto di Adriano un contemporaneo lasciandolo essere un antico. A quale età appartengono parole come queste: «Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo» (127); «Ma non v’è carezza che giunga fino all’anima» (184)? Appartengono a quel tempo lontano, al presente, al sempre.

Ponzio Pilato

Il procuratore della Giudea
di Anatole France
(Le procurateur de Judée, 1902)
Traduzione e nota di Leonardo Sciascia
Sellerio, 1988
Pagine 48

France_ProcuratoreElio Lamia e Ponzio Pilato si intrattengono amabilmente durante una cena, ricordando il passato, la vita a Gerusalemme, il difficile governo della Giudea. Il procuratore difende il proprio operato, che era stato sempre rivolto a garantire la giustizia e le leggi, a promuovere anche in Giudea lo sviluppo e la pace che il dominio di Roma apportava alle Province dell’Impero. Ma essi, i Giudei -«questi nemici del genere umano» (p. 17)- «ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni» (26), fanaticamente certi di essere gli unici a conoscere il divino, seppure tra di loro continuamente in confitto sulla interpretazione delle proprie Scritture. Pilato presagisce che questo popolo non sarà mai domato, se non con la distruzione completa della Città santa e con la dispersione. Lamia è d’accordo con lui ma pensa che «in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità» (29), ricorda anche le virtù nascoste di quel popolo e soprattutto la bellezza delle sue donne, la sensualità straripante di «un’ebrea di Gerusalemme», con le «sue danze barbare, il suo canto un po’ rauco e insieme dolce, il suo odore d’incenso, il suo vivere trasognato […] Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco» (30-31). Questa donna fu da lui perduta quando lei si unì a «un giovane taumaturgo di Galilea»; Lamia chiede a Pilato se si rammenta di questo Gesù «crocifisso non ricordo per quale delitto». La risposta del procuratore è meravigliosa: « “Gesù” mormorò “Gesù il Nazareno? No, non ricordo» (31). E su queste parole si chiude il racconto, «che è un apologo -e un’apologia- dello scetticismo più assoluto (e quindi della tolleranza che ne è figlia)» (Leonardo Sciascia, p. 36).
La figura di Pilato è ricostruita con molta verosimiglianza. Un uomo giusto, ligio alla romanità, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. La fama del più celebre governatore romano è però affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne l’ignavia. Invece anche a me la vicenda di quest’uomo sembra singolare, rispettabile e -come afferma Lamia- di grande interesse.
Sua è la parola più pulita e ironica dei Vangeli: «Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei -è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno -che importa?…Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore -la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “che cos’è verità?”…» (F.Nietzsche, L’Anticristo, in «Opere», vol. VI tomo 3, Adelphi 1975, p. 229).
Questo bellissimo racconto di France spiega perché Pilato sia davvero degno d’onore.

Philosophiae Consolatio

BoetiusL’importanza e il peso della filosofia di Boezio (475-525) non stanno probabilmente nel valore intrinseco della sua riflessione ma nella particolare funzione assunta dalla sintesi che egli ha tentato della cultura classica.
Nei cinque libri del De consolatione philosophiae Boezio affronta i temi della Fortuna, dell’unità di Dio, del Male, della conciliazione fra libero arbitrio e onniscienza divina. Le soluzioni sono platoniche, sono agostiniane. «Ti è necessario ammettere che l’uno ed il bene siano la medesima cosa» (III, 11.9); il male non è che deficienza, scadimento di perfezione, è «nulla, dato che non può farlo colui che non c’è cosa che non possa fare» (III, 12.29). È ammirevole soprattutto l’altezza da cui Boezio parla di queste cose, il disprezzo per il volgo, per la stoltezza delle masse, inconfondibile segno della cultura e della mentalità classiche. Pertanto, nonostante gli espliciti attacchi alle filosofie ellenistiche, Boezio appare uno stoico allorché osserva che «nulla c’è di misero, se non quando tu lo valuti per tale, e viceversa felice è ogni tipo di sorte per chi la subisca serenamente» (II, 4.18); appare un epicureo quando sottolinea quante gravi angustie e quante poche gioie diano i figli tanto che «chi è senza figli è felice nella sua disgrazia» (III, 7.6).
Nonostante i cristiani si siano appropriati per intero della sua figura, Boezio rimane anche un antico pagano nel ribadire -come Pitagora come Platone come Aristotele- l’obiettivo della virtù filosofica: «diventare dei» (IV, 3.10). In questo intenso dialogo con la filosofia non viene mai fatto il nome del Cristo e non si trova alcuna condiscendenza nei confronti delle folle miserabili dei malvagi, delle masse che non pensano e vivono trascinate dall’errore, eleggono alle somme dignità politiche gli indegni, mutano opinione al mutar dei venti, meritano tutt’al più commiserazione essendo malate della malvagità che «brucia la mente, più atroce di qualunque debolezza fisica» (IV, 4.42) e alle quali, infine, viene tolta la stessa umana dignità:

