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Aspromonte

Aspromonte. La terra degli ultimi
di Mimmo Calopresti
Italia, 2019
Con: Marcello Fonte (Ciccio, il poeta), Francesco Colella (Peppe), Marco Leonardi (Cosimo), Valeria Bruni Tedeschi (Giulia, la maestra), Sergio Rubini (Don Totò)
Trailer del film

Nel 1951 il paese di Africo, in provincia di Reggio Calabria, era completamente isolato dalla pur non lontana Marina. Non aveva strade, non aveva medico, non aveva energia elettrica, non aveva acquedotto, non aveva scuole né maestre stabili. La miseria era analoga a quella descritta da antropologi e letterati per altri luoghi dell’Italia meridionale. Il film racconta l’arrivo di una nuova maestra che proviene dalla Lombardia, la richiesta alle autorità di governo di avere un medico, il tentativo da parte degli abitanti di costruire almeno una strada rurale che eviti di attraversare boschi e burroni per arrivare in pianura. Ma le autorità ingannano, un delinquente locale ricatta e comanda, la maestra fa quel che può. Sino a quando, e quasi contemporaneamente a un’alluvione che danneggia gravemente le misere abitazioni, i contadini e i pastori abbandonano il luogo e danno inizio quella vera e propria deportazione più o meno volontaria che ha impoverito l’Aspromonte e dato linfa alla ‘Ndrangheta calabrese.
Mimmo Calopresti è regista attento alle questioni sociali e qui si sente il forte legame con la propria terra, con una memoria familiare che l’abbandono ha trasformato in nostalgia e alienazione. ‘Alienazione’ proprio nel sento letterale di questa parola, una rinuncia a sé, alla propria identità storica, all’essere l’umano anche il luogo in cui è nato ed è cresciuto, il Dasein, l’esserci, come In-der-Welt-sein, l’essere nel mondo, che è anche e prima di tutto il proprio mondo d’origine. Un altro dispositivo heideggeriano aiuta a comprendere l’alienazione di chi è costretto a lasciare la propria terra a causa di una miseria irredimibile perché le autorità la rendono irredimibile: questo dispositivo è la Heimat, la dimora, la terra che ben si conosce, il luogo, un terreno, una casa, nel quale abitare con fiducia perché è parte di noi e noi siamo una sua espressione viva.
Gli umani non sono soltanto i citoyens che prospettive antropologiche e filosofiche astratte separano dall’essere noi tutti anche gli abitatori di un luogo determinato, di uno spazio di memoria non soltanto personale ma nel quale sono germinati i nostri genitori, i nostri avi, la nostra vicenda filogenetica e familiare. Uno degli elementi più distruttivi della globalizzazione/imperialismo è la riduzione degli umani a ‘cittadini del mondo’, a individui, clienti, risorse economiche e non, come invece siamo, a entità fatte di uno spaziotempo ben preciso e determinato. Tale riduzione comporta la dissoluzione della identità/differenza che ciascuno di noi è, sostituita da una melassa indifferenziata fatta di condizionamento mediatico, fatta di conformismo, fatta di nulla.
L’abbandono dell’Aspromonte ha comportato anche l’incremento della criminalità. L’abbandono della Heimat sta comportando l’essere e il fare tutti la stessa cosa, nutrire i medesimi pensieri. È questo il pasto di cui si nutre ogni dispotismo.

Con la Russia, per l’Europa

Che cosa autorizza un Paese come gli Stati Uniti d’America a intromettersi nelle decisioni, nella vita, nelle libertà di altri Paesi? In nome di che che cosa gli USA sono giudici dei destini di ciò che avviene nel continente asiatico, in America Latina, in Europa, ovunque? Da dove proviene questo privilegio assoluto di decidere per tutti che cosa sia il bene e che cosa il male? Che cosa legittima la pretesa che gli altri popoli, stati, nazioni debbano obbedire ai giudizi, alle decisioni, alle azioni degli Stati Uniti?
Non vedo porre tali domande, che pure sono essenziali di fronte a un’ingerenza sempre più pervasiva, totale, assai rischiosa, da parte dello stato nordamericano in tutti gli eventi del pianeta.
Ai difensori dell’imperialismo statunitense (così si chiama tecnicamente nella scienza della politica) pongo tali domande, che non sono retoriche. Vorrei proprio saperlo, infatti. Perché e da dove nasce il privilegio assoluto degli USA di decidere sulla Siria, sull’Iran, sui rapporti tra la Cina e la Russia, sui governi italiani, sulla politica monetaria cilena, solo per fare qualche esempio di una presenza totale? Da dove proviene? Che cosa lo motiva? Su quali elementi normativi o etici del Diritto internazionale si fonda?
Sin quando queste e analoghe domande non riceveranno risposte razionali e plausibili, l’ingerenza planetaria degli Stati Uniti d’America sarà una forma della volontà di potenza, la più pericolosa mai attuata nella storia della nostra specie.
Nulla di nuovo naturalmente, anche se nuove sono le potenzialità distruttive che una simile politica comporta, ma allora bisognerebbe dirlo in modo esplicito, senza infingimenti: nelle guerre che gli USA iniziano ovunque o alle quali partecipano domina la legge del più forte, vigono principi di natura geopolitica, sono in gioco le ambizioni di dominio economico e strategico della potenza più armata del pianeta. Di questo si tratta. E non di ‘valori’, ‘democrazia’, ‘libertà’. Ripulire il campo dall’ipocrisia moralistica e semantica sarebbe già un passo avanti.

