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Erscheinen

Heidegger e Sofocle: una metafisica dell’apparenza
In Engramma, n. 150, ottobre 2017 –  Zum Bild, das Wort
Pagine 154-161

Per chi scrive e insegna, e cerca quindi di comunicare, la pubblicazione dei propri testi è sempre importante. Ma in questo caso essa è speciale per varie ragioni.
Engramma non è soltanto un’autorevole rivista dedicata alla cultura greca e romana, è anche e soprattutto una raffinata espressione della «tradizione classica nella memoria occidentale», come recita il suo titolo.
La seconda ragione è che in questo testo ho avuto modo di coniugare uno dei più potenti nuclei teoretici del pensiero di Martin Heidegger con la Stimmung degli antichi Elleni, in particolare Eraclito e Sofocle.
Terzo motivo è che si tratta di un numero a inviti. Ringrazio dunque Monica Centanni, la poliedrica e affascinante filologa che ha inventato e dirige Engramma, per avermi accolto tra gli autori che hanno festeggiato i 150 numeri di questa bellissima rivista.

Abstract
This paper proposes a reading of the 1935 Heideggerian course – Einführung in die Metaphysik – and focuses on the way the philosopher translates and interprets some fragments of Heraclitus and the 332-375 lines of Sophocles’s Antigone. The fundamental metaphysical question, ‘Why is there something rather than nothing?’ is the background to the Heracliteian dynamic of identity and difference, and to the meditation of the Sophoclean chorus on mankind, his nature, and his destiny. The hypothesis I propose is that the translation of τὸ δεινότατόν as das Unheimlichste doesn’t simply mean the canonical ‘more disturbing’ but relates to Heimat, the home, the place where Man once lived but lost becoming Unheimlichste, the most restless of entities because the farthest from the origins he lost but constantly feels nostalgia for. The way back to Heimat consists of full acceptance of Erscheinen – appearing – as the shape and the way of Sein, of being. An apology of the image which confirms Heidegger’s loyalty to Nietzsche and phenomenology.

«A un tale grado»

Money Monster. L’altra faccia del denaro
di Jodie Foster
USA, 2016
Con: George Clooney (Lee Gates), Jack O’Connel (Kyle Budwell), Julia Roberts (Patty Fenn), Caitriona Balfe (Diane Lester), Dominic West (Walt Camby)
Trailer del film

Lee Gates è il conduttore di un programma finanziario/trash, nel quale dà informazioni sulla Borsa, spiega la finanza e soprattutto consiglia su come investire i propri soldi. Kyle Budwell ha seguito i suoi consigli e ha perso tutto ciò che aveva. Budwell riesce a entrare nello studio televisivo e a prendere in ostaggio Gates. Ciò che vuole non sono i soldi ma delle risposte sulle ragioni della rovina propria e di quella di molti altri investitori. A poco a poco Gates si rende conto che l’inganno del quale egli stesso fa parte è assai più esteso  e criminale di quanto immaginasse. Sequestratore e ostaggio cominciano a chiedere insieme delle spiegazioni. Il pubblico televisivo segue in diretta tutta la vicenda.
Perché il cinema, sia italiano, sia soprattutto hollywoodiano comincia a produrre film di denuncia nei confronti del crimine finanziario? Le risposte possono essere molteplici: si tratta di un argomento di grande attualità; anche registi e attori molto affermati possiedono una qualche forma di coscienza civile -Jodie Foster e George Clooney l’hanno mostrata più volte-; Hollywood ha da sempre affiancato ai prodotti di puro intrattenimento pellicole di spessore artistico e sociale.
Tutto vero. È possibile dare un’altra risposta. Essa consiste nel fatto che trasformare in spettacolo una tragedia, un comportamento, una questione, significa anche normalizzarla, farne qualcosa di familiare, renderla accettabile. Credo che questa sia la risposta che meglio spiega come mai un film ad alto costo come questo -attori assai famosi, centinaia di comparse, ambienti ricostruiti in ogni dettaglio- venga finanziato dalle grandi case di produzione -la Warner Bros in questo caso- che alla finanza attingono per i loro investimenti.
Il film è ben girato ed è ovviamente assai spettacolare. Di esso si potrebbe dire che «le spectacle est le capital à un tel degré d’accumulation qu’il devient image» (Debord, La Société du Spectacle, § 34). Lo spettacolo non è un fatto soltanto tecnico o estetico. Lo spettacolo è soprattutto un evento politico. Il Capitale può davvero arrivare a un tale grado di accumulazione di risorse e di idee da diventare esso stesso immagine. È quanto accade anche con Money Monster.

