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Aristotele

Aristotele
Metafisica
in «Opere», volume VI
Traduzione e note di Antonio Russo
Laterza 2019 [1982]
Pagine 440

Il trattato che gli editori di Aristotele, tra i quali Andronico di Rodi, raccolsero e pubblicarono dopo gli scritti di fisica, μετά τα Φυσικά, si compone di quattordici libri. In essi viene esposta la «filosofia prima», ovvero la scienza dei principî, delle cause e delle sostanze. Introducendo la sua nuova traduzione in italiano della Metafisica Enrico Berti scrive che «l’impressione complessiva che un lettore può provare è quella di trovarsi di fronte a un testo difficile, complicato, spesso incomprensibile. Ebbene, questo è esattamente la Metafisica di Aristotele, uno dei testi filosofici più difficili che l’antichità ci abbia trasmesso, che richiede al lettore sforzo, fatica, pazienza, intelligenza» (Metafisica, Laterza, Bari-Roma 2017, p. XIII).
È così. Ma la lettura e la riflessione su questo insieme di trattati è propedeutica a qualunque comprensione della filosofia europea e in cambio dell’impegno offre uno sguardo oggettivo e profondo sulla realtà. La nuova traduzione di Berti è molto letterale e più fedele al testo rispetto a quella di Antonio Russo. Preferisco tuttavia riassumere e citare da quest’ultima perché il mio obiettivo consiste qui solo nel presentare, per quanto possibile, i concetti fondamentali di Aristotele e invitare a conoscerli direttamente dall’opera, nella traduzione che si ritiene più adatta ai propri interessi di studio. 

Per Aristotele dunque l’impulso alla conoscenza – presente per natura in ogni umano (libro A [I], cap. 1, 980a, 20) – nasce dallo stupore, dalla meraviglia (A [I], 2, 982b, 10-15). È da essa che si origina la scienza più profonda e l’attività più alta, l’attività teoretica il cui scopo ultimo è «la verità» (α [II], 1, 993b, 20). Conoscere la verità significa conoscere le cause di ciascun ente e del divenire. Esse sono quattro.

  1. «Ciò da cui proviene l’oggetto e che è ad esso immanente»
  2. «La forma e il modello, vale a dire la definizione del concetto e i generi di essa»
  3. «Ciò donde è il primo inizio del cangiamento e della quiete»
  4. «Inoltre la causa è come fine, ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la salute»
    (Δ [V], 2, 1013a, 24-35, 1013b, 2).

Per riuscire a condurre l’indagine sulle cause è indispensabile un principio guida che sia sicuro e saldo. Di esso Aristotele aveva già parlato nell’Organon: si tratta dello strumento logico preliminare a ogni pensiero, il principio di non-contraddizione, secondo cui «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione» (Γ [IV], 3, 1005b, 19).
A questo principio fondamentale va unita la consapevolezza che non è possibile dare dimostrazione di ogni cosa poiché tale pretesa condurrebbe al regresso all’infinito, che per Aristotele coincide con l’irrazionale. Inoltre, si dà conoscenza scientifica soltanto di ciò che è universale poiché gli enti individuali sono dominio della semplice sensazione.
Posti questi fondamenti, il filosofo identifica la prima importante distinzione ontologica nella potenza e nell’atto. Potenza è la possibilità del divenire, l’atto è la potenzialità realizzata. Il passaggio dall’una all’altro è il movimento, è il tempo. L’atto possiede sempre una originaria prevalenza: «ciò che è in atto proviene sempre da ciò che è in potenza, ma proviene per opera di qualcosa che è attualmente esistente» (Θ [IX], 8, 1049b, 24). I principî sinora esposti e la distinzione tra atto e potenza dicono in modo chiaro che il lavoro teoretico si rivolge a un mondo in sé esistente, autonomo dalle sensazioni del vivente, «non è affatto possibile che i sostrati, i quali producono la sensazione, non esistano anche senza la sensazione» (Γ [IV], 5, 1005b, 34-35).

