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Stupidità

Gli spiriti dell’isola
(The Banshees of Inisherin)
di Martin McDonagh
Irlanda, USA, Gran Bretagna, 2022
Con: Colin Farrel (Padraic), Brendan Gleeson (Colm Doherty), Kerry Condon (Siobhan Súilleabháin), Barry Keoghan (Dominic Kearney), Sheila Flitton (Mrs. McCormick)
Trailer del film

Nel 1923 in Irlanda si sta combattendo una guerra civile della quale però arrivano soltanto echi assai deboli nella piccola isola abitata, tra gli altri, da Padraic e Colm. I quali, amici inseparabili sino al giorno prima, si separano per volontà di Colm, generando sconcerto in Padraic e stupore/curiosità nella piccola comunità che frequenta i campi, il pub, la chiesa alla domenica. Dopo giorni di silenzio e di fronte alle reiterate richieste di spiegazioni da parte di Padraic il suo ex amico afferma che Padraic è molto noioso e non può trascorrere gli anni che gli rimangono «a chiacchierare del nulla» e dunque lo prega, anzi lo implora, di lasciarlo in pace.
Sembra un comune episodio di amicizia finita e invece si cominciano da qui a dipanare una serie di eventi che a poco a poco diventano estremi, come se si fossero scatenate le Banshees of Inisherin, gli spiriti dell’isola, le streghe che vedono il futuro e determinano il destino dei vivi. A incarnare queste potenze è una vecchia signora che vive solitaria sulle rive di un lago e che della strega ha proprio l’inquietante aspetto.
Ma sono altri gli spiriti che dominano il luogo e guidano la vicenda. Spiriti assai più universali e presenti ovunque: la solitudine di tutti e di ciascuno; la noia che sembra trasudare da ogni angolo; la violenza, incarnata soprattutto e significativamente dal poliziotto dell’isola, un depravato che abusa anche del figlio; la perversione, appunto, abbastanza esplicita anche nel prete dal viscido sembiante che viene a celebrare messa la domenica; il pettegolezzo, del quale alcuni personaggi – come la droghiera/postina dell’isola – sembrano nutrire un bisogno spasmodico e patologico; la follia e la disperazione, che inducono ad esempio Colm a reagire in modi autolesionisti alla insistente presenza di Padraic.
E infine e soprattutto la stupidità, la cui forza, come affermano tra gli altri Schopenhauer e  Céline, è tra gli umani indomabile.
Questa potenza che guida il mondo è qui incarnata dal protagonista (un eccellente Colin Farrel) che mostra la profonda, inemendabile pochezza intellettuale ed esistenziale di Padraic. Il quale non capisce, non capisce proprio, che il suo amico ha bisogno di solitudine, che desidera concentrarsi per comporre ed eseguire le proprie musiche, che ha maturato un altro sguardo sul mondo.
Altro rispetto alla banalità, al vuoto interiore, alla bêtise costitutivi di Padraic. Il quale ha come massima aspirazione essere ‘gentile’, al che Colm risponde agevolmente che nel Settecento di persone gentili ce ne furono molte ma nessuno si ricorda di loro mentre di Mozart, che gentile non era, si ricordano tutti. Padraic, la cui massima aspirazione è «essere un pezzo di pane» ma che nel diramarsi della vicenda mostra di essere in realtà ciò che in siciliano viene definito «babbu malignu», uno sciocco capace di maligna furbizia e profonda cattiveria. Padric è un uomo interamente e integralmente stupido e per questo genera violenza e produce danni sugli altri.
Intorno a questo microcosmo doloroso e iniquo stanno il mare, il cielo, i prati, le pietre, elementi questi assai più saggi degli umani. E tra il mare e il cielo stanno altri animali presenti non soltanto nelle stalle e nei prati ma anche dentro le case e soprattutto dentro le anime di Padraic e Colm.
La sorella di Padraic, il solo personaggio intriso di intelligenza, è un’appassionata lettrice, cosa che chi le sta intorno sembra non riuscire a comprendere. Allora è chiaro che il male è l’ignoranza, il male è la stupidità che dell’ignoranza è il fondamento. La luce invece è la conoscenza, senza la quale la serenità dei ritmi esistenziali, il legame con gli altri animali, la bellezza del mondo, scompaiono, sostituiti dal sabba, dalla tregenda, dal convergere degli spiriti malvagi di un’isola che in realtà è l’intera specie umana.

[Anche la vicenda del Covid19 si pone sotto il segno di questa forza indomabile]

Ignoranza

Il trionfo dell’ignorante è l’estasi del potere
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
23 dicembre 2022
pagine 1-7