È soltanto in questo quadro che si può comprendere la questione Ucraina.
Oskar Lafontaine, ex ministro delle Finanze tedesco ed ex presidente del partito socialdemocratico (SPD) ha dichiarato apertamente che «la guerra in Ucraina non è una guerra della Russia contro l’Ucraina o viceversa, ma una guerra degli Stati Uniti contro la Russia» (Contropiano. Giornale comunista on line, 16.2.2012). È infatti una guerra anche vigliacca quella combattuta dagli Stati Uniti d’America per procura contro la Russia in Ucraina, «senza rischiare la vita di un solo soldato sul terreno, limitandosi a fornire strumenti di morte e informazioni spionistiche per rendere l’impatto più efficace» (Marco Tarchi, Diorama Letterario 371, p. 1).
Una guerra che invera e prosegue la svolta rovinosa che a partire dalle Paci di Versailles del 1918-1919 ha trasformato la guerra in una questione assoluta, nella quale il nemico non è più un semplice nemico ma è diventato un subumano che non merita alcun rispetto. Una disumanizzazione, anche rispetto al mondo antico, che ha la sua plastica testimonianza nella richiesta del presidente ucraino di vietare a tutti gli atleti russi di partecipare alle Olimpiadi di Parigi del 2024, quando invece per i Greci le Olimpiadi erano ragione di tregua nei conflitti in corso.
La marionetta che governa Kiev (e che si crede un burattinaio) oltrepassa ogni misura, razionalità, responsabilità, chiedendo «armi, più armi» alla NATO. Tanto che i Paesi che compongono l’alleanza militare si stanno dissanguando per finanziare la guerra, togliendo pane, sanità, scuola, lavoro, ai propri cittadini allo scopo di armare all’inverosimile la dittatura ucraina.
E che si tratti di una dittatura è confermato dal Partito Unico al potere, dalla persecuzione dei russofoni e della Chiesa ortodossa non nazionalista, dalle ‘punizioni’ erogate in pubblico e senza alcun processo per chiunque sia giudicato ribelle dalla polizia, dal tentativo di sterminio degli abitanti delle regioni autonome, dal dominio totale sui media ucraini. Anche Amnesty International conferma che l’esercito dell’Ucraina ha come obiettivo la morte e il danno dei cittadini ucraini. L’Ucraina è in realtà uno dei Paesi più corrotti d’Europa e fiumi di denaro dei cittadini e contribuenti italiani ed europei vanno a ingrossare i conti correnti di politici e oligarchi ucraini.

L’eterogenesi dei fini è una delle forme più ironiche e più amare delle vicende umane. In questo caso, essa fa sì che i “democratici” italiani ed europei sostengano anche i movimenti neonazisti al potere in Ucraina. E lo fanno mettendo a rischio i propri concittadini in nome degli interessi e della propaganda degli Stati Uniti d’America. Di fronte alla rovina dell’Italia e dell’Europa, a vantaggio degli USA e per difendere il governo fantoccio dell’Ucraina, ci sarebbero le condizioni per processare i governi in quanto colpevoli di «alto tradimento» degli interessi e della sicurezza dei cittadini.
La miseria economica, il disagio sociale, la crisi della sanità, dei servizi, della formazione sempre più diffuse in Italia e in Europa per difendere e finanziare i Quisling dell’Ucraina costituiscono una prova assai chiara della inadeguatezza, della corruzione, della menzogna che guidano le classi dirigenti del Continente, compreso il governo Meloni. Perché, ad esempio, non ci sono soldi per il bonus edilizio, per l’assunzione di medici negli ospedali, per la ricerca universitaria, per gli edifici scolastici, e invece ci sono (molti) danari per inviare armi e ogni altro strumento di guerra all’Ucraina?
Gli inventori di una Ucraina «democratica» – si tratta in realtà di uno degli stati europei più autoritari e corrotti, con radici e simpatie nazionalsocialiste – si affannano a riempirla di armi e di denaro con il rischio di portare a distruzione l’Europa. Se l’aggressore operativo è la Russia, il vero aggressore strategico è la NATO, che venendo meno agli accordi di Minsk ha ampliato il proprio controllo sull’Europa sino ai confini della Russia. È come se quest’ultima ponesse le sue basi nucleari in Canada o nel Messico. Inaccettabile.

