Skip to content


Per le differenze

Alain de Benoist
L’impero interiore
Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea
(L’empire intérieur, 1995)
Trad. di Debora Spini e Marco Tarchi
Ponte alla Grazie, 1995
Pagine 188

Complessi, ritornanti, rizomatici sono i percorsi della storia umana, delle comunità che la vivono, delle idee che la plasmano. Dissolti in Europa gli imperi dopo la Prima guerra mondiale, in particolare con i trattati di Sèvres e di Versailles, l’idea di nazione sembrò vincere e trionfare. In effetti essa ha guidato e costituito la storia contemporanea. Ma se nel XIX la nazione avanzò sullo slancio giacobino e napoleonico – eredi del centralismo delle monarchie assolute, in particolare di quella di Luigi XIV -, nel Ventesimo e Ventunesimo secolo essa sta mostrando sempre più la propria natura oppressiva e reazionaria, non solo nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista ma anche nell’imperialismo degli Stati Uniti e delle burocrazie europeiste, le quali non condividono nulla dell’idea imperiale, rimanendo invece «nazioni che cercano solamente di dilatarsi attraverso la conquista militare, politica, economica o di altro genere, sino a giungere a dimensioni che eccedono quelle delle loro frontiere del momento» (p. 165). Esempio massimo sono gli USA, che operano indefessamente al fine di «convertire l’intero mondo in un sistema omogeneo di consumo materiale e pratiche tecno-economiche» (166).
L’imperialismo contemporaneo è da ogni punto di vista l’opposto del principio e della struttura imperiali come emergono, ad esempio, nell’Impero romano fondato su un riconoscimento e un rispetto pervasivi delle autonomie locali e delle differenze ideali: di costume, di lingua, di religione. Quest’ultimo elemento costituisce un fattore di civiltà che i monoteismi hanno combattuto, calunniato, dissolto: «L’Impero romano non si richiama a divinità gelose. Ammette quindi gli altri dei, famosi o sconosciuti, venerati dai popoli che riunisce. La tolleranza religiosa è la norma, come del resto in tutto il mondo antico» (145).

Il mito dell’impero si fonda per de Benoist nell’impero del mito. A quest’ultimo è dedicata la prima e densa parte del volume. Attraverso un’ampia disamina filosofica e storica, si argomenta la tesi per la quale «Mythos e Logos sono termini assolutamente interscambiabili» (11), tanto che molte ricerche contemporanee in settori disparati – antropologia, letteratura, filosofia, religioni, logica – mostrano la razionalità del mito. Tra gli studiosi più noti, Kurt Hübner e James Hillman. Il primo sostiene che «il mito, lungi dall’essere ‘irrazionale’ possiede al contrario la sua propria razionalità. […] L’uomo non sperimenta mai il mondo direttamente: ogni sua esperienza, compresa quella scientifica, è necessariamente mediata da un universo mentale significante. Il mito quindi forma la struttura di questo universo e niente può dimostrare che questa struttura sia meno legittima di quella proposta dalla scienza» (62-63); da parte sua, Hillman vede nella «ragione solo un’espressione particolare del mito» (63).
Il mito va molto al di là del religioso e dell’etico. Il dominio sempre più pervasivo e soffocante della morale nel nostro tempo rappresenta un sostituto assai povero di comportamenti che sono di per sé misurati poiché regolati su una misura non soggettivistica, non psicologica, non normativa. Questa misura scaturisce non dal religioso o dall’etico ma dal sacro, che è un legame profondo e immediato con la materia come κόσμος, come totalità e dunque come continuità misurata dell’umano rispetto all’intero del quale è parte. Si tratta del contrario della ὕβρις, della dismisura escludente e individualistica diffusa nel mondo mediterraneo dai monoteismi, in particolare da quello cristiano: «Il mondo a questo punto non può più essere intrinsecamente il luogo del sacro. La relazione immediata non è più quella fra l’uomo e la totalità del reale, ma una semplice relazione con qualcun altro, che associa dei soggetti ormai separati» (36).
Monoteismi che a loro volta costituiscono il frutto e insieme il rafforzamento di alcuni elementi del tutto desacralizzanti: «l’individualismo (anima individuale, salvezza individuale), la dissociazione inaugurale nel dualismo dell’essere creato e dell’essere increato, il rifiuto del tempo circolare o ciclico e l’adesione ad una concezione della storia unilineare e vettoriale» (35).
La dimensione sacrale e mitica, invece, è intessuta di una ripetizione che implica sempre la differenza. E «in questo sta il senso di ogni metafora cosmica, fondata sul regolare alternarsi di opere e giorni, delle età e delle stagioni. Il ritorno periodico della primavera è il ritorno di una forma, ma non di un contenuto: è sempre la stessa stagione, ma è sempre un’altra primavera. L’immagine chiave, in questo caso, non è tanto il cerchio quanto la spirale o la sfera, poiché la possibilità di superare nasce dalla stessa ripetizione; e la rigenerazione del tempo nasce dal ricorso a ciò che è al di là del tempo» (25).
Il principio imperiale ha soprattutto questo in comune con l’ontologia mitica: un gioco senza fine di Identità e Differenza, per il quale che si tratti di dèi o di umani «l’identità degli altri, lungi dall’essere una minaccia per la nostra identità, fa parte di ciò che permette a tutti noi di difendere le nostre rispettive identità contro il sistema globale che cerca di ucciderle» (175).