I decisori politici, i loro consulenti ai ministeri dell’istruzione e dell’università, favoriscono nelle scuole il familismo cognitivo e nelle università la notte in cui tutti gli studenti sono uguali. Il familismo cognitivo reclama – con aggressioni, intimidazioni e ricorsi – che i propri figli siano sempre premiati, promossi, sostenuti, anche e soprattutto quando non studiano, non capiscono, non si impegnano, disprezzano gli insegnanti e i libri.
Ma l’eliminazione di ogni filtro a scuola e nelle università ha prodotto un filtro feroce e implacabile nei dottorati di ricerca. Si offrono a chiunque, in cambio delle tasse di iscrizione, lauree svalutate e voti inflazionati – il 110 per tutti, Todos caballeros – ma poi ad accedere a quello che è ormai il vero titolo di studio superiore sono pochissimi, dato il numero sempre assai ridotto di posti di dottorato di ricerca e ancora meno di quelli che prevedono una borsa di studio. È facile dedurne che a entrare nei dottorati sono di solito e per fortuna delle persone tenaci, intelligenti e competenti, ma non mancano altre che vi accedono per meriti di diversa natura: familiari, di protezione politica, di raccomandazione di casta. Perché un filtro, prima o poi, si crea. E questa diventa una selezione particolarmente iniqua e dannosa poiché senza un titolo di dottore di ricerca non è più possibile aspirare a entrare nei ruoli dell’insegnamento universitario.
Davide Miccione, al cui Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo (2022) questo articolo è dedicato, sull’Avanti! del 22.1.2023 ha aggiunto sul tema altre lucide riflessioni:
«Eppure pensare l’ignoranza ci disturba. È il nostro grande non detto. Tuttavia chi ha insegnato nei licei e nelle università contemporanee sa, a meno che non sia lui stesso ignorante, che una grossa fetta della popolazione scolastica e accademica non raggiunge i livelli minimi che ci si aspetterebbe dal possesso della loro laurea o del loro diploma. […]
Il potere, per evitare il virus della politica come luogo dove si raggiunge una decisione di cui si debba poi avere una responsabilità, si traveste da decenni da tecnica. Vuole sottofinanziare le università meridionali senza che sia una decisione politica ma solo tecnica e costruisce algoritmi per classifiche che gli permettano “tecnicamente” di tagliare finanziamenti come mero fatto tecnico e così via. Questo goffo travestimento funziona solo in presenza di un folto numero di soggetti per cui una riflessione politica e filosofica sia ormai oltre le proprie possibilità. […]
Chi pensa, da politico, di stare “sbrigando” un atto tecnico invece che un atto politico dimostra solo la propria triste condizione culturale (e del resto tanto Platone che Croce, per citare due classici, sul tema si sono già abbondantemente espressi) o la propria amorale furbizia. […]
L’ignoranza vigila su di noi: il dibattito, se proprio deve esserci, sia simulato, ripetitivo e asimmetrico. E mai si alzi in volo».

Filosofia antica

Pierre Hadot
Che cos’è la filosofia antica?
(Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard 1995)
Traduzione di Elena Giovannelli
Einaudi, 2010
Pagine 302 

La filosofia è un modo di vivere all’interno di una comunità, nel dialogo, nel confronto, nel sentirsi esistere in una relazione continua con altri umani animati dalla stessa forma, passione, interesse, intenzione, vita. Non è necessario condividere sempre gli spazi ma sapere che quello che stiamo in questo momento vivendo, pensando, scrivendo, è condiviso dai desideri e dalla lucidità di altri filosofi. Lucidi come noi, strani come noi, indifferenti come noi. Un’indifferenza che significa almeno tre cose: consapevolezza dei limiti umani, della nostra infima misura dentro lo splendore e l’immensità dell’intero; disincanto nei confronti della condizione di dolore e di morte non soltanto dell’umano ma di tutto ciò che è vivo; metamorfosi di questo consapevole disincanto in azione, in opera, in trasformazione della vita propria e delle relazioni, dei legami, della politica.

Conoscenza e azione che si fondano su numerosi e vari presupposti teoretici, che nel mondo greco sono in particolare:
– L’essere ogni ente una parte dell’intero, un’espressione della potenza della materia generatrice, che sempre sorge da se stessa, dalla propria potenza, dall’energia universale, la Φύσις.
– Il coincidere di tale energia e potenza con ciò che tutte le culture chiamano il sacro, il quale non abita quindi in qualche luogo specifico, in un tempo altro, in una realtà lontana ma accade qui e ora, in ogni ente, evento e processo. La realtà stessa è sacra, tutta, come l’aneddoto eracliteo del focolare in cucina testimonia con semplicità.
– Ciò che chiamiamo male è l’ignoranza di questa energia pervasiva e sacra, nella quale e con la quale il mondo in ogni istante esiste; è anche per questo che l’etica è un’espressione dell’ermeneutica, perché «il male non è nelle cose, ma nel giudizio di valore che gli uomini attribuiscono alle cose» (p. 101).
– Ciò che chiamiamo bene è invece l’immersione consapevole in questa dinamica, qui e ora; non quindi l’aspirazione ad altre vite o l’inquietudine senza pace dei progetti più fantasiosi e irraggiungibili ma l’esistere nel presente. Non naturalmente il semplice presente fisico e matematico, infinitamente divisibile e anche per questo di fatto insussistente, ma il presente come percezione della durata e suo significato. Un presente semantico prima di tutto.
– La necessaria fiducia che tutto questo si possa comunicare, trasmettere, insegnare e in tal modo contribuire a formare altri umani, a plasmare altre vite a partire da ciò che il tempo sacro ha donato alla nostra, tale è la pratica della παιδεία.
– La necessità che tale pratica educativa sia sempre intramata e sostenuta dall’approccio teoretico e da prospettive universali che si sforzino di andare oltre la limitatezza dell’orizzonte storico e prassico di ogni individuo e di ciascuna comunità: «Senza questa riflessione, la vita filosofica rischia di cadere nella banalità o nell’insipienza, nei buoni sentimenti o nell’aberrazione. […] Vivere da filosofi significhi precisamente anche riflettere, ragionare, concettualizzare, in modo rigoroso e tecnico, ‘pensare in modo autonomo’ come diceva Kant. La vita filosofica è una ricerca che non si arresta mai» (269).
– L’accettazione dunque della natura asintotica della vita in generale e dell’esistere filosofico in particolare, vita ed esistere per loro natura sempre aperti e mai definitivi. Vivere significa precisamente questo incompiuto che in ogni suo momento è sempre realizzato.
– Il convergere di queste pratiche asintotiche e teoretiche verso l’enigma del tempo, il vero e proprio oceano il cui infinito movimento è definito allo stesso modo in un testo fondante quale la Teogonia di Esiodo (verso 38) e in una sentenza epicurea (la n. 10) attribuita a Metrodoro: «Ricorda che nato mortale, con una vita limitata, tu sei assurto, grazie alla scienza della natura, fino all’infinito dello spazio e del tempo e hai visto ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (22).