[L’espansione della NATO dal 1998 al 2022]

Gli Stati Uniti vogliono controllare ogni azione politica che accade nel mondo, non accettano neppure come ipotesi un pluriversalismo che limiti il globalismo unipolare che tendono a imporre all’intera umanità. Una prova linguistica e semantica di tale pretesa è l’affermazione che «la comunità internazionale» stia condannando e sanzionando la Russia. In realtà, i Paesi che si sono rifiutati di sanzionare la Russia rappresentano invece l’82% della popolazione mondiale.

E tutto questo per difendere «la libertà», la «democrazia»? No, tutto questo serve a organizzare, imporre e difendere un principio e un germe totalitario che consiste nella Gleichschaltung, nell’allineamento a una sola prospettiva, nella «soppressione dei modi di pensare dissidenti, l’eradicazione di ogni pensiero non coincidente con l’ideologia dominante» (Alain de Benoist, DL 371, p. 13).
Il totalitarismo non consiste  infatti soltanto e principalmente nei mezzi che si usano ma sta nello scopo per il quale si usano. Gli strumenti possono essere assai più leggeri rispetto a quelli utilizzati dai regimi totalitari del Novecento, «mezzi meno brutali, addirittura fatti per piacere e sedurre, che vanno di pari passo con l’adozione e un apparato di sorveglianza di un’ampiezza (e di un’efficacia) mai vista. Questo si chiama pensiero unico, e ogni progetto che punta ad imporre un pensiero unico è totalitario» (Ibidem).
Gli Stati Uniti d’America costituiscono una nazione nata dal peggio dell’Europa, prosperata con il genocidio e le guerre in tutto il pianeta. Una nazione distrutta dall’illusione multiculturalista e spenta dal Politically correct. Gli USA sono una democrazia apparente, sono una società iniqua e feroce.
La corsa a essere e a mostrarsi servi degli USA e della NATO, contro gli interessi dell’Europa e dell’Italia, è una delle massime espressioni della tragedia che l’Europa vive in questo nostro tempo. I decisori politici europei sono dei veri e propri traditori al servizio di una potenza straniera e nemica, che sta muovendo guerra all’Europa.
La Russia è stata sempre amica dell’Italia. L’ingratitudine spinta sino a fornire armi ai suoi nemici è una responsabilità inaudita del governo Draghi prima e di quello Meloni dopo. Tutto questo si spiega anche con l’idolatria televisiva, con la rinuncia al pensiero, con la Società dello Spettacolo. Una società stordita, inebetita, che scatta come un burattino alle parole d’ordine e alle menzogne dei media, primo dei quali la televisione. Nonostante tale controllo mediatico, il rifiuto della guerra è netto da parte della maggioranza dei popoli e dei cittadini europei. E questo ricorda il 1914. Governi e ceti dirigenti sono oggi come allora accecati da calcoli e fanatismi che portarono alla catastrofe l’Europa.
L’immagine sopra e quella qui sotto spiegano più di tante parole che cosa sia accaduto negli ultimi decenni., una proliferazione di basi statunitensi ovunque (800 sparse in tutto il mondo), che mette a rischio l’esistenza e l’autonomia della Russia e della Cina. Pensare che questo possa accadere senza che Russia e Cina si difendano è stoltezza politica.

[Le basi statunitensi in Asia e Oceania]

Gli Stati Uniti d’America e i loro alleati non hanno il diritto di parlare di pace, semplicemente.  Non ne hanno diritto perché la politica estera degli USA dal 1945 al presente è consistita in una serie ininterrotta di guerre. Ecco un elenco delle tante guerre che gli USA hanno scatenato, per non parlare dei colpi di stato contro Paesi sovrani, come il Cile del 1973:

 -Corea e Cina 1950-53 (Guerra in Corea)
– Guatemala (1954)
– Indonesia (1958)
– Cuba (1959-1961)
– Guatemala (1960)
– Congo (1964)
– Laos (1964-1973)
– Vietnam (1961-1973)
– Cambogia (1969-1970)
– Guatemala (1967-1969)
– Grenada (1983)
– Libano, Siria (1983, 1984)
– Libia (1986)
– El Salvador (1980)
– Nicaragua (1980)
– Iran (1987)
– Panama (1989)
– Iraq (1991) (Guerra del Golfo)
– Kuwait (1991)
– Somalia (1993)
– Bosnia (1994, 1995)
– Sudan (1998)
– Afghanistan (1998)
– Jugoslavia (1999)
– Yemen (2002)
– Iraq (1991-2003) (truppe Usa e UK insieme)
– Iraq (2003-2015)
– Afghanistan (2001-2015)
– Pakistan (2007-2015)
– Somalia (2007-2008, 2011)
– Yemen (2009, 2011)
– Libia (2011, 2015)
– Siria (2014-2015)

Per quanto riguarda l’Ucraina è ormai chiaro che il gasdotto che unisce la Germania alla Russia è stato distrutto da militari USA. Una gravissima azione di guerra attuata con modalità terroristiche.
E questo perché gli Stati Uniti d’America praticano la guerra contro l’Europa. Lo fanno da tanto tempo. Adesso l’hanno proprio dichiarata. La responsabilità maggiore è dell’Unione Europa, è dei ceti dirigenti europei di “destra” e di “sinistra” – compreso il governo italiano guidato da Giorgia Meloni – che non difendono i loro popoli da un nemico così implacabile, barbaro.
Tutto questo è espressione dell’Identità che tende a cancellare la Differenza. E invece l’essere, anche quello politico, è un gioco senza fine di Identità e Differenza, nel quale nessuno dei due poli cancella, può cancellare, l’altro. Pena la dissoluzione.