L’Europa, luogo e spazio di origine di queste dinamiche, potrà sopravvivere alla sua sempre più evidente insignificanza politica e geostrategica soltanto se rispetterà le differenze tra i popoli e le comunità che la compongono e l’identità della loro storia mediterranea, se saprà dunque «tornare nella luce del mito» (74), nel chiarore della filosofia greca.

Ucraina, genesi di un conflitto

Il numero 52, anno XXVI (maggio-giugno 2022) della rivista Indipendenza pubblica un ampio e documentato saggio dedicato alla guerra in corso tra la NATO e la Federazione Russa in territorio ucraino. L’autore è Francesco Labonia, il quale conduce una analisi assai rigorosa e di ampio respiro, di natura geopolitica. È la migliore analisi che sinora io abbia letto su questo argomento.
Il testo si intitola «Ucraina / Genesi di un conflitto, oltre il fermo immagine» e si trova alle pagine 27-39 della rivista; qui sotto l’indice del saggio e una mia selezione di brani. Non trascrivo le numerose note che indicano puntualmente la fonte di ogni informazione.

==========

Se la Russia è l’aggressore operativo, gli Stati Uniti e la NATO (con il regime di Kiev per procura) sono l’aggressore strategico. Aggressore strategico è colui che inizia prima la guerra, ma decide per necessità o calcolo di costringere il suo avversario al primo passo operativo, non lasciandogli scelta, obbligandolo ad intervenire affinché appaia come ‘colui che ha iniziato’. […] 

Siamo dunque nel nono anno di guerra civile allorché il Cremlino si vede costretto all’intervento miliare per difendere i diritti di molti ucraini russofoni all’interno dell’Ucraina e allo stesso tempo tutelare, come vedremo più avanti, la stessa sicurezza della Federazione russa. […] 

L’attuale presidente ucraino, Volodymir Zelensky, in campagna elettorale (2019) prometterà la fine della guerra nel Donbass e lo smantellamento del sistema oligarchico e di corruzione nel Paese, salvo poi rimangiarsi tutto una volta eletto. […] 

Si riprendono in questo modo le fila dell’operato dell’amministrazione Obama e dei suoi ‘falchi’ interni (l’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton, in testa), con l’infervorata sintonia della destra ‘neocon’. Del resto, dal 2014 al 2022, USA ed alleati hanno riempito l’Ucraina di basi militari e laboratori biologici, inviato quantità enormi di armi ed altro materiale bellico, addestrato esercito e paramilitari. […] 

Tra il 16 ed il 21 febbraio dal fronte ucraino si abbatte una pioggia di fuoco in Donbass, su città e villaggi, contro case, ospedali, centrali idroelettriche, infrastrutture. I bombardamenti di artiglieria contro la popolazione aumentano drammaticamente, come attestano anche i rapporti quotidiani degli osservatori dell’OSCE. Al Cremlino si è di fronte a una scelta difficile: restare a guardare il massacro del popolo di lingua russa del Donbass oppure intervenire sapendo che, qualunque fosse stata la portata e il raggio d’azione, l’intervento avrebbe creato una crisi internazionale, con certezza d’indurimento delle sanzioni e il rischio di un allargamento del conflitto. […] 