La filosofia è quindi conoscenza e pratica del tempo infinito dentro il tempo limitato che siamo, è la consapevolezza che una parte della materia universale ha di esistere per un arco, una parabola, un percorso sempre limitati ma non per questo meno densi. Filosofia è diventare l’infinito che si è. È ciò che Ernest Renan definisce il «punto di vista di Sirio», la stella più luminosa che i nostri occhi di terrestri possano vedere.
Come i corpi hanno bisogno d’aria per vivere, la filosofia richiede la libertà come respiro. Questa è la principale ragione per la quale la filosofia  nacque in Grecia e non altrove. Nell’Accademia di Platone vigeva una integrale libertà di pensiero, tanto che i suoi allievi e anche gli immediati successori alla guida della scuola espressero posizioni anche assai lontane dal Maestro, il più famoso tra questi è Aristotele. L’Accademia era infatti «un luogo di libera discussione e al suo interno non vigeva nessuna ortodossia specifica della scuola e nessun dogmatismo» (64).
Gli ultimi filosofi greci, cacciati via dal cristiano Giustiniano, trovarono nell’Oriente persiano, tra i nemici persiani, il luogo estremo nel quale esercitare ancora tutto questo. Nel 529 infatti «l’imperatore Giustiniano proibisce ai pagani di insegnare. I filosofi neoplatonici Damascio, Simplicio e Prisciano lasciano Atene per rifugiarsi in Persia. Dopo il trattato di pace concluso tra Cosroe e Giustiniano, essi si stabiliscono a Carrae, in territorio bizantino ma sotto influenza persiana, e continuano il loro insegnamento» (280), che ancora prosegue.
In questa sistole e diastole di esistenza e teoresi, di limite e di infinito, abitano il dolore e la gioia dell’essere filosofi.

«Il filosofo sperimenta in modo crudele la propria solitudine e la propria impotenza in un mondo lacerato tra due inconsapevolezze: quella che è provocata dall’idolatria del denaro e quella che risulta dalla miseria e dalla sofferenza di miliardi di esseri umani. In simili condizioni, il filosofo non potrà sicuramente mai raggiungere la serenità assoluta del saggio. Filosofare equivarrà, dunque, a soffrire di quell’isolamento e di quella impotenza. Ma la filosofia antica ci insegna anche a non rassegnarci, continuando invece ad agire ragionevolmente, e a sforzarci di vivere secondo la norma rappresentata dall’Idea della saggezza, qualsiasi cosa succeda, per quanto la nostra azione ci possa apparire molto limitata.
Come diceva Marco Aurelio:
‘Non sperare la Repubblica di Platone, ma accontentati se una cosa piccolissima progredisce, e pensa che questo risultato non è così piccolo’ » (270; Ricordi, 9.29.5).

Questo è la filosofia antica, questo è la filosofia.

Sulla scienza

Paul K. Feyerabend
CONTRO IL METODO
Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza
(Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975 by NBL)
Trad. di Libero Sosio
Prefazione di Giulio Giorello
Feltrinelli, 2021
Pagine 263

Contro il metodo è uno dei libri più argomentati che siano stati scritti a favore della conoscenza, a chiarimento della sua natura, a difesa del suo progresso, a spiegazione del suo statuto. Un libro pervaso dalla  consapevolezza che una solida e reale acquisizione di conoscenza è possibile, pensabile e praticabile dove si dà libertà metodologica, dove si permette un pluralismo di itinerari, dove a essere rifiutati sono soltanto i dogmi di qualunque natura.
Uno dei risultati di un simile approccio è che «la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. A ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili» (p. 244).
La crescita della conoscenza per Feyerabend non deve essere anarchica, è sempre stata anarchica: «Eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’Antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ‘ovvie’ o perché involontariamente le violarono» (21). La ricerca più feconda infrange infatti sempre le norme metodologiche stabilite. E questo accade per una serie assai ricca di ragioni.