La teoresi si distingue in tre tipologie: matematica, fisica, teologia. La prima si occupa di enti immobili ma che (probabilmente) non esistono separati da una materia; la seconda studia enti che esistono separatamente ma non sono immobili; la filosofia/teologia (l’’onto-teo-logia’ della quale parla Heidegger ma che appartiene molto a Heidegger e poco ad Aristotele) indaga anche gli enti «che esistono separatamente e che sono immobili» (Ε [VI], 1, 1026a, 13-19). Anche perché la teoresi teologica si occupa certamente delle cause divine ma pure degli elementi materici (acqua, aria, terra, fuoco), delle forme che costituiscono le sostanze materiche e dei fini della sostanza, vale a dire la piena realizzazione della sua forma. In questo modo, la metafisica è la scienza prima che comprende in sé tutte le altre.

L’indagine aristotelica si nutre di una pacata ma costante distanza dalla teoresi platonica, che si involverebbe in una vasta serie di incongruenze, contraddizioni e arbitrarietà, tra le quali sono particolarmente gravi l’autonomia ontologica data ai numeri; la separazione delle forme ideali (le ‘idee’) dagli enti sensibili; la concezione dell’universale come forma separata dalla materia; la caratterizzazione dell’Uno come sostanza.
Quest’ultima tesi è per Aristotele contraddittoria perché l’Uno non è un genere ma è un universale, è il concetto più universale, quello che in sé accoglie tutti gli altri, comprese identità e differenza.
La scienza aristotelica, attraverso un lungo e minuzioso lavoro di indagine sulle cause e sui principî, perviene alla identificazione di un primo motore che è causa efficiente e finale di ogni ente ed evento, «un essere necessariamente esistente e, in quanto la sua esistenza è necessaria, si identifica con il bene e, sotto questo profilo, è principio», un principio dal quale dipendono il cielo e la natura (Λ [XII], 7, 1072b, 10-11). Questo Intelletto primo vive in una beatitudine senza fine, rivolto sempre al pensiero sommo che è egli stesso e dunque «pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è pensiero-di-pensiero» (ivi, 1074b, 36). Naturalmente tutto questo è da intendere senza alcun riferimento a un dio persona, volontà, padre o analoghe determinazioni. L’essere necessariamente esistente è una causa oggettiva e impersonale. Come ricorda Enrico Berti, «nella Metafisica si trova ben poca teologia monoteistica» (trad. citata, p. XVI).

La metafisica così delineata è in se stessa una ontologia. Metafisica è quella scienza 

che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa natura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale oggetto di indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche parte dell’essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche.
(Γ [IV], 1, 1003a, 20-25)

Tuttavia l’essere non ha una accezione univoca ma si dice in molti sensi. Tra questi il filosofo ne privilegia due: la categoria e la sostanza. Categoria «giacché il termine ‘essere’ ha tante accezioni quante sono quelle delle categorie» (Δ [V], 7, 1017a, 25); sostanza poiché «l’essere nella sua accezione fondamentale – ossia non una qualsiasi qualificazione dell’essere ma l’essere puro e semplice – dovrà identificarsi con la sostanza» (Ζ [VII], 1, 1028a, 31-32).
L’intera storia della filosofia ha ereditato questa duplice accezione dell’essere. L’essere come categoria si è trasformato, nella tarda scolastica e soprattutto nella modernità cartesiana, in un concetto puramente gnoseologico, pervenendo alla completa subordinazione degli enti alla visione-giudizio-manipolazione dell’ente umano. L’essere come sostanza è stato di volta in volta o sola materia o solo spirito.
In ogni caso, come si vede, nella Metafisica di Aristotele si origina, riposa e sta il pensare europeo. In questo trattato, o insieme di trattati, la cultura greca perviene a uno dei suoi esiti massimi e più fecondi. Il rigore dell’indagine, la complessità delle prospettive, la chiarezza dei fondamenti concorrono alla costante e pervasiva presenza nel pensare europeo di queste ricerche aristoteliche sull’essere, la verità, il tempo. È infatti vero che «il problema su cui verte ogni ricerca passata, presente e futura, la questione che è sempre aperta e dibattuta, ossia ‘che cosa è l’essere?’, non si riduce ad altro se non alla domanda ‘che cosa è la sostanza?’»  (Ζ [VII], 1, 1028b, 2-4).
La risposta più convincente e argomentata a tale domanda l’ha data Spinoza, la cui Ethica conduce a pienezza l’immanentismo come significato, struttura e benedizione dell’essere, conduce a un mondo nel  quale l’umano non ha nessun primato e persino nessuna presenza.

