Dire umanità, fratellanza, solidarietà come se l’umano non avesse elementi biologici, come se non fosse un corpo, come se non condividesse con gli altri mammiferi anche l’aggressività, il territorio, l’identità di gruppo; usare così le parole e i valori, significa fare ciò che con lucidità il marxismo definisce ideologia, vale a dire utilizzare il linguaggio come maschera della realtà, come nascondimento di ciò che accade.
Risulta ad esempio ideologico l’utilizzo politico -e non semplicemente morale- che l’attuale Pontefice Romano fa di tali e altre parole. Proclamando infatti che siamo tutti fratelli, «Francesco aderisce a una concezione completamente irrealistica dei rapporti sociali. […] Crede che la politica si riduca alla morale, che a sua volta si riduce all’ ‘amore’» (Alain de Benoist, Diorama Letterario, n. 359, gennaio-febbraio 2021, p. 4). Il risultato di questi atteggiamenti è sempre contraddittorio: non si può infatti reclamare un mondo totalmente aperto e poi criticare, come pure giustamente Bergoglio fa, la logica del capitalismo, la quale costituisce la massima apertura possibile poiché, sin dal fisiocratico «laisser faire, laisser passer», niente è più aperto dei mercati, che non hanno mai avuto ‘patria’ e oggi davvero non conoscono confini, vista la loro metamorfosi digitale. In tali contraddizioni opera ancora una volta la logica monoteistica della reductio ad unum: «La sua ‘fraternità universale’ non è altro, di fatto, che un pio desiderio privo di senso, sotteso dall’ossessione dell’unico, della fusione, della scomparsa di tutto ciò che separa e dunque distingue» (Id., p. 5).
In realtà posizioni come queste -che siano espresse o meno in buona fede non conta- manifestano una delle caratteristiche più evidenti ma meno notate della società contemporanea: la proporzionalità tra il moltiplicarsi di un linguaggio compassionevole e il crescere della ferocia collettiva. Il veicolo principale e assai efficiente di questo duplice incedere è l’informazione, sia quella nuova dei Social Network sia quella tradizionale della stampa e della televisione, sempre più al traino della prima. Infatti «non soltanto i media hanno quasi abbandonato qualunque velleità di resistenza all’ideologia dominante, ma ne sono diventati i principali vettori» (Id., p. 7).
L’operare dell’informazione al completo servizio delle autorità è mostrata in questi anni in modo clamoroso dalla vicenda dell’epidemia. Se infatti è evidente che un virus esiste e colpisce -come è accaduto da sempre e sempre accadrà- è altrettanto chiaro come sia stato «facile, per le élites al potere, strumentalizzare queste circostanze a proprio profitto per colpire le libertà. Negli Stati Uniti, il Patriot Act è stato adottato per contrastare il terrorismo, dopo di che è servito a tenere al guinzaglio l’intera popolazione. Le leggi eccezionali finiscono per entrare nel diritto comune, cosicché l’eccezione diventa la regola» (Id., p. 10). Davvero
mai censura è stata più perfetta. Mai l’opinione di quelli cui si fa ancora credere, in certi paesi, che sono rimasti cittadini liberi, è stata meno autorizzata a manifestarsi, ogni volta che si tratta di una scelta che coinvolgerà la loro vita reale. Mai è stato permesso di mentire loro con una così perfetta assenza di conseguenze. Si presume semplicemente che lo spettatore ignori tutto e non meriti nulla
(Guy Debord, Commentari alla Società dello Spettacolo, § VIII; Baldini & Castoldi 2008, p. 203, con delle modifiche nella traduzione).
Il risultato è anche ciò che Michel Desmurget ha definito con il titolo Il cretino digitale (Rizzoli, 2020) e che prima ancora aveva descritto come TV Lobotomie. La vérité scientifique sur les effets de la télévision (J’ai Lu, 2013). Desmurget è infatti un neuroscienziato (direttore di ricerca del Cnrs francese), il quale «vede in opera meglio di chiunque altro la decerebrazione di massa operata sui giovani cervelli in fase di sviluppo e, disgustato, scortica metodicamente questo infanticidio planetario che non osa dichiararsi tale» (Jean-Henri d’Avirac, p. 39).
D’Avirac continua la sua presentazione del libro affermando che «ridurre un giovane cittadino allo stato di semplice consumatore sommerso da segni e immagini, il cervello impantanato nella dopamina, ridotto fin dalla più giovane età alla dipendenza dallo schermo, dal porno, dalla moda, è una pacchia per il sistema, la cui ossessione è togliere i freni al consumo, sospendere il senso critico e la nostra capacità di stabilire delle gerarchie. […] La lobotomia è molto più efficace della repressione» (Id. p. 40).
Rivolgendosi ai genitori, Desmurget scrive: «I vostri figli vi ringrazieranno per aver offerto alla loro esistenza la fertilità liberatrice dello sport, del pensiero e della cultura, invece della perniciosa sterilità degli schermi» (cit. a p. 40).
E invece le istituzioni educative -comprese quelle italiane- sono state pronte a gettare in braccio agli schermi gli studenti di ogni ordine e grado. Non si è trattato di una soluzione ma dell’aggravarsi di un problema, il problema -appunto- della idiozia digitale. Se scuole e università hanno potuto chiudere con tanta immediatezza e facilità le loro porte agli studenti -studenti senza i quali scuole e università non hanno ragione di esistere- è perché strumenti e apparati erano già pronti a sostituire la relazione educativa con degli ologrammi disincarnati. Senza questi software sarebbe stato inconcepibile chiudere per mesi o per anni le scuole e le università. Sono dunque le piattaforme MSTeams, Zoom e altre analoghe ad aver causato un processo di impoverimento didattico e culturale che probabilmente è solo agli inizi. La cosiddetta DAD, che meglio si dovrebbe definire didattica d’emergenza, è -in questa prospettiva- l’incipit della barbarie pedagogica. E questo perché ‘insegnare a distanza’ è una contraddizione in termini, perché ‘apprendere a distanza’ è una delle caratteristiche dell’idiota digitale che si vorrebbe tutti noi diventassimo: «La DAD diventa, così, un mirabile esempio di neolingua chiamata a sovvertire la realtà e ad ipotecare pesantemente il futuro dell’istituzione» (Fernanda Mazzoli, La scuola ai tempi del Covid: prove generali di colonizzazione digitale, in «Koinè», anno XXVII, 2020, p. 16).
La didattica del vuoto ha come orizzonte fondativo e come prospettiva futura ciò che Renato Curcio chiama il maestro vuoto, la cui
video-lezione, come lezione spettrale, appiattisce quest’ultima sulla mera trasmissione di nozioni, avvicinandola così a quel sapere procedurale messo in campo dalle nuove tecnologie assai più di quanto non possa farlo la lezione in presenza, la tanto attaccata lezione frontale che permette la lenta e dialogata costruzione delle conoscenze (e dei significati) a partire dalla sollecitazione ineludibile posta dal volto dell’altro e dall’instancabile attesa -carica di tutte le sfumature di un volto umano- che ne promana (Id., p. 40).
Un maestro vuoto atto a sostituire la persona viva e socratica di colui che alla relazione pedagogica -e di conseguenza al fatto educativo- dà voce, volto, pienezza. Il maestro vuoto è il coach della palestra dell’ignoranza e della conseguente obbedienza collettiva.
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