…Ma l’apparenza che loro resta del corpo umano rivela che sono stati uomini fino a questo momento; ma, rotolati nel male, essi hanno perduto la natura di uomini…(IV, 3.15)

Boezio è stato davvero l’ultimo filosofo romano, l’erede di un sentire culturalmente aristocratico, al quale l’etica cristiana non riuscì a togliere l’orgoglio di un platonico.

Il tempo, il marmo

Rivoluzione Augusto. L’imperatore che riscrisse il tempo e la città
Palazzo Massimo – Roma
A cura di Rita Paris con Silvia Bruni e Miria Roghi
Sino al 2  giugno 2015

Per Carl Schmitt «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione» («Souverän ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet», trad. it. in Teologia politica, «Le categorie del ‘politico’», a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino 1972, p. 34), vale a dire chi stabilisce la sospensione del tempo ‘normale’ e l’ingresso in un tempo d’emergenza, nel quale le regole vengono sospese e il potere può agire facendo a meno di esse.
Più in generale, il potere è potere sul tempo, è potere di stabilire i modi e il significato del tempo, che sia ciclico, lineare, nostalgico, escatologico, assoluto. È anche per questo che «il tempo sociale è una delle forme più chiare e potenti della struttura simbolica dei gruppi umani, i quali via via che diventano sempre più estesi, interrelati e complessi hanno bisogno di una autocostrizione in vista della migliore regolazione delle esistenze individuali, subordinate alla più vasta struttura sociale. Il tempo sociale è quindi un mezzo di orientamento, al modo di una mappa o di una bussola, un meccanismo regolativo di alto livello e capace di esercitare su chi lo adotta una costrizione talmente forte da sconfinare quasi in un dato naturale. Esso rappresenta una delle più profonde espressioni della necessità umana di orientarsi nel mondo tramite una foresta di segni che siano in grado di salvaguardare l’esistenza individuale e collettiva. Quanto più i gruppi e le società diventano complessi e spersonalizzanti, tanto più i loro membri integrano i dati simbolici trasformandoli in strutture ovvie, naturali, astoriche. Il tempo è una delle più evidenti testimonianze, insieme al linguaggio, di questa naturalizzazione dei segni culturali» (La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009, p. 166). Questa realtà politica e simbolica ha prodotto la lunga vicenda dei calendari che le diverse civiltà si sono dati, «calendari e misurazioni molto diverse tra di loro ma tutte rivolte a coniugare bisogni sociali e schemi antropologici con il moto della luna e del Sole» (Temporalità e Differenza, Olschki 2013, p. 16).
Un’affascinante conferma della consustanzialità di tempo e potere è data dalla mostra dedicata ai modi in cui i Romani antichi scandivano il tempo collettivo e alle trasformazioni apportate al calendario da Cesare Ottaviano Augusto.
Augusto interpretava la propria opera come un servizio all’antica Repubblica ma venne acclamato per 21 volte Imperator e volle mutare alla radice la struttura spaziotemporale della sua città, volle reinventare il tempo pubblico, collettivo, religioso. Le sue modifiche furono volte soprattutto a coniugare natura e società, introducendo accanto ai giorni dedicati agli dèi quelli consacrati agli umani che in qualche modo si fossero resi degni degli dèi. Onorare il principe divenne come onorare la divinità. È quanto testimoniano qui le splendide opere in marmo che raffigurano il Tempio di Quirino, i segni zodiacali, la Rilievo con triade apollineatriade apollinea. Fasti chiamavano i romani i loro calendari, poiché in essi era fondamentale l’indicazione dei giorni nei quali si potevano svolgere le attività amministrativo-politiche. Tra i più accurati che ci siano rimasti i Fasti Praenestini, redatti fra il 3 e il 9 d.C.
Nella cartella stampa della mostra si legge: «Quando cambia un calendario nella città mutano l’organizzazione e l’ordine del tempo, determinando un nuovo modo di pensare e di vivere, accanto alla topografia delle emergenze monumentali, la topografia cronologica della città» (p. 5). Sovrano è chi decide sullo statuto del Tempo.