Whitehead

Whitehead
in Vita pensata
n. 29, novembre 2023
pagine 163-174

Indice
-Una metafisica selvaggia
-Platone, l’intero e le sue parti
-Un’ontologia relazionale
-Una metafisica temporale
-Potenza e limiti della filosofia
-Linguaggio e teologia

Questo articolo intende essere soltanto un testo di servizio per introdursi a una filosofia tanto originale quanto complessa e linguisticamente strabordante. Ho cercato dunque di dare quanto più possibile la parola ad Alfred North Whitehead (1861-1947) ma anche di rendere questa parola comprensibile sullo sfondo della storia della metafisica nella quale si colloca, nella quale intende collocarsi.
L’essere è insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, poiché ogni mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e, di converso, il permanere di un ente si staglia sull’orizzonte del suo mutare. La metafisica è dunque da intendere non come fondazione/fondamento ma come comprensione di questo ininterrotto eventuarsi in cui mondo, materia e umanità consistono. Metafisica non come soggettivismo/idealismo ma come schiusura, apertura e compenetrazione del mondo umano dentro il mondo spaziotemporale che lo rende ogni volta e di nuovo possibile. 

 

Lezioni di Metafisica

Il 27 e 28 settembre 2022 terrò due lezioni per il Dottorato in Scienze dell’Interpretazione dell’Università di Catania. L’argomento è la Metafisica e questo il calendario:

  • martedì 27 dalle 10 alle 13 – aula A3 del Dipartimento di Scienze Umanistiche – La metafisica si dice in molti modi
  • mercoledì 28 dalle 15 alle 18 – aula A3 del Dipartimento di Scienze Umanistiche – Metafisiche contemporanee

Anche se rivolte ai dottorandi, le lezioni sono aperte a tutti.

Mετὰ τὰ Φυσικὰ perché μετά vuol dire tanto ‘oltre, dopo, al di là’ quanto ‘in mezzo, tra, attraverso’.
La metafisica è anche un esercizio che impara a porre le domande fondamentali, le domande che vanno al di là degli enti attraversandoli per intero.
Metafisica è anche l’indagine che si riferisce non al generico essere degli enti, degli eventi e dei processi e neppure ai loro specifici particolari ma che si interroga sui costituenti primi e sulle realtà ultime del mondo.
Il tentativo di risposta parte dall’esplicita e netta affermazione che il mondo è.  E l’umano è in esso. Noi siamo e lo osserviamo. Il mondo è fenomeno e noi siamo parte di tale fenomeno. Ambiti della metafisica sono dunque l’ontologia – che indaga che cosa esiste – e la mereologia – che indaga la relazione costante e insieme dinamica tra il tutto e le sue parti. E dunque metafisica è anche il comprendere ciò che siamo dentro l’intero che noi non siamo. Questa sua natura rende parziali le tesi di chi pensa:
-che la filosofia sia una scienza/tecnica tra le altre;
-di chi ritiene che essa sia una visione del mondo, una prospettiva storicamente cangiante;
-di chi la giudica inutile, inglobata nelle scienze e quindi sostanzialmente finita.
La filosofia è invece un sapere universale che va molto oltre l’individuo e i suoi pensieri privati, le comunità e i loro valori, i diversi e specifici ambiti del reale con le scienze tecniche che li studiano.
La filosofia è volta a cogliere le forme universali della realtà; è questo il compito di una metafisica immanentista capace di descrivere un mondo composto di atomi, molecole, forze che sono e agiscono dentro l’infinita struttura dello spaziotempo, senza principio – da dove e da chi potrebbe prenderlo? – e senza fine – per diventare che cosa? Il nulla? Il nulla non è, la materia è tutto ed è eterna.
C’è la materia e il suo divenire, c’è il tempo. 