Per le differenze

Alain de Benoist
L’impero interiore
Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea
(L’empire intérieur, 1995)
Trad. di Debora Spini e Marco Tarchi
Ponte alla Grazie, 1995
Pagine 188

Complessi, ritornanti, rizomatici sono i percorsi della storia umana, delle comunità che la vivono, delle idee che la plasmano. Dissolti in Europa gli imperi dopo la Prima guerra mondiale, in particolare con i trattati di Sèvres e di Versailles, l’idea di nazione sembrò vincere e trionfare. In effetti essa ha guidato e costituito la storia contemporanea. Ma se nel XIX la nazione avanzò sullo slancio giacobino e napoleonico – eredi del centralismo delle monarchie assolute, in particolare di quella di Luigi XIV -, nel Ventesimo e Ventunesimo secolo essa sta mostrando sempre più la propria natura oppressiva e reazionaria, non solo nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista ma anche nell’imperialismo degli Stati Uniti e delle burocrazie europeiste, le quali non condividono nulla dell’idea imperiale, rimanendo invece «nazioni che cercano solamente di dilatarsi attraverso la conquista militare, politica, economica o di altro genere, sino a giungere a dimensioni che eccedono quelle delle loro frontiere del momento» (p. 165). Esempio massimo sono gli USA, che operano indefessamente al fine di «convertire l’intero mondo in un sistema omogeneo di consumo materiale e pratiche tecno-economiche» (166).
L’imperialismo contemporaneo è da ogni punto di vista l’opposto del principio e della struttura imperiali come emergono, ad esempio, nell’Impero romano fondato su un riconoscimento e un rispetto pervasivi delle autonomie locali e delle differenze ideali: di costume, di lingua, di religione. Quest’ultimo elemento costituisce un fattore di civiltà che i monoteismi hanno combattuto, calunniato, dissolto: «L’Impero romano non si richiama a divinità gelose. Ammette quindi gli altri dei, famosi o sconosciuti, venerati dai popoli che riunisce. La tolleranza religiosa è la norma, come del resto in tutto il mondo antico» (145).

Il mito dell’impero si fonda per de Benoist nell’impero del mito. A quest’ultimo è dedicata la prima e densa parte del volume. Attraverso un’ampia disamina filosofica e storica, si argomenta la tesi per la quale «Mythos e Logos sono termini assolutamente interscambiabili» (11), tanto che molte ricerche contemporanee in settori disparati – antropologia, letteratura, filosofia, religioni, logica – mostrano la razionalità del mito. Tra gli studiosi più noti, Kurt Hübner e James Hillman. Il primo sostiene che «il mito, lungi dall’essere ‘irrazionale’ possiede al contrario la sua propria razionalità. […] L’uomo non sperimenta mai il mondo direttamente: ogni sua esperienza, compresa quella scientifica, è necessariamente mediata da un universo mentale significante. Il mito quindi forma la struttura di questo universo e niente può dimostrare che questa struttura sia meno legittima di quella proposta dalla scienza» (62-63); da parte sua, Hillman vede nella «ragione solo un’espressione particolare del mito» (63).
Il mito va molto al di là del religioso e dell’etico. Il dominio sempre più pervasivo e soffocante della morale nel nostro tempo rappresenta un sostituto assai povero di comportamenti che sono di per sé misurati poiché regolati su una misura non soggettivistica, non psicologica, non normativa. Questa misura scaturisce non dal religioso o dall’etico ma dal sacro, che è un legame profondo e immediato con la materia come κόσμος, come totalità e dunque come continuità misurata dell’umano rispetto all’intero del quale è parte. Si tratta del contrario della ὕβρις, della dismisura escludente e individualistica diffusa nel mondo mediterraneo dai monoteismi, in particolare da quello cristiano: «Il mondo a questo punto non può più essere intrinsecamente il luogo del sacro. La relazione immediata non è più quella fra l’uomo e la totalità del reale, ma una semplice relazione con qualcun altro, che associa dei soggetti ormai separati» (36).
Monoteismi che a loro volta costituiscono il frutto e insieme il rafforzamento di alcuni elementi del tutto desacralizzanti: «l’individualismo (anima individuale, salvezza individuale), la dissociazione inaugurale nel dualismo dell’essere creato e dell’essere increato, il rifiuto del tempo circolare o ciclico e l’adesione ad una concezione della storia unilineare e vettoriale» (35).
La dimensione sacrale e mitica, invece, è intessuta di una ripetizione che implica sempre la differenza. E «in questo sta il senso di ogni metafora cosmica, fondata sul regolare alternarsi di opere e giorni, delle età e delle stagioni. Il ritorno periodico della primavera è il ritorno di una forma, ma non di un contenuto: è sempre la stessa stagione, ma è sempre un’altra primavera. L’immagine chiave, in questo caso, non è tanto il cerchio quanto la spirale o la sfera, poiché la possibilità di superare nasce dalla stessa ripetizione; e la rigenerazione del tempo nasce dal ricorso a ciò che è al di là del tempo» (25).
Il principio imperiale ha soprattutto questo in comune con l’ontologia mitica: un gioco senza fine di Identità e Differenza, per il quale che si tratti di dèi o di umani «l’identità degli altri, lungi dall’essere una minaccia per la nostra identità, fa parte di ciò che permette a tutti noi di difendere le nostre rispettive identità contro il sistema globale che cerca di ucciderle» (175).