Immagine / Movimento

GLITCH
Interferenze tra arte e cinema

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Davide Giannella
Sino al 6 gennaio 2015

di_Martino8A questa mostra si attaglia benissimo la definizione del cinema come «immagine in movimento». L’opera esposta è infatti il cinema stesso, sono i film. Tre luoghi del PAC sono trasformati in sale nelle quali è possibile vedere senza interruzione 64 opere, lunghe e brevi, provenienti da tutti i continenti, permeate di stili diversi ma tutte con l’intenzione di far diventare il cinema ciò che è: invenzione, documentazione, sogno, filosofia.
Solo due esempi: Petite histoire des plateaux abandonnès (Rä di Martino) trasforma in metafisica i set utilizzati per alcuni film e poi abbandonati nel deserto del Marocco. Pura archeologia cinematografica, rovina, tempo.
In Pattini d’argento (Anna Franceschini, Diego Marcon, Federico Chiari) gli esercizi di alcune ragazze sul ghiaccio diventano -per merito del taglio e del montaggio- un’epifania del movimento,
Ai film si alternano sculture, installazioni, fotografie. Le sculture di Rosa Barba fanno muovere pellicole e fotogrammi al ritmo della meditazione. Nell’opera di Virgilio Villoresi, Click-Clack, le immagini sono in movimento meccanico mediante l’utilizzo di tre flipbook motorizzati e dell’ombro cinema. Il Tiberio di Francesco Vezzoli è fatto di lana e ricamo in filo metallico. Paolo Gioli isola e trasforma vari fotogrammi da vecchi film di inizio Novecento.
In alcuni artisti emerge l’inevitabile manierismo del contemporaneo ma l’insieme della mostra costituisce una riuscita ibridazione tra le forme del vedere.
Propongo la visione del film di Rä di Martino: Copies récentes du paysages ancienne / Petite histoire des plateaux abandonnés

Storia / Narrazione / Astrazione

Piergiorgio Branzi – Keeri Matilda Koutaniemi – Irina Litvinenko
Cucine del Monastero dei Benedettini – Catania
Sino al 31 ottobre 2014 (apertura ore 17-19)

Tre sguardi diversi sul mondo, sugli umani, sul tempo.
Branzi_ 001Piergiorgio Branzi fotografa la storia nell’Italia e nell’Europa degli anni Cinquanta. E la trasforma nell’Italia del Cinquecento. Non nei contenuti, naturalmente, ma nell’ordine assoluto della composizione. Gli occhi, il corpo, la postura di una bambina davanti a un bancone con due uova e con accanto una bilancia richiamano la figura del matematico Luca Pacioli dipinto nel 1495 da Jacopo de Barbari. I ritratti -che siano immobili o in divenire- e i luoghi -che siano abitati o vuoti- splendono della geometria dei Maestri che inventarono in Italia la pittura.
Keeri Matilda Koutaniemi fa della fotografia la narrazione di un evento drammatico: la mutilazione genitale di due ragazzine in un villaggio del Kenya. Narra la preparazione, la violenza, il dolore, il pianto, la profonda malinconia degli occhi di queste donne, torturate Koutaniemidalle madri, dalle zie e dalle nonne, come loro stesse lo furono dalle proprie antenate.
Irina Litvinenko fa della fotografia un’ironica astrazione dei corpi di modelli e modelle la cui leggiadria è un totale artificio. Non c’è infatti nulla di naturale in due uomini che al posto della barba hanno dei fiori, nulla di naturale nelle modelle avvolte nel velo o nella plastica che fanno di loro delle sculture e che le trasformano nelle divertite icone della moda contemporanea.
Questa mostra organizzata nell’ambito del Med Photo Fest 2014 riassume storia, narrazione e astrazione: tre delle categorie universali dell’arte fotografica.

Realtà / Simulacro

Quanti pensano che si dia una realtà del tutto autonoma dalla semantica e dalla comunicazione non comprendono che il virtuale e lo spettacolare delle società contemporanee costituiscono  «il capitale a un tale grado di accumulazione da diventare immagine» (Guy Debord, La société du spectacle, Gallimard, 1992 [1967], § 34). Per parafrasare Horkheimer e Adorno, la terra tutta virtuale splende all’insegna di sventurata realtà. La vita è diventata riproduzione di figure dietro e dentro le quali non si dà nulla se non la perpetuazione del dominio di chi possiede gli strumenti della rappresentazione rispetto a chi non li detiene. Perché «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini»; soggetti ed eventi che non si fanno spettacolo è come se non esistessero, e questo fa sì che lo spettacolo non sia «un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale» (Ivi, §§ 4 e 6). La fine dell’illusione produce un mondo di immagini nel quale non c’è niente da vedere, un mondo di informazioni in cui non c’è nulla da sapere.