[L’immagine della galassia M31 è di Aldo Rocco Vitale]

Gentile

Giovanni Gentile
in Vita pensata, numero 22, maggio 2020
pagine 70-79

Le parole di modestia che Giovanni Gentile formula nella prefazione del 1920 al suo capolavoro non costituiscono un’affermazione di circostanza ma sono già parte coerente del sistema: «Ogni libro è via, e non mèta; vuol essere vita, non morte. E finché si vive, convien continuare a pensare» (Teoria generale dello spirito come atto puro, p. 75). L’attualismo è anche e specialmente questo già e non ancora, è una tensione verso un assoluto fuori dal tempo e fondante il reale che però si dispiega tutto nell’atto temporale del suo farsi. È, questa, una delle più feconde contraddizioni non di Gentile soltanto ma dell’intera storia della metafisica. Perché non è una semplice contraddizione ma costituisce il tentativo di intendere, cogliere e spiegare l’unità molteplice del mondo, la differente identità del reale
In questo saggio ho tentato una sintesi di una filosofia complessa, molto lontana dalle mie prospettive e dunque feconda del confronto. Gentile rappresenta il culmine di ogni possibile idealismo e anche per questo lo capovolge in un immanentismo radicale. Ben se ne accorse la Chiesa cattolica che inserì le sue opere nell’Indice dei libri proibiti.
Nel testo non si trova nessun riferimento alla pedagogia gentiliana, che merita un’analisi a parte, fondata com’è sulla struttura socratica del fatto educativo, il quale non è frutto né del maestro né dell’allievo ma della loro relazione.
Il saggio è diviso nei seguenti paragrafi:

  • Un trionfo della soggettività?
  • Estetica, linguaggio, ermeneutica
  • Gnoseologia, fisica, antirealismo
  • Filosofia pratica
  • Ontologia e logica
  • Gentile antimetafisico
  • Essere e verità
  • Immanentismo
  • Divenire e processo

Bruno, la materia, il tempo

Giordano Bruno
De la causa, principio e uno
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, Firenze 1985 (1958)
I volume, pagine 173-342 

«Per amor della mia tanto amata madre filosofia e per zelo della lesa maestà di quella» (p. 202) agisce la passione ‘eroica’ di Giordano Bruno a favore di un sapere non più in mano a pedanti ripetitori del già detto e dell’appreso ma per una scienza capace di mostrare la radice unitaria degli opposti. Infatti, «chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari e oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione» (340).
È dunque chiaro che il pensiero del Nolano si genera e si dispiega nel nodo costituito da Identità e Differenza. Infatti, una è «la omniforme sustanza, uno essere il vero ed ente, che secondo innumerabili circostanze e individui appare, mostrandosi in tanti e sì diversi suppositi» (184). Più esattamente, «ne la moltitudine è l’unità, e ne l’unità è la moltitudine; e come l’ente è un moltimodo e moltiunico, e in fine uno in sustanza e verità» (185). Sino a una conclusione che coniuga in modo consapevole e argomentato l’unità e identità del mondo con la molteplicità e la differenza che lo intridono e lo rendono ciò che è: «Quel che si vede di differenza negli corpi, quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori e altre proprietadi e comunitadi, non è altro che un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile di uno immobile, perseverante ed eterno essere» (326-327).
Il panteismo si coniuga a un profondo immanentismo, consapevole che «mai le forme riceversi da la materia come di fuora, ma quella, cacciandole come dal seno, mandarle da dentro» (183).

Tutto dunque è materia e la materia è tutto afferma Dicsono, l’interlocutore principale di Teofilo/Bruno. Noi vediamo infatti «che tutte le forme naturali cessano dalla materia e novamente vegnono dalla materia; onde par realmente nessuna cosa esser costante, ferma, eterna e degna di aver esistimazione di principio, eccetto che la materia» (273). La continuità delle strutture materiali è intrinseca alla estrema varietà delle loro forme; la molteplicità degli enti si fonda sul loro esser tutti enti naturali ed espressione dell’energia che genera incessantemente la differenza.

[Poliinnio] Non credete che, se la materia si contentasse de la forma presente, nulla alterazione o passione arrebe domíno sopra di noi, non moriremmo, sarrebom incorrottibili ed eterni?
[Gervasio] E se la si fosse contentata di quella forma, che avea cinquanta anni addietro, che direste? sareste tu, Poliinnio? Se si fusse fermata sotto quella di quaranta anni passati, sareste sì adultero…dico, sì adulto, si perfetto, sì dotto? Come dunque ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa, cossì è in volontà de la natura, che ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa nostra sustanza di farsi ogni cosa, ricevendo tutte le forme, che, ritenendone una sola, essere parziale. Cossì, al suo possibile, ha la similitudine di chi è tutto in tutto (296-297).