La prima di esse è che nessuna teoria scientifica o di altro genere è completa e in accordo con tutti i fatti del campo che intende spiegare.
La seconda è che le osservazioni empiriche sono sempre intrise di teoria e non è possibile alcuna teoria che non si riferisca in qualche misura e modalità a delle osservazioni empiriche. «L’apprendimento non va dall’osservazione alla teoria, ma implica sempre entrambi gli elementi. L’esperienza ha origine assieme ad assunti teorici, non prima di essi e un’esperienza senza teoria è altrettanto incomprensibile come (si presume sia) una teoria senza esperienza: se si elimina una parte della conoscenza sensibile di un soggetto senziente si avrà una persona completamente disorientata e incapace di eseguire l’azione più semplice» (137). Il circolo epistemologico tra osservazione e teoresi, tra ‘empirismo’ e ‘razionalismo’ è costante, completo, costitutivo. Esso è stato ben individuato da David Hume, per il quale «le teorie non possono venire derivate da fatti. La richiesta di ammettere solo quelle teorie che derivino dai fatti ci lascerebbe senza alcuna teoria. Perciò la scienza quale noi la conosciamo può esistere solo se lasciamo cadere questa richiesta e rivediamo la nostra metodologia» (55).
L’unione profonda tra fatti e teorie rende necessario un confronto serio e rigoroso con le cosiddette interpretazioni naturali, con il senso comune, con le credenze condivise da un gruppo, una comunità, un’epoca. Nella scienza non si fa mai tabula rasa del passato e nello stesso tempo non si rimane mai ancorati alla tradizione, a ciò che è stato in altre epoche osservato, scoperto, pensato. Anche per questo «l’intenzione di partire da zero, dopo avere eliminato completamente tutte le interpretazioni naturali, è condannata all’insuccesso» (64).
Una terza ragione è che nessun metodo è sicuro e perenne, che «non esiste neppure una regola che rimanga valida in tutte le circostanze» (146-147) e che «tutte le metodologie, anche quelle più ovvie hanno i loro limiti. Il modo migliore per realizzare quest’obiettivo [non sostituire un metodo con un altro] consiste nel dimostrare i limiti e anche l’irrazionalità di alcune norme che vengono di solito considerate fondamentali […] dimostrare quanto sia facile menare per il naso la gente in un modo razionale» (29).
Una quarta ragione è che filosofia della scienza, storia della scienza e storia socio-politica non sono ambiti e saperi tra di loro irrelati ma costituiscono un campo epistemologico all’interno del quale ogni metodologia, ogni ipotesi e ogni legge vanno compresi, utilizzati e interpretati in una prospettiva storica, tanto che «la storia di una scienza diventa parte inscindibile della teoria stessa» (27).

Un esempio di quest’ultima tesi è la vicenda del cannocchiale e in generale il confronto tra astronomia tolemaica e astronomia copernicana, tra dinamica aristotelica e fisica galileiana. La dinamica di Aristotele è molto più generale di quella galileiana e moderna, non limitandosi al solo movimento – al moto locale in ispecie – ma riguardando anche le trasformazioni qualitative, il generarsi e dissolversi degli enti, l’accrescimento e la diminuzione di tutte le componenti in gioco in un fenomeno naturale. Galilei potè procedere all’elaborazione della propria dinamica soltanto circoscrivendo in modo netto questo insieme di linee di ricerca e applicando a quanto rimaneva l’utilizzo di uno strumento che fino ad allora aveva funzionato perfettamente soltanto nell’osservazione terrestre e che potè essere usato in ambito celeste soltanto a condizione di caricare l’osservazione di una densità teorica con la quale cercare di superare «le difficoltà che insorgono quando si cerca di considerare i risultati dell’osservazione telescopica nella loro immediatezza come indicanti proprietà stabili, obiettive, delle cose viste» (102).
Come operò Galilei per convincere i suoi interlocutori e lettori della verità del copernicanesimo rispetto all’aristotelismo tolemaico? Operò come un metafisico e come «un ciarlatano» e questo fu il suo merito, il suo genio, il suo contributo fondamentale all’ampliarsi della conoscenza. Sta qui, in questo giudizio solo apparentemente paradossale, uno dei nuclei fondamentali dell’epistemologia anarchica di Feyerabend. Galilei è Galilei perché non seguì alcun metodo come si pratica una fede religiosa, perché adoperò tutte le risorse e i trucchi retorici nei quali era un vero maestro, perché non si fermò a uno strumentalismo empirista ma ragionò, pensò e scrisse da quel metafisico platonico che era. Quella di Galilei, infatti, «è una nuova idea audace che implica un tremendo salto dell’immaginazione, […] un nuovo genere di esperienza che è non soltanto più sofisticato ma anche assai più speculativo di quanto non sia l’esperienza di Aristotele o del senso comune. Parlando in modo paradossale, ma non sbagliato, si potrebbe dire che Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici. Proprio per mezzo di una tale esperienza si realizza la transizione da una cosmologia geostatica al punto di vista di Copernico e di Keplero» (76-77).
Galilei è uno dei massimi esempi della fecondità di risultati e dell’apertura di orizzonti verso i quali conduce il rifiuto dei dogmi più consolidati, ai quali il pisano oppose non un metodo ma una pluralità di metodologie, non l’idolatria dei fatti o delle teorie ma l’invenzione di nuove verità, di altri miti, di una diversa metafisica rispetto alle verità, ai miti e alla metafisica dominanti nel suo mondo. Galilei ci ha aiutato «contro tutti coloro che sono disposti ad accettare un’opinione solo se essa viene espressa in un certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche designate come protocolli o rapporti d’osservazione» (24); «Galileo il ciarlatano è un personaggio molto più interessante del misurato ‘ricercatore della verità’ che di solito ci viene additato come esempio da riverire. Infine, solo attraverso giochi di prestigio come questi in tale periodo particolare si poteva far progredire la scienza» (89).