Θεσσαλονίκη

Il mare la bagna lungo Leoforos Nikís, la via che dal porto conduce alla Torre Bianca. Dove una volta c’erano le mura ora è l’ampia vista che spazia per le acque. Su questo mare sporge Platía Aristotelous, una elegante mescolanza tra il Cordusio di Milano e Piazza dell’Unità d’Italia di Trieste. Da questo luogo parte la via porticata che conduce alla Platía Dikastírion, poi all’Agorà romana e infine ad Ágios Dimítrios, la cattedrale della città. In poche centinaia di metri stanno interi secoli e tutta la storia, almeno quella che è rimasta o che è stata ricostruita dopo l’incendio devastante che nel 1917 cancellò gran parte della città. Ágios Dimítrios è una sintesi delle tante chiese che costellano Thessaloníki, tutte uguali nella struttura, nella proliferazione delle icone, nelle candele. Il rito dei cristiani ortodossi è un vero rito religioso. I pope sono abbigliati in modo lussuoso e cromatico. Durante la funzione alla quale ho assistito erano in nove, più tre che cantavano ininterrottamente. Uno di loro attraversa per intero il tempio diffondendo il profumo dell’incenso. I celebranti volgono quasi sempre le spalle ai fedeli, cantando per gran parte del rito. L’effetto è una solennità antica che la messa cattolica ha completamente smarrito, sostituendo al sacro -che è sempre anche distanza- un’imitazione delle canzonette sanremesi, tanto veloce quanto banale (non parlo neppure, ovviamente, dei ‘riti’ protestanti ai quali ho assistito nel nord Europa, di una penosa tristezza).
Teatri e Università sono tra loro vicini. All’ingresso della Facoltà di filosofia c’è un busto di Aristotele, al quale l’intero Ateneo è giustamente dedicato. Aristotele, infatti, era di queste parti; vicino al mare si trova una imponente statua del suo allievo più celebre, Μέγας Ἀλέξανδρος, rivolta verso l’Oriente e circondata da scudi sui quali compaiono i simboli più densi della religione ellenica.Thessaloníki. Μέγας Ἀλέξανδρος
Se le mura che davano sul mare non ci sono più, rimangono invece le mura che difendevano la città dall’alto. Mura anch’esse -come le chiese bizantine, i resti romani, le poche tracce classiche- letteralmente immerse e sovrastate dalla grande bruttura dei condomini contemporanei, dai quali davvero nessuna luce sembra trasparire, dei quali nulla rimarrà poiché nulla merita di rimanere. Tra gli edifici romani, invece, permane ancora parte dell’Arco dell’imperatore Galerio -una storia per immagini simile alla Colonna Traiana- e a poca distanza il mausoleo di questo imperatore, diventato di volta in volta chiesa cristiana e moschea ottomana.
Tutti questi luoghi sono vicini a Odós Egnatía, l’ampio e lungo tratto della via romana che collega Durazzo a Costantinopoli attraversando Macedonia e Tracia. Il Museo Archeologico (1962) e il Museo della Cultura Bizantina (1994) conservano numerose e splendenti tracce del mondo e del tempo in cui Thessaloníki fu grande.
Ho visitato questa città anche per capire sino a che punto gli incolti padroni della finanza europea stanno distruggendo la Grecia. E in effetti molti palazzi sono abbandonati e in rovina, come se una guerra, la guerra dell’Euro, li avesse colpiti. Ma ho anche constatato che tanti altri spazi sono ben vivi, frequentati, ricostruiti. Macerie e futuro si mescolano nel quartiere chiamato Ladadika, quadrato di strade che corrisponde a un antico mercato turco, dagli edifici bassi e colorati, dove si possono ascoltare le musiche popolari dei macedoni e quelle del presente.
Thessaloníki è una città balcanica e mediterranea, politeista e ortodossa, rassegnata e frizzante. È la Grecia contemporanea.