All’essere stesso è dunque intrinseca la sua forma temporale, la sua struttura diveniente, la differenza inseparabile dall’identità, la molteplicità coniugata all’unità, la permanenza degli enti nella trasformazione incessante che li rende esistenti e vivi. Se l’universo in quanto tale è uno, infinito, immobile ed eterno, le sue modalità d’essere sono molteplici e temporali.
Non ci si muta in altro essere -perché nulla si crea dal nulla-  ma si diviene in altri modi di essere, una dinamica fondata sulla differenza ontologica tra l’essere e gli enti: «E questa è la differenza tra l’universo e le cose de l’universo; perché quello comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere […]. Però intendete tutto essere in tutto, ma non totalmente e omnimodamente in ciascuno. Però intendete come ogni cosa è una, ma non unimodamente» (322-323). Bruno conclude dunque che tutti gli enti sono nell’universo e l’universo è in tutti gli enti. La struttura perfettamente unitaria dell’essere è una struttura di differenze. Il nucleo logico e ontologico di tale differenza è il Tempo.
Rispetto all’infinità spaziale e temporale, ogni misura parziale non può che essere identica a tutte le altre: «Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l’infinito, non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito queste cose sono indifferenti» (320). Anche tale struttura logico-ontologica conferma la molteplice unità di tutte le cose tra di loro.

L’universo è la potenza stessa, è -in termini contemporanei- energia che si dispiega in una varietà lussureggiante di forme, espressioni, leggi, forze. Un universo animato da trasformazioni incessanti all’interno di una forma che non muta.
L’anima mundi  «è tutta in qualsivoglia parte, come la mia voce è udita tutta da tutte le parti di questa sala» (253). Anche così si comprende la differenza tra causa e principio.
Non tutto ciò che è principio è anche causa. Il punto è principio della linea ma non la produce; l’istante è principio dell’azione ma non è sua causa. Il principio spaziotemporale rappresenta un concetto più generale rispetto a quello di causa efficiente. Il principio è parte costitutiva degli enti, degli eventi e dei processi. È una struttura intrinseca e immanente, è -nel linguaggio aristotelico- causa formale.
La causa è invece una struttura che concorre in modo esteriore e trascendente al farsi degli enti, degli eventi e dei processi, sia che la si intenda come causa efficiente sia come causa finale.
Intessuta di principi, cause e tempo, la materia è viva, animata, sacra: «È cosa indegna di razionale soggetto posser credere che l’universo e altri suoi corpi principali sieno inanimati; essendo che da le parti ed escrementi di quelli derivano gli animali che noi chiamiamo perfettibili» (179). 

Come ogni altro ente, l’umano partecipa di tale vita e di questa sacralità. Diventarne consapevoli è condizione per non temere più di tanto la fine del composto che si è, in quanto «si mostra chiaro che ne le cose naturali quanto chiamano sostanza, oltre la materia, tutto è purissimo accidente; e che da la cognizione de la vera forma s’inferisce la vera notizia di quel che sia vita e di quel che sia morte; e, spento a fatto il terror vano e puerile di questa, si conosce una parte de la felicità che apporta la nostra contemplazione, secondo i fondamenti de la nostra filosofia: atteso che lei toglie il fosco velo del pazzo sentimento circa l’Orco ed avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avelena» (179-180).
Anche e soprattutto qui sta la luce che la filosofia offre a chi la coltiva. Luce che invade chi la ama e che produce inevitabilmente odio in chi non ne comprende natura, fondamenti, scopi.
Figlio della filosofia, Giordano Bruno così descrive se stesso: «Io, odiato da stolti, dispregiato da vili, biasimato da ignobili, vituperato da furfanti e perseguitato da genii bestiali; io, amato da savii, admirato da dotti, magnificato da grandi, stimato da potenti e favorito dagli dei» (177). E così rispose ai giudici del Tribunale dell’Inquisizione cattolica che l’8 febbraio 1600 lo condannarono a essere bruciato vivo: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam», ‘Forse avete più paura voi a pronunciare contro di me questa sentenza che io a riceverla’.
A un uomo siffatto -a un filosofo- davvero «ogni terreno è patria» (201), ogni luogo dello spazio, ogni istante del tempo.