La necessità di un pluralismo metodologico è motivata da numerosi altri fattori. Tra questi, la stretta relazione tra le leggi e i protocolli scientifici e i diversi linguaggi naturali dentro cui leggi e protocolli germinano e dai quali sono resi possibili non come semplice veicolo di conoscenza ma come condizioni stesse di tali conoscenze; circostanza la quale fa sì che non esista alcun linguaggio neutro e universale di osservazione e di interpretazione/resoconto dei dati osservativi ma ogni osservazione abbia senso e formuli i suoi risultati soltanto all’interno di un linguaggio dato, sia esso naturale sia esso scientifico. La questione dell’etere costituisce un caso piuttosto chiaro: «Si dice per esempio che l’esperimento di Michelson e Morley, la variazione della massa delle particelle elementari, l’effetto Doppler trasversale, confutano la meccanica classica e confermano la relatività. […] Se adottiamo il punto di vista della relatività, troviamo che gli esperimenti, che ovviamente saranno descritti ora in termini relativistici, usando le nozioni relativistiche di lunghezza, durata, massa, velocità ecc., sono rilevanti per la teoria, e troviamo anche che sostengono la teoria» (234-235).

In generale, i risultati di un’osservazione vengono espressi e comunicati con i termini e nel linguaggio della teoria che si vuole con essi dimostrare e difendere, quindi in un’altra lingua rispetto a quella delle osservazioni e teorie rivali. Si tratta per Feyerabend di una vera e propria fede linguistica che «non ha perciò alcuna rilevanza obiettiva» e che «continua a esistere esclusivamente come il risultato dello sforzo della comunità dei credenti e dei loro capi, siano questi preti o premi Nobel. È questo, secondo me, l’argomento più decisivo contro qualsiasi metodo, empirico o no, che incoraggi l’uniformità. Qualsiasi metodo del genere è, in ultima analisi, un metodo di inganno. […] Per concludere: l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (38-39).
Ne segue che quello scientifico sia soltanto uno tra i più fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare troppo potente, esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. Come ogni fatto umano, anche la scienza è soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Essenziale è però che la scienza non si presenti nelle forme colonialiste che hanno caratterizzato alcune delle sue fasi storiche e sulle quali l’analisi di Feyerabend è molto netta:

La scienza moderna schiacciò i suoi oppositori, non li convinse. La scienza si impose con la forza, non col ragionamento (ciò vale particolarmente nel caso delle ex colonie, nelle quali la scienza e la religione dell’amore fraterno furono introdotte come cosa ovvia, e senza consultarne gli abitanti o discutere con essi la cosa). Oggi ci rendiamo conto che il razionalismo, essendo legato alla scienze, non può darci alcun aiuto nel problema dei rapporti fra scienza e mito e sappiamo anche, da investigazioni di genere completamente diverso, che i miti sono molto migliori di quanto i razionalisti non abbiano osato ammettere. Così noi siamo oggi costretti a sollevare il problema dell’eccellenza della scienza […]
Le tribù non vengono soppresse solo fisicamente ma perdono anche la loro indipendenza intellettuale e sono costrette ad adottare la religione assetata di sangue dell’amore fraterno: il cristianesimo. […] La libertà viene recuperata, vecchie tradizioni sono riscoperte, sia fra le minoranze in paesi occidentali sia fra estese popolazioni in continenti non occidentali. Ma la scienza regna ancora sovrana. Essa regna sovrana perché coloro che la praticano sono incapaci di comprendere, e non disposti ad ammettere, ideologie diverse, perché hanno il potere di imporre i loro desideri, e perché usano questo potere esattamente come i loro predecessori usarono il loro potere per imporre il cristianesimo ai popoli in cui si imbatterono nel corso delle loro conquiste (241-243).

Alla luce di tutto questo, la proposta dell’epistemologo anarchico è di affrancare anche la scienza dal principio di auctoritas, come dovrebbe essere nella sua stessa natura, e separare quindi stato e scienza come sono state separate nell’Europa moderna stato e chiesa. Proposta che costituisce il lungo titolo (come tutti gli altri) del diciottesimo e ultimo capitolo:

La scienza è quindi molto più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere. Essa è una fra le molte forme di pensiero che sono state sviluppate dall’uomo, e non necessariamente la migliore. È vistosa, rumorosa e impudente, ma è intrinsecamente superiore solo per coloro che hanno già deciso a favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché l’accettazione e il rifiuto di ideologie dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di stato e chiesa dovrebbe essere integrata dalla separazione di stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa. Una tale separazione potrebbe essere la nostra unica possibilità di conseguire un’umanità di cui siamo capaci, ma che non abbiamo mai realizzato compiutamente (240).