L’Europa, luogo e spazio di origine di queste dinamiche, potrà sopravvivere alla sua sempre più evidente insignificanza politica e geostrategica soltanto se rispetterà le differenze tra i popoli e le comunità che la compongono e l’identità della loro storia mediterranea, se saprà dunque «tornare nella luce del mito» (74), nel chiarore della filosofia greca.

Ucraina, genesi di un conflitto

Il numero 52, anno XXVI (maggio-giugno 2022) della rivista Indipendenza pubblica un ampio e documentato saggio dedicato alla guerra in corso tra la NATO e la Federazione Russa in territorio ucraino. L’autore è Francesco Labonia, il quale conduce una analisi assai rigorosa e di ampio respiro, di natura geopolitica. È la migliore analisi che sinora io abbia letto su questo argomento.
Il testo si intitola «Ucraina / Genesi di un conflitto, oltre il fermo immagine» e si trova alle pagine 27-39 della rivista; qui sotto l’indice del saggio e una mia selezione di brani. Non trascrivo le numerose note che indicano puntualmente la fonte di ogni informazione.

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Se la Russia è l’aggressore operativo, gli Stati Uniti e la NATO (con il regime di Kiev per procura) sono l’aggressore strategico. Aggressore strategico è colui che inizia prima la guerra, ma decide per necessità o calcolo di costringere il suo avversario al primo passo operativo, non lasciandogli scelta, obbligandolo ad intervenire affinché appaia come ‘colui che ha iniziato’. […] 

Siamo dunque nel nono anno di guerra civile allorché il Cremlino si vede costretto all’intervento miliare per difendere i diritti di molti ucraini russofoni all’interno dell’Ucraina e allo stesso tempo tutelare, come vedremo più avanti, la stessa sicurezza della Federazione russa. […] 

L’attuale presidente ucraino, Volodymir Zelensky, in campagna elettorale (2019) prometterà la fine della guerra nel Donbass e lo smantellamento del sistema oligarchico e di corruzione nel Paese, salvo poi rimangiarsi tutto una volta eletto. […] 

Si riprendono in questo modo le fila dell’operato dell’amministrazione Obama e dei suoi ‘falchi’ interni (l’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton, in testa), con l’infervorata sintonia della destra ‘neocon’. Del resto, dal 2014 al 2022, USA ed alleati hanno riempito l’Ucraina di basi militari e laboratori biologici, inviato quantità enormi di armi ed altro materiale bellico, addestrato esercito e paramilitari. […] 

Tra il 16 ed il 21 febbraio dal fronte ucraino si abbatte una pioggia di fuoco in Donbass, su città e villaggi, contro case, ospedali, centrali idroelettriche, infrastrutture. I bombardamenti di artiglieria contro la popolazione aumentano drammaticamente, come attestano anche i rapporti quotidiani degli osservatori dell’OSCE. Al Cremlino si è di fronte a una scelta difficile: restare a guardare il massacro del popolo di lingua russa del Donbass oppure intervenire sapendo che, qualunque fosse stata la portata e il raggio d’azione, l’intervento avrebbe creato una crisi internazionale, con certezza d’indurimento delle sanzioni e il rischio di un allargamento del conflitto. […] 

Il giorno prima, il 19 febbraio, secondo quanto riferisce il Wall Street Journal, il presidente ucraino Zelensky rifiuta una proposta di mediazione avanzata dal cancelliere Scholz incentrata sulla neutralità dell’Ucraina in cambio di sicurezza garantita da Russia e Stati Uniti. Lo stesso giorno, alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, Zelensky dichiara di voler riconsiderare la rinuncia del suo Paese alle armi nucleari sancita con il Memorandum di Budapest (dicembre 1994). La dichiarazione, avallata dall’amministrazione Biden, a Mosca era paventata ed è percepita come una dichiarazione di guerra. […] 

In Ucraina sono le fanatizzate ed invasate milizie neo-naziste ad essere individuate da USA e NATO come analogo soggetto operativo da potenziare. […]

Nel Paese, non è la sola componente sciovinista, neo-nazista, visceralmente anti-russa, fautrice del suprematismo bianco e della purezza razziale (ora ‘ucraina’, quella ritenuta autentica, di ceppo scandinavo e proto-germanico, ora genericamente ‘bianca’) in vista – così affermano – di una crociata finale contro gli untermenschen (i ‘subumani’), in primis gli slavi, i russi, da sterminare o ridurre in schiavitù. […] 