Deus sive Natura

Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento
(Spinoza. A Life, 1999)
di Steven Nadler
Trad. di Davide Tarizzo
Einaudi, 2009 (2002)
Pagine XV-410

Più l’Olanda del Seicento che Spinoza in questo libro. Per esplicita ammissione del suo autore, l’oggetto è non tanto la filosofia spinoziana quanto la vita e l’epoca, e soprattutto l’ambiente ebraico, alla cui storia, credenze, usi, costumi sono dedicati i primi sei capitoli, vale a dire metà dell’intero libro, la cui tonalità è chiaramente filosemita nel ripetuto tentativo di spiegare e giustificare i rabbini (Mortera, in particolare) e la comunità sefardita di Amsterdam. Giustificarli rispetto all’inaudita violenza del cherem che i capi religiosi e laici della comunità pronunciarono il 27 luglio 1656 contro il ventiquattrenne Spinoza, senza e prima che questi avesse pubblicato alcun testo. «Non esiste nessun altro documento di cherem emesso dalla comunità in quel periodo da cui trasudi la stessa collera» (p. 141). Una delle ragioni di tanto odio starebbe secondo Nadler nel fatto che un simile bando «oltre ad avere una funzione disciplinare interna, aveva pure il senso di un messaggio diretto alle autorità olandesi: gli ebrei erano una comunità in ordine, che -come previsto dagli accordi presi con la città- non tollerava infrazioni della condotta o della dottrina ebraiche. […] E forse la singolare animosità del bando contro Spinoza si spiega proprio con la volontà del ma’ amad di non dare l’impressione di proteggere individui che negavano non tanto i principî della fede ebraica, quanto quelli della religione cristiana» (167).
Le comunità ebraiche erano comunque abituate all’utilizzo costante e ripetuto delle scomuniche contro i propri membri. Le ragioni potevano essere le più varie e minuziose, visto che erano e sono migliaia i precetti disobbedendo ai quali si commette peccato. Ma è l’intera esistenza quotidiana di tali comunità a essere permeata di un formalismo totale ed esasperante, contro il quale si era infatti già pronunciato l’ebreo fondatore del cristianesimo e nei cui confronti anche Spinoza ritiene che «i seicentotredici precetti della Torah non hanno nulla a che fare con la virtù e la beatitudine» (303).
Dopo la scomunica Spinoza cessò di considerarsi un ebreo e parlò dei suoi antichi correligionari come di un’alterità con la quale nulla aveva a che fare. Non presentò ricorso -come sarebbe pur stato suo diritto- alle autorità civili della città «e neppure chiese aiuto a un’altra congregazione, come fece Prado. In effetti, non domandò neppure alla congregazione di rivedere il proprio giudizio. Abbandonò semplicemente la comunità» (171).
Forse anche per questo il testo di Nadler è percorso da una sottile avversione nei confronti del suo oggetto e verso la stessa filosofia intesa come esercizio di assoluta libertà razionale. Numerose potrebbero essere le conferme. Ad esempio, quasi a giustificare ancora una volta il cherem, «se Spinoza andava a dire cose simili […] e a stranieri per giunta! […] stava davvero giocando con il fuoco» (151-152); «Il suo scopo è nientemeno che la completa desacralizzazione e naturalizzazione  della religione e dei suoi concetti […] Perfino l’immortalità dell’anima è considerata niente più che una ‘durata eterna’» (211); «Le parole di Spinoza [nell’Appendice alla I parte dell’Ethica] sono assai pesanti, ed egli non era del resto inconsapevole dei rischi che correva» (258); «Ma nessun altro filosofo ha mai neppure identificato Dio con la Natura» (262), affermazione non rispondente al vero, dato che la concezione immanentistica del divino è un’antica posizione filosofica, pur variamente declinata, e sostenuta qualche decennio prima di Spinoza pure da Giordano Bruno (anch’egli scomunicato e la cui morte rimarrà per sempre uno dei peggiori crimini della chiesa papista).