Il giorno prima, il 19 febbraio, secondo quanto riferisce il Wall Street Journal, il presidente ucraino Zelensky rifiuta una proposta di mediazione avanzata dal cancelliere Scholz incentrata sulla neutralità dell’Ucraina in cambio di sicurezza garantita da Russia e Stati Uniti. Lo stesso giorno, alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, Zelensky dichiara di voler riconsiderare la rinuncia del suo Paese alle armi nucleari sancita con il Memorandum di Budapest (dicembre 1994). La dichiarazione, avallata dall’amministrazione Biden, a Mosca era paventata ed è percepita come una dichiarazione di guerra. […] 

In Ucraina sono le fanatizzate ed invasate milizie neo-naziste ad essere individuate da USA e NATO come analogo soggetto operativo da potenziare. […]

Nel Paese, non è la sola componente sciovinista, neo-nazista, visceralmente anti-russa, fautrice del suprematismo bianco e della purezza razziale (ora ‘ucraina’, quella ritenuta autentica, di ceppo scandinavo e proto-germanico, ora genericamente ‘bianca’) in vista – così affermano – di una crociata finale contro gli untermenschen (i ‘subumani’), in primis gli slavi, i russi, da sterminare o ridurre in schiavitù. […] 

In Ucraina sono in corso diverse guerre insieme: quella civile, quella tra Kiev e Mosca, quella per procura degli Stati Uniti e della NATO contro la Russia, quella per la messa in riga atlantica di Francia e Germania, quella su scala planetaria tra anglosfera contro multipolarismo, con principale antagonista la Cina. […] 

La Russia, con il suo agire e la sua stessa (r-)esistenza, ha due colpe imperdonabili agli occhi di Washington: sta fungendo da levatrice di un mondo multipolare che, rispetto a quello unipolare post implosione dell’URSS (1991), priverebbe le classi dominanti degli Stati Uniti e dell’Occidente (una minoranza di popoli del pianeta) di ogni preminenza politica, economica, militare, facendo anche esplodere le contraddizioni tra loro e all’interno delle loro società. Inoltre, con il suo enorme potenziale di forniture energetiche e materie prime in cambio di commercio e cooperazione, rischia di sfaldare l’indispensabile – per Washington – posizione di dominio sul continente europeo. […] 

Il gruppo dirigente statunitense è consapevole che gli USA sono una potenza in declino. […] È l’incubo che sta alimentando la spirale di follia espansionista sanguinaria  e bellicista, particolarmente nelle ultime tre decadi, della politica estera statunitense. […]

Le sanzioni hanno avuto un effetto controproducente: petrolio e gas sono rincarati pressoché a livello mondiale, facendo segnare dei balzi positivi per la bilancia russa e rafforzando il tasso di cambio del rublo, elementi piuttosto importanti per la massima coesione interna. […] L’isolamento internazionale della Russia è praticamente fallito, così come l’obiettivo di metterla in ginocchio economicamente. […] 

Allargare il conflitto, coinvolgendo NATO e USA più di quanto già sia, è quindi nell’interesse di Kiev che, senza un loro intervento diretto, non ha alcuna possibilità di vincere. […]

Quali sono i vantaggi che può rivendicare, ad oggi, Washington? […] Ha rintuzzato energicamente, per non dire sgretolato, l’Intesa franco-tedesca e le sue velleità di essere direttorio e forza motrice di un’autonomia strategica ‘europea’. […] Allo stato, il destino di Francia e Germania è indirizzato su un crinale di degrado politico ed economico. […] Washington, rafforzando così l’esercizio del suo controllo, ha creato ulteriori e più profonde fratture dentro la UE. […]

Si porrà il problema dell’inglobare (forse!) nella UE un Paese che, già prima della guerra, non era definito ‘democratico’, con un grado di corruzione a livelli stratosferici causa anche una corrotta oligarchia alimentata dalle casse euro-atlantiche perché il Paese divenisse un’anti-Russia, privo di effettivo stato di diritto, nullo come attività economica. […] 

Più in generale, è paradossale che, volendo seguire gli Stati Uniti, i vari governi sul continente europeo stiano facendo di tutto nell’alimentare la guerra alle porte di casa e tagliare in tal modo i ponti con quella parte del mondo rispetto a cui si è economicamente complementari (Russia per le risorse, Cina per la manifattura di base, svariati significativi Paesi, ad es. l’India, come grandi mercati). Perseguendo questa china il loro destino è segnato: senza o addirittura contro la Russia, sono condannati a perdere rapidamente molta della loro influenza internazionale. […] 