In Ucraina sono in corso diverse guerre insieme: quella civile, quella tra Kiev e Mosca, quella per procura degli Stati Uniti e della NATO contro la Russia, quella per la messa in riga atlantica di Francia e Germania, quella su scala planetaria tra anglosfera contro multipolarismo, con principale antagonista la Cina. […] 

La Russia, con il suo agire e la sua stessa (r-)esistenza, ha due colpe imperdonabili agli occhi di Washington: sta fungendo da levatrice di un mondo multipolare che, rispetto a quello unipolare post implosione dell’URSS (1991), priverebbe le classi dominanti degli Stati Uniti e dell’Occidente (una minoranza di popoli del pianeta) di ogni preminenza politica, economica, militare, facendo anche esplodere le contraddizioni tra loro e all’interno delle loro società. Inoltre, con il suo enorme potenziale di forniture energetiche e materie prime in cambio di commercio e cooperazione, rischia di sfaldare l’indispensabile – per Washington – posizione di dominio sul continente europeo. […] 

Il gruppo dirigente statunitense è consapevole che gli USA sono una potenza in declino. […] È l’incubo che sta alimentando la spirale di follia espansionista sanguinaria  e bellicista, particolarmente nelle ultime tre decadi, della politica estera statunitense. […]

Le sanzioni hanno avuto un effetto controproducente: petrolio e gas sono rincarati pressoché a livello mondiale, facendo segnare dei balzi positivi per la bilancia russa e rafforzando il tasso di cambio del rublo, elementi piuttosto importanti per la massima coesione interna. […] L’isolamento internazionale della Russia è praticamente fallito, così come l’obiettivo di metterla in ginocchio economicamente. […] 

Allargare il conflitto, coinvolgendo NATO e USA più di quanto già sia, è quindi nell’interesse di Kiev che, senza un loro intervento diretto, non ha alcuna possibilità di vincere. […]

Quali sono i vantaggi che può rivendicare, ad oggi, Washington? […] Ha rintuzzato energicamente, per non dire sgretolato, l’Intesa franco-tedesca e le sue velleità di essere direttorio e forza motrice di un’autonomia strategica ‘europea’. […] Allo stato, il destino di Francia e Germania è indirizzato su un crinale di degrado politico ed economico. […] Washington, rafforzando così l’esercizio del suo controllo, ha creato ulteriori e più profonde fratture dentro la UE. […]

Si porrà il problema dell’inglobare (forse!) nella UE un Paese che, già prima della guerra, non era definito ‘democratico’, con un grado di corruzione a livelli stratosferici causa anche una corrotta oligarchia alimentata dalle casse euro-atlantiche perché il Paese divenisse un’anti-Russia, privo di effettivo stato di diritto, nullo come attività economica. […] 

Più in generale, è paradossale che, volendo seguire gli Stati Uniti, i vari governi sul continente europeo stiano facendo di tutto nell’alimentare la guerra alle porte di casa e tagliare in tal modo i ponti con quella parte del mondo rispetto a cui si è economicamente complementari (Russia per le risorse, Cina per la manifattura di base, svariati significativi Paesi, ad es. l’India, come grandi mercati). Perseguendo questa china il loro destino è segnato: senza o addirittura contro la Russia, sono condannati a perdere rapidamente molta della loro influenza internazionale. […] 

La globalizzazione, vettore dell’ideologia atlantica su scala planetaria, si sta restringendo al piccolo mondo europeo, e poco più, della ‘globalità’ atlantica. […] Mosca, del resto, se sul piano economico sta pagando un costo contenibile, allo stato attuale, su quello strategico è già assurta a punto di riferimento di quella maggioritaria parte del mondo che si sente da decenni bullizzata dall’arrogante strapotere USA. […] 

Il governo atlantico-europeista di Draghi sopravanza in nefandezze tutti i precedenti, a partire dal suo essere così privo del senso dell’interesse nazionale in qualunque decisione assuma e, specularmente, essere in spaventosa sudditanza suicidaria alla NATO, cioè a Washington, anteponendo agli interessi del Paese quelli estranei e stranieri, accettando tutto, sacrificando tutto, a qualsiasi prezzo, senza fiatare. È banale, nella sua tragicità, rilevare ad esempio che il riarmo italiano senza precedenti per la NATO e l’Ucraina lascia sempre più alla marcescenza ciò che è pubblico (la sanità, la scuola i trasporti, la ricerca scientifica, eccetera), la manifattura italiana, il futuro stesso del Paese e delle sue generazioni.