Ellenismo

I secoli che vanno dalla battaglia di Cheronea vinta da Filippo di Macedonia contro le città greche (338 a.C.) alla dinastia imperiale dei Severi sono noti -a partire dalla definizione di Droysen- con il nome di Ellenismo. Sono secoli in cui l’identità greca si conferma, si amplia e trasforma. Dopo le imprese di Alessandro il Grande tre regni si disputano l’egemonia sull’impero da lui fondato: la Macedonia degli Antigonidi, l’Asia dei Seleucidi, l’Egitto dei Lagidi. L’intervento romano -o meglio i vari momenti nei quali Roma si alleò con alcuni Greci contro altri Greci- chiude l’esperienza politica degli Elleni (definitivamente nel 146 a.C.) ma non quella culturale, linguistica, civile che anzi si rafforza ed estende fino a far sì che «per non insignificanti aspetti l’impero romano dev’essere letto come realizzazione suprema dell’ellenismo» (I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di Salvatore Settis, vol. II/3 Una storia greca. Trasformazioni, Einaudi, 1980, p. 680). La storia delle πóλεις muta ma non scompare, anzi si rafforza e da vicenda di guerre permanenti diventa storia di una cultura complessa e ricca, garantita dalla pax alessandrino-romana.
Quella ellenistica è una società fortemente urbanizzata, culturalmente raffinata, in grado di vedere in se stessa la realizzazione di un principio universalistico e dedita in ogni suo aspetto e livello alla pienezza del vivere. Fondazione di nuove città e contatti sempre più intensi fra di esse determinano il potenziamento della πóλις classica, sino a fare di quasi ogni centro urbano -piccolo o grande- un luogo di diffusione della lingua e della cultura greche. La città ellenistica costituisce il modello della stessa Roma e quindi di tutta la successiva cultura urbana che caratterizza così fortemente la civiltà europea.
Nelle città ellenistiche –Pergamo, Siracusa, Alessandria, Atene– i successori di Alessandro dedicano grande attenzione e finanziamenti alle scienze, alle arti, alla filosofia. Quest’ultima vide forse proprio nell’Ellenismo la maggiore realizzazione del progetto platonico se è vero che «in molti, se non nella maggior parte dei contesti politici, la presenza e la visibilità dei filosofi fu altamente apprezzata» (468), tanto che nella stessa Roma -a partire dalle lezioni tenute nel 155 a.C. dai maggiori scolarchi greci- iniziò un interesse e «un desiderio per la filosofia che non sarebbe diminuito per il resto dell’antichità» (476). Lo sviluppo delle scienze durante l’Ellenismo dà ragione all’ipotesi di Lucio Russo, per il quale il III secolo a.C. fu il tempo di una vera e propria rivoluzione scientifica negli ambiti più diversi, una rivoluzione che non è stata soltanto l’anticipatrice di quella ben più famosa del XVII secolo ma la sua vera e propria fonte. E infatti: «Il secolo e mezzo successivo al presunto floruit di Euclide vide lo sviluppo davvero straordinario di una ricerca matematica di prim’ordine» (687), di una astronomia il cui valore fu riconosciuto da Copernico, di una filologia rigorosa in grado di elaborare le metodologie di lettura e di analisi dei testi «che costituiscono ancor oggi il fulcro della disciplina filologica: l’ eàkdosiv, o edizione, e il commento continuo dei testi» (1201), di una geografia fisica e antropica frutto della convergenza di calcoli geometrici, di conoscenze climatiche, di contatto diretto con i popoli.