La globalizzazione, vettore dell’ideologia atlantica su scala planetaria, si sta restringendo al piccolo mondo europeo, e poco più, della ‘globalità’ atlantica. […] Mosca, del resto, se sul piano economico sta pagando un costo contenibile, allo stato attuale, su quello strategico è già assurta a punto di riferimento di quella maggioritaria parte del mondo che si sente da decenni bullizzata dall’arrogante strapotere USA. […] 

Il governo atlantico-europeista di Draghi sopravanza in nefandezze tutti i precedenti, a partire dal suo essere così privo del senso dell’interesse nazionale in qualunque decisione assuma e, specularmente, essere in spaventosa sudditanza suicidaria alla NATO, cioè a Washington, anteponendo agli interessi del Paese quelli estranei e stranieri, accettando tutto, sacrificando tutto, a qualsiasi prezzo, senza fiatare. È banale, nella sua tragicità, rilevare ad esempio che il riarmo italiano senza precedenti per la NATO e l’Ucraina lascia sempre più alla marcescenza ciò che è pubblico (la sanità, la scuola i trasporti, la ricerca scientifica, eccetera), la manifattura italiana, il futuro stesso del Paese e delle sue generazioni.

Artificio

Favola
di Sebastiano Mauri
Italia, 2017
Con: Filippo Timi (Mrs Fairytale), Lucia Mascino (Mrs Emerald), Luca Santagostino (i fratelli), Piera Degli Esposti (la madre), Sergio Albelli (il marito)
Trailer del film

Il grottesco così pulito della linda, patinata, virtuosa coppia statunitense degli anni Cinquanta del Novecento si capovolge nel grottesco di un pene che si eleva tra le cosce femminili e che da lì ricolloca amiche, madri, vicini di casa, cani, alieni. Un mondo iperrealistico — fatto di accesissimi colori, di elettrodomestici appena usciti dal negozio, di nostalgico design, di skyline urbanamente familiari e di bandiere a stelle e strisce sullo sfondo — mostra per intero la propria irrealtà fatta di centinaia di film che l’industria culturale ha ammannito negli anni alle colonie (tra le quali l’Italia); di pubblicità pervase da volti sorridenti, acquietati e soddisfatti; di ideali assoluti quali la Famiglia, la (Statua della) Libertà, il Consumo, che mostrano la loro natura artificiosa, mortale e artificiale nel barboncino impagliato per impedirgli di morire.
Una «favola» queer che involontariamente mostra come il queer sia appunto una favola. Alla perfetta casalinga, all’ubbidiente moglie, alla potenzialmente ninfomane vicina, alla figlia inquieta, alla pudica amica non è infatti necessario subire alcun intervento per diventare maschio. Pene e testicoli crescono da sé, spontaneamente. E anche questo conferma la contraddizione logica e ontologica che corre tra il gender e il trans. Se infatti ognuno è ciò che vuole essere, perché mai sarebbe necessario intervenire sugli organi genitali di un corpo/volontà che è già ciò che pensa di essere? «Les partisans des opérations de réassignation de genre apportent aux thèses de Butler et tutti quanti un démenti flagrant. On ne doit pas pouvoir être en même temps queer et trans»; dal punto di vista esistenziale, «c’est la haine de la nature et la haine de la chair qui animent ces gens. Rien d’autre. Et effectivement, ils son sürement très malheureux»1, come è appunto Mrs Fairytale, nonostante un happy end così smaccatamente hollywoodiano da risultare anch’esso artificioso.
La conferma di queste contraddizioni gender / queer sta probabilmente in qualcosa che sembra non entrarci nulla con la vicenda di Mrs Fairytale e Mrs Emerald e che però in questo film è continuamente presente: gli UFO più volte avvistati, immaginati, alla fine forse trasformati in corpi non più vivi, tutti impagliati e impigliati nella «fallacia artificialista» che consiste nel dedurre «da ciò che si può fare quel che si deve fare» e che «in nome delle possibilità dell’artificio, sembra sempre più vivere dell’opposizione di principio di natura e cultura»2.
Come sempre, le favole affondano in qualche forma dell’orrore.

Note
1. D. Collin, Krisis, numero 51, marzo 2021, pp. 78 e 80.
2. E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet Studio, 2017, pp. 11 e 25.

Decadenze

La nostra è una civiltà che dall’evo moderno, in particolare dall’affermazione dell’etica calvinista, ha sacralizzato il lavoro, che invece è una esigenza data dai limiti del vivente.