Artificio

Favola
di Sebastiano Mauri
Italia, 2017
Con: Filippo Timi (Mrs Fairytale), Lucia Mascino (Mrs Emerald), Luca Santagostino (i fratelli), Piera Degli Esposti (la madre), Sergio Albelli (il marito)
Trailer del film

Il grottesco così pulito della linda, patinata, virtuosa coppia statunitense degli anni Cinquanta del Novecento si capovolge nel grottesco di un pene che si eleva tra le cosce femminili e che da lì ricolloca amiche, madri, vicini di casa, cani, alieni. Un mondo iperrealistico — fatto di accesissimi colori, di elettrodomestici appena usciti dal negozio, di nostalgico design, di skyline urbanamente familiari e di bandiere a stelle e strisce sullo sfondo — mostra per intero la propria irrealtà fatta di centinaia di film che l’industria culturale ha ammannito negli anni alle colonie (tra le quali l’Italia); di pubblicità pervase da volti sorridenti, acquietati e soddisfatti; di ideali assoluti quali la Famiglia, la (Statua della) Libertà, il Consumo, che mostrano la loro natura artificiosa, mortale e artificiale nel barboncino impagliato per impedirgli di morire.
Una «favola» queer che involontariamente mostra come il queer sia appunto una favola. Alla perfetta casalinga, all’ubbidiente moglie, alla potenzialmente ninfomane vicina, alla figlia inquieta, alla pudica amica non è infatti necessario subire alcun intervento per diventare maschio. Pene e testicoli crescono da sé, spontaneamente. E anche questo conferma la contraddizione logica e ontologica che corre tra il gender e il trans. Se infatti ognuno è ciò che vuole essere, perché mai sarebbe necessario intervenire sugli organi genitali di un corpo/volontà che è già ciò che pensa di essere? «Les partisans des opérations de réassignation de genre apportent aux thèses de Butler et tutti quanti un démenti flagrant. On ne doit pas pouvoir être en même temps queer et trans»; dal punto di vista esistenziale, «c’est la haine de la nature et la haine de la chair qui animent ces gens. Rien d’autre. Et effectivement, ils son sürement très malheureux»1, come è appunto Mrs Fairytale, nonostante un happy end così smaccatamente hollywoodiano da risultare anch’esso artificioso.
La conferma di queste contraddizioni gender / queer sta probabilmente in qualcosa che sembra non entrarci nulla con la vicenda di Mrs Fairytale e Mrs Emerald e che però in questo film è continuamente presente: gli UFO più volte avvistati, immaginati, alla fine forse trasformati in corpi non più vivi, tutti impagliati e impigliati nella «fallacia artificialista» che consiste nel dedurre «da ciò che si può fare quel che si deve fare» e che «in nome delle possibilità dell’artificio, sembra sempre più vivere dell’opposizione di principio di natura e cultura»2.
Come sempre, le favole affondano in qualche forma dell’orrore.

Note
1. D. Collin, Krisis, numero 51, marzo 2021, pp. 78 e 80.
2. E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet Studio, 2017, pp. 11 e 25.

Decadenze

La nostra è una civiltà che dall’evo moderno, in particolare dall’affermazione dell’etica calvinista, ha sacralizzato il lavoro, che invece è una esigenza data dai limiti del vivente.

Alla vista del lavoro -e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera- si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. […] Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggior sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma.

(Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi 1964, § 173, pp. 126-127).
Un’etica del successo/guadagno che si sta capovolgendo nella privazione del lavoro – e quindi dei mezzi necessari alla sopravvivenza – per gli umani, sostituiti sempre più da macchine, robot, algoritmi.
Una civiltà che ha dimenticato, e direi proprio smarrito, le differenze nella melassa della globalizzazione che tende a cancellare «l’aspirazione e la decisa volontà dei popoli di affermare e conservare la loro principale ricchezza, incarnata nella rispettiva specificità» (M. Tarchi, Diorama Letterario 363, settembre/ottobre 2021, p. 2).
Una civiltà, intrisa appunto di «un calvinismo puritano ossessionato dalla purezza morale e dall’espiazione illimitata» (A. de Benoist, ivi, p. 10), dove la colpa va diventando l’essere bianchi e quindi per definizione sterminatori, l’essere maschi e quindi per definizione stupratori. In realtà è l’universalismo  negatore delle differenze a favorire l’imperialismo sterminatore degli umani e delle loro varietà. Non è un caso che l’Inghilterra, da dove iniziò il dominio storico del calvinismo anglosassone, abbia nel corso dei secoli «aggredito, invaso, occupato 173 dei 193 attuali Stati membri delle Nazioni Unite» (E. Zarelli, ivi, p. 24). L’universalismo/globalismo tende a cancellare le identità, le differenze, le culture, i costumi e i riti che «trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo curano» (Zarelli, p. 38).
Prendersi cura del tempo che si è significa riconoscerne ogni giorno e sempre la potenza e quindi avere qualche strumento in più per comprendere e accogliere la finitudine che siamo senza cadere in un fanatismo securitario che è destinato al fallimento poiché, semplicemente, tutto ciò che è nato è destinato a perire. Discutendo del volume di Simone Regazzoni La palestra di Platone (Ponte alle Grazie, 2020), Davide D’Intino ricorda quanto distante sia la civiltà greca -e in generale antica- dal timore e tremore contemporaneo, dalla