Una proposta politico-epistemologica così forte si inserisce all’interno di un’analisi – che percorre tutto il libro e gli dà senso – di ciò che chiamiamo scienza e ciò che definiamo non scienza, le quali devono convivere, collaborare, intersecarsi e interagire a favore di un progresso dell’umanità che sia libero dagli schematismi cronologici dell’idealismo e del positivismo, i quali identificano il dopo con il meglio. In realtà, «in tutti i tempi l’uomo si accostò al suo ambiente con i sensi aperti e un’intelligenza feconda, in tutti i tempi fece scoperte incredibili, in tutti i tempi noi possiamo apprendere dalle sue idee» (250).
Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere. L’astronomia e la dinamica moderne, ad esempio, «non avrebbero potuto progredire senza quest’uso scientifico di idee antidiluviane. […] Innovatori come Paracelso tornarono a idee anteriori e migliorarono la medicina. Dovunque la scienza si arricchisce con metodi non scientifici e con risultati non scientifici, mentre procedimenti che sono stati spesso considerati parti essenziali della scienza vengono tacitamente sospesi o aggirati» (248-249). Ed è per questo che «anche oggi la scienza può e deve trarre profitto da una mescolanza con ingredienti ascientifici» (249).
La separazione del campo epistemologico in elementi tra di loro irriducibili o in insuperabile conflitto rappresenta un ostacolo al progresso della conoscenza: «se desideriamo comprendere la natura, se vogliamo padroneggiare il nostro ambiente fisico, dobbiamo usare tutte le idee, tutti i metodi e non soltanto una piccola scelta di essi. L’affermazione che non c’è conoscenza fuori della scienza – extra scientiam nulla salus – non è altro che un’altra favola molto conveniente» (249).
Si può dunque dire che come la familiarità con l’idea cristiana di verità costrinse Nietzsche a mettere in discussione la verità del cristianesimo, allo stesso modo l’esigenza di rigore della scienza conduce Feyerabend a demistificare la scienza e ad affermare che «c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene» (25). Qualsiasi cosa serva ad ampliare la conoscenza dell’intricato enigma che il mondo sempre rimane e indagare il quale senza illusioni, chiusure, dogmi costituisce lo statuto e l’obiettivo stesso delle scienze.

[Dedico questo testo ai giornalisti ignoranti, alle miserabili virostar televisive, ai presidi e rettori burocrati, ai politici sadici e deliranti che hanno tentato di imporre il totalitarismo sanitario in nome di qualcosa che dichiaravano essere ‘scienza’ e che invece, come si vede, della scienza rappresenta l’opposto, costituendo piuttosto un’infame pratica oscurantista e autoritaria]

Ignoranza e sottomissione

Il CUdA è la struttura di coordinamento dei docenti dell’Ateneo di Catania. Tra i suoi strumenti vi è una lista di discussione piuttosto vivace. Lo scorso 3 aprile il collega Attilio Scuderi vi ha pubblicato la seguente lettera:

«Care e cari,
cito da Repubblica.it

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Ed è sull’università che il ministro [Giannini] annuncia la novità: «Toglieremo l’università dal regime contrattuale della funzione pubblica e costruiremo un contratto proprio. L’università e la ricerca hanno regole specifiche e obiettivi specifici che non sono esattamente quelli del pubblico impiego. Riuscire ad arrivare a un obiettivo del genere sarebbe veramente un grande traguardo”. E si deve avviare una riflessione sul ringiovanimento degli atenei e il reclutamento accademico. “Questo sarà un anno costituente per l’università, come è stato per la scuola. Ricordo che abbiamo liberato garantito 1200 nuovi posti da ricercatore nel biennio, ma ci vuole uno sforzo in più. Sui precari dell’università si deve fare una riflessione più economica, perché sono numeri diversi rispetto alla scuola, ma anche più lungimirante per quanto riguarda la comparazione necessaria con il contesto internazionale. Chi fa ricerca non la fa in Italia, la fa in uno spazio europeo destinato a essere sempre più omogeneo e interscambiabile».
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Lascio valutare a voi cosa questo significhi o possa significare; e quanto possa essere significativa, di contro, la cifra di 1200 rtd [Ricercatori a tempo determinato] a fronte di 10.000 pensionamenti. Certo è singolare questo superamento del  ‘vecchio’ pubblico impiego verso ‘nuove forme contrattuali’…»

Questa è stata la mia risposta:
«Caro Attilio,
è evidente che si tratta di un altro passo -forse definitivo- verso la realizzazione di un progetto da anni tenacemente perseguito: la trasformazione dell’Università da struttura scientifico-didattica a struttura aziendale. Basta aver seguito con un po’ di costanza le attività della Confindustria negli ultimi quindici anni in questo ambito -in particolare i suoi rapporti con il Miur- per rendersene facilmente conto.
È una tendenza in atto dal cosiddetto Processo di Bologna iniziato nel 1999 e voluto con entusiasmo da Luigi Berlinguer. In tutto questo la Confindustria ha goduto del sostegno convinto degli eredi del Partito Comunista Italiano. Le ragioni di tale comportamento possono essere numerose e diverse:

  • un tipico senso di colpa che ha fatto transitare costoro dallo statalismo di marca sovietica al più sfrenato liberismo;
  • i vantaggi in termini personali (carriere, finanziamenti e altro) impliciti in una simile alleanza;
  • il seguire lo ‘spirito del tempo’;
  • l’abituale conformismo.

SpesaIstruzioneTerziariaItalyIl risultato è quello indicato dal grafico che allego (tratto da un breve articolo odierno di Roars). E soprattutto il risultato è quanto tutti noi -docenti e studenti- viviamo ogni giorno, ormai da anni. Per quanto riguarda, infine, gli ‘eredi del PCI’, essi non esistono più. Si sono distrutti da soli, affidando quello che rimaneva del loro partito a un democristiano e ai suoi legami (palesi e nascosti). È il caso, pressoché unico, di un partito che si spiaggia e muore per restituire vita alla ‘Balena Bianca’, al peggio della vecchia Democrazia Cristiana. Riposino in pace. Il dramma è che questi zombie cercano di afferrarci nel loro morire».