Alla vista del lavoro -e con ciò si intende sempre quella faticosa operosità che dura dal mattino alla sera- si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. […] Così una società in cui di continuo si lavora duramente, avrà maggior sicurezza: e si adora oggi la sicurezza come la divinità somma.

(Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, trad. di F. Masini, Adelphi 1964, § 173, pp. 126-127).
Un’etica del successo/guadagno che si sta capovolgendo nella privazione del lavoro – e quindi dei mezzi necessari alla sopravvivenza – per gli umani, sostituiti sempre più da macchine, robot, algoritmi.
Una civiltà che ha dimenticato, e direi proprio smarrito, le differenze nella melassa della globalizzazione che tende a cancellare «l’aspirazione e la decisa volontà dei popoli di affermare e conservare la loro principale ricchezza, incarnata nella rispettiva specificità» (M. Tarchi, Diorama Letterario 363, settembre/ottobre 2021, p. 2).
Una civiltà, intrisa appunto di «un calvinismo puritano ossessionato dalla purezza morale e dall’espiazione illimitata» (A. de Benoist, ivi, p. 10), dove la colpa va diventando l’essere bianchi e quindi per definizione sterminatori, l’essere maschi e quindi per definizione stupratori. In realtà è l’universalismo  negatore delle differenze a favorire l’imperialismo sterminatore degli umani e delle loro varietà. Non è un caso che l’Inghilterra, da dove iniziò il dominio storico del calvinismo anglosassone, abbia nel corso dei secoli «aggredito, invaso, occupato 173 dei 193 attuali Stati membri delle Nazioni Unite» (E. Zarelli, ivi, p. 24). L’universalismo/globalismo tende a cancellare le identità, le differenze, le culture, i costumi e i riti che «trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo curano» (Zarelli, p. 38).
Prendersi cura del tempo che si è significa riconoscerne ogni giorno e sempre la potenza e quindi avere qualche strumento in più per comprendere e accogliere la finitudine che siamo senza cadere in un fanatismo securitario che è destinato al fallimento poiché, semplicemente, tutto ciò che è nato è destinato a perire. Discutendo del volume di Simone Regazzoni La palestra di Platone (Ponte alle Grazie, 2020), Davide D’Intino ricorda quanto distante sia la civiltà greca -e in generale antica- dal timore e tremore contemporaneo, dalla

indecorosa risposta offerta sul piano antropologico alla vicenda epidemica da una società ormai incapace di rapportarsi alle idee stesse del dolore e della morte, disallenata a combattere e quindi a reagire senza farsi fagocitare dal panico, misurandosi con uno dei suoi naturali attributi: la componente rischio. Secoli di mortificazione della corporeità, derubricata irresponsabilmente al rango di peccaminosità, non potevano che dar corpo, nel perfetto compiersi di una eterogenesi dei fini, ad un individuo  introflesso nel solipsismo più deteriore, così inerte da accettare senza neppure un sussulto di ribellione la caduta della sua esistenza dalla condizione del vivere a quella del vegetare, talmente ossessionato dalla propria salute da rinchiudersi in casa sprofondando nella sedentarietà, aduso alle salubri prelibatezze dell’industria alimentare e pago di farne incetta trascorrendo le proprie giornate alienandosi davanti ad uno schermo (ivi, p. 36).

Una civiltà stanca, in fondo, della vita. Lo si sta vedendo ogni giorno, tutti i giorni.

Guerre etniche

Sons of Denmark
(Danmarks sønner)
di Ulaa Salim
Con: Zaki Youssef (Ali), Mohammed Ismail Mohammed (Zakaria), Rasmus Bjerg (Martin Nordahl), Imad Abul-Foul (Hassan)
Danimarca, 2019
Trailer del film