La Biblioteca di Alessandria è solo la maggiore e più famosa delle tante istituzioni di ricerca che trasformarono il libro, la lettura, lo studio in strumenti di crescita economica e culturale. La lingua di questa cultura è il greco, sempre più diffusa nel mondo -dal I sec. a.C. al III dell’era volgare-, la più usata in Oriente insieme all’aramaico, parlata e scritta dalle persone colte di tutto l’Occidente. I Greci dell’Ellenismo sono certamente diventati cosmopoliti, hanno ampliato enormemente il proprio orizzonte di vita ma sono ancora i Greci attenti alla libertà del singolo, a quei principi di autonomi@a ed eleuqeri@a che rappresentano uno dei fattori di continuità, di lunga durata, della storia greca dall’età arcaica sino all’impero di Roma. I rapporti fra la Grecia e la romanità costituiscono certamente uno dei temi centrali dell’indagine sull’Ellenismo. Dall’incontro fra Roma e la Grecia è infatti nata l’Europa medioevale e moderna, con il suo peculiare stile di vita urbano, tecnico e teso all’espansione. Sembra di poter dire con sufficiente sicurezza che «non c’è momento della storia romana del quale si possieda documentazione che non riveli il marchio della cultura greca» (941).
L’uomo dell’Ellenismo è dunque ancora l’uomo Greco, con la sua gioia di vivere, incarnata da Dioniso dispensatore di ebbrezza e di distruzione; dalla miriade di Satiri, Ninfe, Menadi, Centauri, Eroti il cui riso e felicità sono ancora vivi nella plastica ellenistica; da Pan con la sua sessualità straripante, innocente, doppia: «Gli antichi […] erano affascinati dalla bisessualità come da un fenomeno di intensificato piacere dei sensi. Nei giochi della fantasia ci si poteva augurare di provare allo stesso modo sia le gioie maschili che quelle femminili» (592). Per questi Greci una vita senza piacere e festa, senza la gioia del corpo, non vale la pena di essere vissuta; abbiamo «a che fare con un’epoca interessata a organizzarsi la vita in maniera comoda e piacevole» (593), un’epoca che così vuol vivere anche perché consapevole della dimensione aleatoria dell’esistenza, cosciente del potere che l’attimo e il caso -καιρóς e tu@ce- sempre esercitano sul mondo degli umani.
Questi Greci sono davvero diversi da noi, dallo sfondo sacrificale e ascetico della civiltà cristiana, sono lievi, disincantati, ironici e sereni. E sono anche politicamente più avanzati per la loro capacità di distinguere l’interesse privato da quello pubblico, per la loro volontà di non subire pericolosi conflitti di interesse. Fra di loro chi aveva da difendere i propri beni e aziende (ta# iòdia, oikeia) non poteva né doveva farli prevalere e confondere con il bene di tutti, con la sfera della politica (ta# dhmo@sia, politika@). E anche socialmente avremmo da imparare da uomini meno ipocriti, che non proclamavano ideali di eguaglianza e fratellanza universale ma che di fatto consentivano agli schiavi di «possedere beni ed effettuare transazioni legali» (713) mentre nelle nostre società umanitaristiche sono ampiamente tollerate le più subdole e feroci forme di schiavitù. Ma forse vale in particolare per i Greci quanto Strabone afferma dell’Europa intera:

Bisogna dunque cominciare dall’Europa, perché è la regione che più di ogni altra si trova nelle migliori condizioni per varietà di forma e per eccellenza di uomini e di governi e che più di ogni altra ha elargito i propri beni al resto del mondo (Geografia, 2.5.26).