La conferma che il Partito Democratico è un assemblaggio di bande criminali, dedite a difendere i privilegi delle peggiori strutture sociali, sta in un fatto assai grave: dal prossimo anno infatti i corsi universitari potranno essere tenuti in piedi da docenti precari e non selezionati, i quali non potranno offrire alcuna garanzia scientifica e didattica ma che avranno il pregio di non essere assunti e di venire pagati poche migliaia di euro all’anno (sì, all’anno). Roars li chiama, giustamente, «non docenti di riferimento». E perché si è arrivati a questo? Soprattutto per garantire la sopravvivenza delle cosiddette ‘università telematiche’, dei diplomifici di infimo livello, presso i quali è possibile, in pratica, comprarsi le lauree. Mantenendo i criteri stabiliti dalla legge -numero minimo di docenti strutturati [di ruolo], numero minimo di docenti ordinari- molte di queste ‘università’ avrebbero dovuto chiudere. Ma la loro capacità di lobbying deve essere assai convincente -e con argomenti concreti- tanto da aver sconfitto persino l’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione della ricerca che è ultrasevera nei confronti delle Università pubbliche e che però ha dovuto cedere di fronte all’influenza che le finte università esercitano sui parlamentari della maggioranza di governo, sul governo stesso e sui partiti che lo sostengono.

Giuseppe De Nicolao giustamente si chiede: «Che legittimità resta all’ANVUR, se non riesce ad imporre un livello minimo neppure alla “zona franca” delle telematiche? Se Fantoni [presidente dell’Anvur] fosse coerente con la sua intervista a Repubblica (titolo: “Lauree facili non fidatevi degli atenei web”), dovrebbe dare le dimissioni in segno di protesta nei confronti del Ministro che lo ha clamorosamente sconfessato. Altrimenti, sembra che tutta la retorica del rigore e della meritocrazia sia solo un pretesto per dismettere l’università pubblica» (Telematiche contro ANVUR: 1-0 e palla al centro, Roars, 8.4.2015).
Questa è la non-università voluta dal governo del Partito Democratico-Nuovo Centrodestra. Per un’Italia senza ricerca. Per un’Italia senza futuro. Per un’Italia sempre più ignorante. E quindi più facilmente sottomessa.

Ignoranza e altri crimini

Mente & cervello 100 – aprile 2013

Il terremoto che il 6 aprile del 2009 colpì l’antica e splendida città dell’Aquila fu forse -nonostante i 308 morti e i 1600 feriti- il minore dei mali che da allora si sono riversati su quella terra. La catastrofe foriera di angoscia, di perdita dell’identità storica, di gravi sindromi tra i quali la depressione, è arrivata dopo ed è stata portata non dalla Terra e dalla sua energia ma dai potenti e dalla loro ignorante avidità.
È quanto emerge con chiarezza da un’inchiesta di Mente & cervello dal titolo «Il terremoto dell’anima». Si accenna alla corruzione profonda che guidò le scelte del governo Berlusconi e della Protezione civile in mano ai suoi complici. Al di là della stessa corruzione fu -ed è- una profonda ignoranza antropologica e filosofica a ispirare i delitti di costoro. Ignoranza del fatto che «una città, e tanto più una città italiana, con una storia millenaria, non è solo un luogo dove le persone abitano. È un luogo dove le persone vivono» (M. Cattaneo, p. 3). E invece le fredde e artificiali New Town sono «non luoghi, spazi replicati a cui non si riesce a dare significato» (R. Salvadorini, 32). Soltanto un’ideologia politicotelevisiva come quella di Berlusconi poteva scambiare il gelo di una scenografia pubblicitaria -la New Town appunto- con il calore dei luoghi dove si stratifica la vita. La decisione di non ricostruire subito il centro dell’Aquila deportando invece i suoi abitanti in tali non luoghi è uno dei più gravi crimini dei governi berlusconiani. Ma non è bastato neppure questo: la menzogna televisiva -sempre guidata dallo stesso soggetto- si è accanita a produrre quello che lo psicoterapeuta Massimo Giuliani ha definito il trauma mediatico, vale a dire «la negazione degli eventi e della sofferenza. A partire dalla frase di Berlusconi che invitava a prendere le tendopoli come una “vacanza in campeggio”. Un invito a non credere alle proprie percezioni. […] Quando in certe trasmissioni si sentiva dire che gli aquilani stavano bene, molti vivevano l’ingiustizia di vedere negato il proprio disagio concreto; così quello che è successo all’Aquila ha fatto sentire molte persone violentate nella propria sofferenza. […] Perché non c’è niente di peggio che raccontare bugie sul dolore delle persone». E quindi è adesso necessaria la «ricostruzione dei luoghi, dello spazio e di una “saldatura” del tempo» (Id., 33).