A Copenhagen un attentato di matrice islamica miete decine di vittime. La piccola nazione danese si radicalizza nella violenza delle organizzazioni islamiste da una parte e dei movimenti ultraxenofobi dall’altra. Martin Nordahl guida un partito che ha come programma l’espulsione di tutti coloro che non sono cittadini danesi o che hanno ottenuto la cittadinanza come rifugiati. Diventa quindi l’obiettivo primario di una cellula islamista. Soltanto la presenza di un infiltrato (arabo) all’interno del gruppo islamista fa fallire l’attentato alla sua vita. Le organizzazioni xenofobe diventano sempre più violente e si riconoscono apertamente nel programma di Nordahl, il cui partito vince le elezioni a larga maggioranza. Qualcuno dovrà fermarlo.
La vicenda è ambientata da qui a qualche anno, nel 2025, e descrive il futuro prossimo e probabile dell’Europa: una condizione di endemica guerra civile tra etnie. È da irresponsabili (oltre che da ignoranti) pensare e agire come se gli esseri umani fossero soltanto individui irrelati tra loro, senza radici, senza legami, senza costumi, lingue e tradizioni condivise, senza identità. E invece Homo sapiens si è sempre organizzato, e sempre lo farà in quanto specie biologicamente sociale, in gruppi caratterizzati da differenze più o meno marcate, che nessun irenismo volontaristico può cancellare.
Non tener conto di questa struttura antropologica sta comportando lo sviluppo di sentimenti e idee di esclusione e rifiuto, come contrappeso a politiche di accoglienza universale. Gli elementi ospitati si sentono esclusi e non intendono, giustamente, rinunciare alle loro tradizioni, costumi, valori, in ogni campo della vita collettiva –familiare, alimentare, religioso, linguistico, sessuale. Gli elementi autoctoni si sentono esclusi dai propri spazi, minacciati nel reddito, nella sicurezza, nell’identità. L’insieme di queste tensioni fa sì che le società multirazziali diventino delle società multirazziste, come l’evidente fallimento del melting pot statunitense e il fallimento in atto di quello francese vanno ampiamente dimostrando.
Sons of Denmark racconta analoghe dinamiche che toccano la ormai non più tranquilla società danese e in generale scandinava. A Stoccolma, ad esempio, un intero quartiere, Rinkeby, è precluso agli svedesi di etnia bianca e anche questo ha indotto il più che accogliente parlamento di quella nazione a rivedere le proprie politiche sui migranti.
Grave e significativo è che le cause fondamentali dei flussi migratori –l’imperialismo statunitense che scatena guerre nell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente, destabilizzando senza posa quei territori; le guerre israeliane contro gli arabi– producano conseguenze che non toccano né gli USA né Israele ma l’Europa, l’anello debole del colonialismo occidentale.
Nonostante tutto questo, l’intellighenzia e i decisori politici del nostro continente non sembrano rendersi conto di che cosa va preparandosi e continuano a difendere e a imporre pratiche di accoglienza universale. Le quali condurranno a un conflitto interetnico le cui conseguenze sono abbastanza facilmente prevedibili. Una comunità (e l’Europa, per quanto plurale sia al proprio interno, è una comunità rispetto a culture diverse dalla sua) la quale non si accorge per tempo dei pericoli di dissoluzione che la sovrastano è infatti destinata a spegnersi ed è giusto che si spenga. Anche per questo sono contento di non avere dei figli.
La fabula di questo film è dunque una lezione di sociologia dei fenomeni di conflitto e di assimilazione, che Ulaa Salim –regista di origini irachene nato in Danimarca– ben conosce.

Populismi e differenza (sulla devastazione)

L’omologazione, il conformismo, il pensare ciò che tutti pensano, sono strutture e modalità a volte necessarie per mantenere la coesione dei gruppi e delle comunità sociali. Purché non assumano una valenza etica e soteriologica, purché non si presentino quindi come il bene e come salvezza. È invece quello che sta accadendo con il liberalismo e il capitalismo trionfanti che, come tutte le strutture ideologiche, hanno sempre bisogno di un nemico da additare, combattere, distruggere. Sconfitto il comunismo, si è inventato il «terrorismo» come parola grimaldello contro qualunque agire che metta in discussione l’impero statunitense. In Europa, invece, il nemico che il liberalismo addita si chiama populismo.
«Osteggiata dalla quasi totalità dei mezzi d’informazione ‘che contano’, demonizzata da un’identica percentuale delle classi politiche di governo e di opposizione, invisa fin oltre i limiti dell’astio dal ceto intellettuale, sgradita alle alte gerarchie ecclesiastiche, paventata come una minaccia dagli attori di primo piano della scena economica sia padronale che sindacale, combattuta con ogni mezzo a disposizione dai principali players dei mercati finanziari, l’ascesa dei movimenti e partiti populisti» sembra il nuovo spettro che si aggira per l’Europa (M. Tarchi, Diorama letterario, n. 346, p. 1).
Certo, i limiti del populismo sono grandi e riguardano specialmente la dimensione metapolitica, il piano culturale, ma rispetto al deserto sociale e simbolico prodotto dal suo vero avversario, la tecnocrazia finanziaria, il populismo è denso di spiriti vitali perché affonda il suo successo su delle costanti antropologiche che possono essere negate dalla dottrina ma continuano a esistere nelle strutture e negli eventi umani.
«Populismo allo stato puro» sono ad esempio i Gilets jaunes, nei confronti dei quali si esercita un vero e proprio «disprezzo classista, ma anche il terrore panico di vedersi presto destituiti dagli straccioni» (A. De Benoist, 3). Disprezzo che verso il populismo nutrono non soltanto lo snobismo ‘di sinistra’ -espressione che una volta sarebbe apparsa ossimorica- ma anche la destra liberista poiché «è vero che non è da ieri che la destra borghese preferisce l’ingiustizia al disordine» (Id., 4) così come preferisce il caos dei mercati alla regolamentazione della ricchezza.