indecorosa risposta offerta sul piano antropologico alla vicenda epidemica da una società ormai incapace di rapportarsi alle idee stesse del dolore e della morte, disallenata a combattere e quindi a reagire senza farsi fagocitare dal panico, misurandosi con uno dei suoi naturali attributi: la componente rischio. Secoli di mortificazione della corporeità, derubricata irresponsabilmente al rango di peccaminosità, non potevano che dar corpo, nel perfetto compiersi di una eterogenesi dei fini, ad un individuo  introflesso nel solipsismo più deteriore, così inerte da accettare senza neppure un sussulto di ribellione la caduta della sua esistenza dalla condizione del vivere a quella del vegetare, talmente ossessionato dalla propria salute da rinchiudersi in casa sprofondando nella sedentarietà, aduso alle salubri prelibatezze dell’industria alimentare e pago di farne incetta trascorrendo le proprie giornate alienandosi davanti ad uno schermo (ivi, p. 36).

Una civiltà stanca, in fondo, della vita. Lo si sta vedendo ogni giorno, tutti i giorni.

Guerre etniche

Sons of Denmark
(Danmarks sønner)
di Ulaa Salim
Con: Zaki Youssef (Ali), Mohammed Ismail Mohammed (Zakaria), Rasmus Bjerg (Martin Nordahl), Imad Abul-Foul (Hassan)
Danimarca, 2019
Trailer del film

A Copenhagen un attentato di matrice islamica miete decine di vittime. La piccola nazione danese si radicalizza nella violenza delle organizzazioni islamiste da una parte e dei movimenti ultraxenofobi dall’altra. Martin Nordahl guida un partito che ha come programma l’espulsione di tutti coloro che non sono cittadini danesi o che hanno ottenuto la cittadinanza come rifugiati. Diventa quindi l’obiettivo primario di una cellula islamista. Soltanto la presenza di un infiltrato (arabo) all’interno del gruppo islamista fa fallire l’attentato alla sua vita. Le organizzazioni xenofobe diventano sempre più violente e si riconoscono apertamente nel programma di Nordahl, il cui partito vince le elezioni a larga maggioranza. Qualcuno dovrà fermarlo.
La vicenda è ambientata da qui a qualche anno, nel 2025, e descrive il futuro prossimo e probabile dell’Europa: una condizione di endemica guerra civile tra etnie. È da irresponsabili (oltre che da ignoranti) pensare e agire come se gli esseri umani fossero soltanto individui irrelati tra loro, senza radici, senza legami, senza costumi, lingue e tradizioni condivise, senza identità. E invece Homo sapiens si è sempre organizzato, e sempre lo farà in quanto specie biologicamente sociale, in gruppi caratterizzati da differenze più o meno marcate, che nessun irenismo volontaristico può cancellare.
Non tener conto di questa struttura antropologica sta comportando lo sviluppo di sentimenti e idee di esclusione e rifiuto, come contrappeso a politiche di accoglienza universale. Gli elementi ospitati si sentono esclusi e non intendono, giustamente, rinunciare alle loro tradizioni, costumi, valori, in ogni campo della vita collettiva –familiare, alimentare, religioso, linguistico, sessuale. Gli elementi autoctoni si sentono esclusi dai propri spazi, minacciati nel reddito, nella sicurezza, nell’identità. L’insieme di queste tensioni fa sì che le società multirazziali diventino delle società multirazziste, come l’evidente fallimento del melting pot statunitense e il fallimento in atto di quello francese vanno ampiamente dimostrando.
Sons of Denmark racconta analoghe dinamiche che toccano la ormai non più tranquilla società danese e in generale scandinava. A Stoccolma, ad esempio, un intero quartiere, Rinkeby, è precluso agli svedesi di etnia bianca e anche questo ha indotto il più che accogliente parlamento di quella nazione a rivedere le proprie politiche sui migranti.
Grave e significativo è che le cause fondamentali dei flussi migratori –l’imperialismo statunitense che scatena guerre nell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente, destabilizzando senza posa quei territori; le guerre israeliane contro gli arabi– producano conseguenze che non toccano né gli USA né Israele ma l’Europa, l’anello debole del colonialismo occidentale.
Nonostante tutto questo, l’intellighenzia e i decisori politici del nostro continente non sembrano rendersi conto di che cosa va preparandosi e continuano a difendere e a imporre pratiche di accoglienza universale. Le quali condurranno a un conflitto interetnico le cui conseguenze sono abbastanza facilmente prevedibili. Una comunità (e l’Europa, per quanto plurale sia al proprio interno, è una comunità rispetto a culture diverse dalla sua) la quale non si accorge per tempo dei pericoli di dissoluzione che la sovrastano è infatti destinata a spegnersi ed è giusto che si spenga. Anche per questo sono contento di non avere dei figli.
La fabula di questo film è dunque una lezione di sociologia dei fenomeni di conflitto e di assimilazione, che Ulaa Salim –regista di origini irachene nato in Danimarca– ben conosce.

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