A quanti -siano essi fisici o metafisici- si ostinano a negare l’esistenza e la pervasività del tempo risponde la realtà stessa dei loro cervelli, i cui neuroni hanno bisogno di un continuo dinamismo spaziotemporale anche soltanto per continuare a percepire suoni, colori, immagini, odori, sapori.  Quegli odori e quei sapori dei quali «il neuroscienziato Proust» (così lo definisce Jonah Lehrer nel titolo di un suo libro) era perfettamente consapevole. Un articolo di Daniela Ovadia riassume la fisicità del tempo proustiano, la potenza della memoria corporea sulla quale è edificata l’intera Recherche, la scoperta che i ricordi sono continuamente riscritti dalla condizione presente in vista degli obiettivi futuri, la consapevolezza che il tempo è anche tutto questo poiché a essere corporea è la vita.
«Per diventare stabili, i ricordi devono creare nuove sinapsi e ogni rievocazione ne modifica la struttura biologica, consolidando i legami tra alcuni neuroni e rimuovendone altri. Ecco perché ciò che ricordiamo è fallace e contiene sempre una quantità più o meno grande di “invenzione”, una situazione che Proust, terrorizzato dall’idea di perdere tracce di sé, aveva già magistralmente descritto nella sua opera» (45).
Il corpomente intriso di memorie e di attese, il corpomente fatto di tempo, è sempre stato il vero obiettivo anche di coloro che dicono di dedicarsi all’“anima”. Il Museo laboratorio della mente, allestito a Roma nell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà, mostra ancora una volta come ogni potere sia un biopotere. Nei suoi spazi si fa evidente «come l’istituzione prenda possesso del corpo, l’ultima cosa che davvero apparteneva al paziente e lo distingueva dagli altri» (G. Sabato, 85-86).
È quanto testimoniano anche il celebre esperimento che Stanley Milgram condusse nel 1963 -a partire dal caso Eichmann- e che trasformò dei semplici volontari in aguzzini di altre persone soltanto perché qualcuno in camice bianco ordinava loro di trasmettere delle scariche elettriche “in nome della scienza”. (D. Ovadia, 66 e sgg.).
Lo testimonia la persistenza di una pratica come la vivisezione, ormai tenuta in piedi soltanto per ragioni finanziarie e non scientifiche, tanto che persino Steven Hyman, già direttore del National Institut of Mental Health (NIMH) e ora docente ad Harward, sostiene che «i ricercatori e le autorità dovranno trovare il coraggio di saltare la sperimentazione animale, che rischia di essere fuorviante» (intervista di G. Sabato, 39). Che si tratti di una pratica tanto feroce quanto insensata è dimostrato da un “esperimento” di questo genere: «Come modello della depressione si prendono topi appesi per la coda o messi in un recipiente d’acqua e si misura quanto tempo impiegano a smettere di dimenarsi, segno che ormai sono “disperati”. Ovviamente il test non riproduce le tante manifestazioni e meccanismi biologici della depressione. Ma l’imipramina, uno dei primi antidepressivi, prolunga il tempo per cui i topi lottano, e questa capacità di “contrastare la disperazione” è presa a segno dell’efficacia. […] Questi studi non hanno aggiunto nulla alla comprensione della patologia depressiva. In questo caso del resto neanche la biologia del fenomeno è rispecchiata: i test nei roditori individuano composti che agiscono dopo un’unica somministrazione, mentre l’umore dei depressi migliora solo dopo settimane d’uso» (36).
Ci sono tanti modi di essere ignoranti ma gli effetti sono sempre criminali. Su questo Socrate aveva ragione.

Filologia della corruzione

Il 13 dicembre 2011 Valter Lavitola scrive da Rio de Janeiro una lettera a Silvio Berlusconi. Missiva nella quale elenca i favori fatti all’allora presidente del consiglio, piange per la condizione di latitante alla quale è ridotto, deplora le tante promesse nei suoi confronti che Berlusconi non ha mantenuto, chiede somme altissime “in prestito” e assunzioni per i suoi familiari e conoscenti, ricorda che anche il loro comune amico Bettino Craxi si sentiva tradito a Hammamet da Berlusconi.
Invito a leggere per intero questo documento che non soltanto conferma come sia stata e continui a essere governata l’Italia; non soltanto mostra l’abisso di corruzione nel quale la coppia Craxi-Berlusconi, con gli innumerevoli complici-amici-servi, ha precipitato la società civile. L’elemento più interessante è per me un altro:  la scrittura. Ecco alcuni esempi, soltanto alcuni:

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Non mia avrebbe più parlato (p. 1)
Ho rischiato d’avvero (p. 1)
Da dove erano arrivate le pressione per il vergognoso arresto (p. 2)
Alle precedenti pressi da solo 54.000 firme (p. 3)
Tutte somme non concordate con lei […] e che quindi non voglio essere restituito (p. 5)
Le aberanti accuse a me mosse (p. 7)
Glielo puo chiedere (p. 8 )
Un amico che si sente tradito, abandonato (p. 8 )
La prego di aver chiaro che si trata (p. 10)
Il clamore della vicenda giudizziaria (p. 12)
Tranne che per le assunzione (p. 15)
Non posso accedere ne a banche, ne a cassette di sicurezza (p. 15)
Le ho fatto pervenire questa lettera sigilata (p. 16; il “sigilata” è ripetuto anche a p. 17)
Mi raggiungerano per le festività (p. 17)
Entrambe, se lo riterà, possono fatturare (p. 17)
Verà a riferirmi in carcere (p. 18)

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Così scrive un “giornalista”, così scrive il direttore dell’Avanti! -quotidiano del Partito Socialista Italiano-, così scrive un amico e sodale del Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana. L’orrore per la scrittura violentata diventa vergogna per l’essere italiani, per i milioni di italiani che non soltanto votano per Berlusconi ma hanno creduto e continuano a credere in Berlusconi. La lettera di Lavitola si conclude, tra l’altro, con queste parole: «Mi scusi per la ineleganza, che come sa normalmente non mi appartiene» (p. 19). E così l’analfabetismo diventa persino grottesco. Aveva ragione Socrate: ogni male deriva dall’ignoranza. Oltre che essere corrotti nella sostanza stessa del loro essere, tali soggetti sono di un’ignoranza irredimibile. Per questo sono così rivoltanti.

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