La storia in ogni caso non è ‘finita’ con la vittoria dell’unilateralismo occidentalista. La Russia continua a mostrarsi irriducibile al controllo statunitense. E questo nonostante la propaganda e la disinformazione che diffondono menzogne su menzogne a proposito dell’inesistente pericolo slavo mentre il vero rischio è la smisurata crescita del controllo che gli USA esercitano sull’intero pianeta, senza distinzione tra amici e nemici. A mostrarlo non è soltanto il pervasivo spionaggio che gli Stati Uniti d’America attuano verso gli esponenti dei governi europei tramite la rete Echelon, ma anche e specialmente il fatto che «nel 2013 gli statunitensi hanno speso 53 miliardi per le loro 17 agenzie di servizi segreti, più di quanto Mosca stanzia per tutto il settore della Difesa, armi atomiche incluse! Secondo le stime del 2016, gli USA hanno investito nell’apparato bellico oltre 1.000 miliardi di dollari, il 40% della spesa mondiale, mentre l’ ‘espansionista’ Russia si è fermata ad una cinquantina di miliardi, circa [soltanto] il doppio di quanto spende l’Italia» (R. Zavaglia, 11), che certo potenza mondiale non è.

Russia e Cina sono il vero obiettivo della guerra che gli USA vanno preparando -i conflitti nel Vicino Oriente e le costanti provocazioni in Ucraina costituiscono tappe di avvicinamento a questo scopo- poiché si tratta non soltanto di concorrenti economici ma soprattutto di civiltà irriducibili al «potere oligarchico tecnomorfo etnocentrico, il quale ha imposto il ‘flusso’ globale mercantile di materiali ed esseri umani, distruggendo le società tradizionali e le culture che per millenni hanno caratterizzato le civiltà come delicato equilibrio tra cultura e natura, nel rispetto del limite e della sostenibilità ecologica» (E. Zarelli, p. 19). Anche la Russia e la Cina sono naturalmente potenze inquinanti e distruttive dell’ambiente ma la crescita economica è per esse un mezzo e non il fine stesso delle esistenze individuali e collettive.
La cultura europea è irriducibile al modello di vita americano, alla sua «metafisica dello sradicamento» (Ibidem). L’Europa affonda in modelli universali tra loro diversi ma incomparabilmente raffinati rispetto al semplicismo del dollaro e del suo culto. Il politeismo mediterraneo, la cattolicità romana, la metafisica platonica, la demistificazione nietzscheana, la libertà heideggeriana dall’universo del valore e della morale per radicarsi invece nella sfera ontologica, sono forme ed espressioni del nostro scaturire  dai Greci, i quali «sono quelli che hanno più amato la vita; l’hanno amata a tal punto da non aver più avuto bisogno che essa avesse un senso» (A. De Benoist, 6).
I popoli sono tra loro diversi e mai saranno né dovranno diventare una identità unica, monocorde e totalistica. Il prospettivismo, la differenza, la molteplicità costituiscono la più profonda garanzia di ogni libertà.
Con molta chiarezza Heidegger critica in alcune opere e corsi ciò che oggi si chiama ‘globalizzazione’, da lui designata con il termine Planetarismus: «Humanismus oder Anthropologismus sind menschentümlich letzte Erscheinungsformen des Planetarismus; in ihnen kommt die lang versteckte Wesensselbigkeit von »Historie« und »Technik« zum Austrag in der Form der Verwüstung des Erdballs», ‘Umanesimo o Antropologismo sono per l’umanità le ultime manifestazioni del Planetarismo; giunge in essi alla luce la lungamente nascosta e convergente essenza di ‘storia’ e ‘tecnica’ nella forma della devastazione del globo terrestre’, il cui braccio operativo è l’americanismo in quanto  «historischer Art für die Verwüstung», ‘modalità storica per la devastazione’ (Über den Anfang [Sul principio, 1941], «Gesamtasugabe», Vittorio Klostermann 2005; Band 70, § 13, p. 31 e § 77, p. 97).