Costantino, l’intollerante

Costantino 313 d.C.
Palazzo Reale – Milano
A cura di Gemma Sena Chiesa e Paolo Biscottini
Sino al 24 marzo 2013

La Milano tardo antica era una magnifica città, capitale dell’Impero romano d’Occidente dal 286 al 402. Le tracce ancora visibili di questa fase della sua storia non sono molte ma quelle che rimangono sono imponenti e si riferiscono soprattutto al IV secolo, al periodo in cui il culto cristiano venne prima autorizzato -nel 313 appunto, con l’Editto emanato a Milano da Costantino- e poi reso esclusivo.
Costantino e sua madre Elena ebbero l’abilità e l’accortezza di comprendere quanto sarebbe stato assai  più utile associare i cristiani al potere imperiale invece che insistere affinché riconoscessero la divinità dell’imperatore. Da allora fu un crescendo di accordi politici, militari, culturali, sino alla pratica di una violenta intolleranza non soltanto contro i pagani ma anche contro le correnti teologiche cristiane diverse da quella sostenuta dall’imperatore. Il Credo che i papisti recitano la domenica -profondo e potente testo teologico e letterario- fu sollecitato e approvato nel 325 da Costantino, imperatore che perseguitò con le armi e i tribunali quanti non condivisero quell’atto di fede, arrivando a comminare la pena di morte a coloro che, ad esempio, avessero semplicemente letto i libri di Ario.
Poi i suoi successori privarono dei diritti e perseguitarono quanti non erano disposti a farsi cristiani. Nel 356 Costanzo II fa chiudere i templi pagani e ne sequestra i beni. Nel 380 Teodosio dichiara il cristianesimo religione di Stato e nel 391, infine, proibisce ogni culto pagano. Il sottotitolo della mostra –L’Editto di Milano e il tempo della tolleranza– risulta dunque decisamente sviante e ideologico. Significativo è che nei recenti scavi di Piazza Meda a Milano si siano trovati oggetti «che testimoniano la convivenza di temi cristiani e pagani» ma tra le strutture murarie della Chiesa Rossa (sempre a Milano) emerge una testa dell’imperatore Tiberio quasi del tutto seppellita e utilizzata soltanto come materiale dell’edificio cristiano.
Nei primi secoli della loro era i cristiani non adottarono il simbolo della croce -assolutamente infamante- ma il Krismon, formato da due lettere dell’alfabeto greco tra di loro incrociate e indicanti il nome di Cristo, accompagnate dall’alfa e dall’omega. Il risultato grafico è più vicino al simbolo pagano del Sol invictus, così come la scelta del 25 dicembre per ricordare la nascita del dio dei cristiani, data nella quale i romani celebravano il Sole che rinasceva.
Soltanto in un pannello della mostra si ammette che «serie limitazioni al paganesimo» furono introdotte alla fine del IV secolo «quando venne stabilita per legge la sua impraticabilità». Un linguaggio piuttosto eufemistico mentre per i cristiani prima del 313 si utilizzano di continuo termini come “persecuzione”, “martirio”, “ferocia”. Altre notizie storiche su quanto i cristiani attuarono contro i pagani si possono trovare in un articolo di Elio Rindone, il quale scrive che «la manipolazione della storia non implica la necessità di dire il falso, perché basta evidenziare un dato e tacerne un altro». La menzogna dei vincitori, come si vede, può durare millenni. E proseguire.

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