È rimuovendo la realtà/simulacro che diventa possibile comprendere la potenza della realtà materiale e semantica dentro la quale si dà l’accadere. Se la regola dello scambio è di restituire sempre più di quanto si è ricevuto, allora rendere il mondo un po’ più libero significa anche renderlo più inintelligibile di quanto non ci sia stato dato; significa sostituire alla realtà della comunicazione servile l’irrealtà di progetti che esistono tra il già e il non ancora; significa fare dell’interpretazione un luogo di invenzione trasformatrice che dissolva la realtà; significa, in un parola, non rassegnarsi. In questo modo il costruzionismo e l’ermeneutica mostrano la propria natura libertaria e più anarchica di qualunque ideologia realista, progressista e politicamente corretta, il cui umanitarismo è l’evidente gemello dell’oppressione, la cui volontà di delicatezza nasconde a stento la ferocia della realtà: «Ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere», in modo da legittimare nella propria compiaciuta tranquillità interiore «tutti coloro che fanno abbronzare la loro coscienza tranquilla al sole della solidarietà» (Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà, Raffaello Cortina Editore 1996 [1995], pp. 143 e 137). È anche su questi ex rivoluzionari, che hanno barattato le loro giovinezze radicali con la solidarietà caritatevole dei clericali di ogni chiesa, che il potere fa affidamento e gongola tranquillo.

Lo spettacolo si rivela come una forma economica che «non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni» (La société du spectacle, § 66), una forma nella quale non troviamo ciò che desideriamo ma desideriamo ciò che ci inducono ad acquistare. Condizionati sin nell’intimo del loro pensare, inconsapevoli d’essere condizionati, vaganti tra illusioni, luccichii e menzogne, gli spettatori/consumatori sono il soggetto politico amorfo e passivo che Debord definisce con estrema chiarezza: si tratta di «morti che credono di votare» (Opere cinematografiche, Bompiani, 2004, p. 135), una morte che è consustanziale alle immagini che sopravvivono assai più a lungo di ciò che rappresentano. Ed è anche per questo che «lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente» (La société du spectacle, § 2). In questa società di zombie la democrazia è un simulacro. Il suffragio universale è diventato «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza», nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 2007 [1976], pp. 77 e 81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (Ivi, p. 79). Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (Ivi, p. 35). È esattamente quanto sta accadendo -anche con l’euro- negli anni Dieci del XXI secolo.

Teleaddiction

Alcune serie televisive non soltanto durano anni e decenni ma entrano nella vita di milioni di persone come parte reale e decisiva della loro identità. «Legioni di adolescenti, professionisti, casalinghe, impiegati, persone di ogni età e senza caratteristiche particolari» incontrano «parte dei loro amici -della loro famiglia allargata, si potrebbe dire- all’interno della tv o del computer», tanto che «la fine della propria serie tv preferita può scatenare sintomi depressivi e un senso di angoscia e smarrimento simile a quella generata dalla fine di un amore» (P.E. Cicerone, «Maniaci seriali», in Mente & cervello, n. 97 – gennaio 2013, pp. 88 e 93). L’articolo che ne parla indulge un po’ troppo in un paragone tra serie televisive come le soap opera o fiction quali Lost, Sex and the City, Dr. House e la grande letteratura epica e romanzesca. Un’analogia insensata poiché per la nostra specie l’attenzione visuale, lo scorrere passivo delle immagini che attraversano il nostro orizzonte, è pura natura; il leggere è attività costruttiva della mente, è cultura diventata natura. Anche per questo la lettura costituisce un livello evolutivo assai superiore rispetto alla dipendenza televisiva, la cui essenza è quindi pre-umana.
Una conferma arriva da quanto leggo in merito alla presenza di s.b. in un programma televisivo di ieri sera (10.1.2013). Sia per il cinico conduttore Santoro sia per l’immondo suo ospite l’importante è stato non il contenuto di ciò che veniva detto ma l’audience, la capacità di tenere legati alla visione milioni di cittadini ridotti al rango di spettatori di uno scontro subumano. La vittoria non poteva che arridere al più rozzo, il quale -invece d’essere venuto a noia- dopo vent’anni domina ancora il mezzo televisivo.

Heidegger, i Greci, gli dèi

«Gli dèi dei Greci non hanno nulla a che vedere con la religione. I Greci non hanno creduto nei loro dèi. Una fede degli Elleni -per rammentare Wilamowitz- non esiste». Così Heidegger durante un seminario che tenne a Friburgo insieme con Eugen Fink (Eraclito. Seminario del semestre invernale 1966/1967, a cura di A. Ardovino, Laterza, 2010, p.16). È vero, i Greci non hanno una fede religiosa ma sono immersi nel divino come la Terra è immersa nella luce ed è circondata da tenebre sconfinate. L’immenso buio del dolore, dell’assurdo e della fine viene illuminato da quei frammenti di oggettività che sono le statue degli dèi, le loro epifanie, il loro materico apparire ed ergersi sullo sfondo dell’armonia dei templi e della potenza naturale. Questa è la “fede” dei Greci, in realtà un vedere e non un credere.

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