L’esca

Vice. L’uomo nell’ombra
di Adam McKay
USA, Gran Bretagna, Spagna, Emirati Arabi Uniti, 2018
Con: Christian Bale (Dick Cheney), Amy Adams (Lynne Cheney), Steve Carrel (Donald Rumsfeld), Sam Rockwell (George W. Bush), Tyler Perry (Colin Powell)
Trailer del film

Rissoso, nullafacente, ubriacone. Occhiali, giacca e cravatta, attento e di poche parole. E soprattutto uno degli uomini più potenti del mondo dal 2001 al 2009. La parabola di Dick Bruce Cheney (1941-vivente) si è svolta nella riservatezza di delitti e miserie perpetrati per l’intera esistenza ma di rado legati al suo nome. Perché Cheney, vice del giovane presidente Bush e vera guida degli Stati Uniti d’America, ha sempre avuto la stessa capacità di un capo mafioso: apparire il meno possibile e decidere il più possibile, decidere sempre. Decidere il sostegno legislativo e politico alle grandi compagnie petrolifere -della quali è stato anche  amministratore delegato (Halliburton)-; decidere la diminuzione sistematica e consistente della tassazione per i redditi superiori ai 2 milioni di dollari; decidere l’utilizzo di informazioni false per invadere e distruggere l’Iraq, accaparrandosi le sue risorse petrolifere; decidere l’utilizzo della tortura, dopo averla rinominata «interrogatorio rinforzato»; decidere la guerra, decidere la morte, decidere ogni azione a favore del Project for a New American Century.
Tutto questo non da solo, naturalmente, ma circondato da consiglieri, avvocati, militari, manager, spie, imprenditori, avventurieri, psicopatici. Dal potere americano insomma. Ma con la personale capacità di osservare molto, riflettere velocemente, decidere senza guardare alle conseguenze per gli altri ma soltanto ai vantaggi per sé e per il proprio clan. Si tratta di un comportamento in realtà arcaico, che tecnologie belliche e interconnessione planetaria hanno reso portatore di sterminio su grande scala. Ma non importa. Cheney (padre esemplare) risponde così alle due figlie che chiedono se è bene far soffrire pesci e vermicelli: «Nella pesca non ci sono il bene e il male». E questo vale ai suoi occhi per l’intera umanità.
Cheney è sempre stato un appassionato pescatore e infatti i titoli di coda scorrono su immagini di ami e di esche. L’esca più importante che Cheney e il suo staff abbiano inventato è però in questo amaro e travolgente film soltanto accennata. L’esca dell’11 settembre 2001. Vice si apre quasi subito sulle immagini del governo americano e cioè di Cheney -perché Bush era quel giorno lontano dalla capitale, in una scuola, in compagnia di bambini- durante l’attacco alle Torri gemelle [la foto in alto raffigura il vero Cheney]. Durante quei momenti concitati «Cheney vedeva ciò che nessun altro era capace di cogliere in quegli eventi. Vedeva una opportunità». Certo. Ma non era difficile vederla, poiché quella opportunità il governo statunitense l’aveva pensata, progettata e realizzata con la collaborazione dei gruppi islamisti. Da quella opportunità si generarono immensi guadagni per le compagnie petrolifere e per le industrie militari, si generò la «teoria dell’esecutivo unificato», vale a dire la possibilità data al governo di stabilire procedure e praticare azioni senza tener conto degli altri poteri. Da quella opportunità si è generato un formidabile impulso e una giustificazione per l’ampliamento del potere degli USA su tutto il pianeta. A chi fa ancora fatica a credere che il governo degli Stati Uniti abbia davvero ucciso migliaia di propri cittadini, si risponde con una domanda: “Che cosa sono 2996 vittime americane e qualche milione poi di morti stranieri rispetto all’incremento della potenza della Nazione deputata da Dio al bene dell’umanità?”. Perché è di questo che gli americani sono convinti, questa è la lenza che lancia ogni volta di nuovo l’esca.

Vai alla barra degli strumenti