Le fonti di Spinoza furono assai varie: la mistica ebraica; forse l’eretico (anch’egli bandito con un cherem) Uriel da Costa; il suo maestro di latino e di varia umanità Franciscus Van den Enden; certamente Descartes; Euclide; gli stoici; e anche -è una delle affermazioni più interessanti di Nadler- l’intera comunità della città dove nacque: «Ex gesuiti radicali in politica, collegianti con tendenze sociniane, ebrei apostati, forse persino quaccheri e pensatori libertini -se si dovesse davvero accusare qualcuno di essere stato il ‘corruttore’ di Spinoza forse bisognerebbe a questo punto accusare la città di Amsterdam nel suo complesso, una città liberale, in cui fiorirono di continuo idee eterodosse» (163).
Furono naturalmente il suo carattere e la sua intelligenza a renderlo immune da qualunque tentativo di corruzione -«gli erano stati offerti mille fiorini ‘per fare presenza in sinagoga di tanto in tanto’. Spinoza, a quanto pare, rispose che ‘potevano anche offrirgli diecimila fiorini’ ma lui non avrebbe comunque mai accettato una simile ipocrisia, ‘poiché si preoccupava solo della verità, e non delle apparenze’» (170)-; a farlo vivere con grande frugalità e in profonda coerenza con le proprie idee -rifiutando sia gli onori sia le polemiche- e a rimanere sempre sereno, come testimonia Jean Maximilian Lucas uno dei suoi primi biografi: «A qualunque ora lo si trovava sempre di ottimo umore…Possedeva una grande e penetrante intelligenza, e trasmetteva un senso di appagamento» (218).
Anche alla luce di questo carattere equilibrato e sicuro di sé, la ‘solitudine’ di Spinoza è davvero una leggenda priva di fondamento, come Nadler suggerisce quando sottolinea le ottime relazioni dal filosofo intrattenute con una varietà di soggetti sia in presenza sia per corrispondenza; il suo tornare spesso ad Amsterdam anche dopo essersi trasferito a Rijnsburg prima e all’Aia poi; il grande numero di persone che seguì il suo feretro il 24 febbraio 1677, quattro giorni dopo la morte. «Lungi dall’essere quell’antipatico e misantropo recluso di cui si è tramandata leggenda, Spinoza era invece, una volta messo da parte il lavoro, una persona di compagnia, moderata e piacevole, sempre calma -come ci si poteva aspettare del resto dall’autore dell’Etica. Era gentile e pieno di riguardi, e si divertiva molto in compagnia degli altri così come gli altri si divertivano con lui» (319). Ovunque vivesse, Spinoza venne cercato da molti, o di persona o per lettera. Il suo Epistolario è uno dei filosoficamente più densi che si possano leggere, un vero specchio della mente e del carattere di quest’uomo.
Avversato sino all’odio, giudicato, empio, blasfemo, sovversivo, depravato, pericolosissimo (anche da Leibniz) e persino «di essere un agente di Satana, se non addirittura l’Anticristo in persona» (324), Spinoza ha offerto una delle più plausibili interpretazioni dell’essere e del posto che ogni ente -umani compresi- occupa in esso. Lo fece in tutte le sue opere e nell’Epistolario ma specialmente nel Tractatus Theologico-Politicus, che «è uno dei manifesti più eloquenti che siano mai stati scritti a favore di uno Stato democratico e laico» (315) e nell’Ethica ordine geometrico demonstrata, «un’opera ambiziosa e sfaccettata. Un testo davvero audace per la critica spietata e sistematica cui vengono sottoposte le correnti nozioni filosofiche di Dio, dell’uomo e dell’universo, con tutte le credenze teologiche e morali allegate. Nonostante la scarsità di riferimenti a pensatori del passato, il libro dà prova di una grande erudizione e di una approfondita conoscenza degli autori classici, medievali, rinascimentali e moderni -pagani, cristiani ed ebrei. Platone, Aristotele, gli Stoici, Maimonide, Bacone, Cartesio e Hobbes (tra i tanti) appartengono tutti allo sfondo culturale dell’opera, che rimane comunque, ciononostante, uno dei trattati più originali dell’intera storia della filosofia» (250-251).
Il disincanto sulle vicende umane si coniuga alla certezza di una razionalità invincibile che intride gli eventi. Per Spinoza la filosofia è il tentativo di comprendere questo significato e, una volta compreso, lasciarsene attraversare.

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