Catherine Balet / Navigare nella nostra solitudine
in
Gente di fotografia
Anno XIX, n. 57, inverno 2013
Pagine 8-15
Catherine Balet / Navigare nella nostra solitudine
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Gente di fotografia
Anno XIX, n. 57, inverno 2013
Pagine 8-15
Siamo ricordi che camminano nello spaziotempo. I ricordi però non descrivono l’accaduto bensì come l’accaduto appare di volta in volta alla nostra mente. La memoria, infatti, è un processo dinamico: «Rievocare un ricordo lo riporta temporaneamente in una condizione di instabilità, in cui la ricerca può essere arricchita, modificata o addirittura cancellata» (A. Piore, p. 86). Ogni volta che ricordiamo un evento esso si modifica un poco nella nostra mente. Questa caratteristica della memoria rende per principio possibile la cancellazione dei ricordi traumatici, eventualità resa in modo assai chiaro e intrigante nel bel film di Michel Gondry Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004). E tuttavia Paul Root Wolpe afferma giustamente che «“La memoria, i ricordi, sono una parte fondamentale della nostra natura. Perciò dobbiamo andare davvero cauti prima di modificarli o cancellarli” […] Wolpe teme, inoltre, che alcune persone spinte da loschi motivi facciano abuso di una medicina che induce altre persone a dimenticare» (Id., 93).
Come sempre, nulla ha un solo aspetto nella vita degli umani. Le possibilità sempre più praticabili di ibridazione tra il corpomente e le strutture artificiali possono migliorare le nostre facoltà di percezione e di attenzione ma possono anche costituire una via per progettare e realizzare dei soldati-macchine, privi di paura, di sensibilità e di memoria, un incrocio tra il biologico e il macchinico sempre pronto allo sterminio [ne parla D. Ovadia in questo numero di Mente & cervello].
La nostra dotazione naturale è vasta ma non è illimitata. Ce ne accorgiamo ogni giorno con i comportamenti multitasking, quelli che ci inducono a fare cose diverse nello stesso momento. In realtà, molte ricerche indicano «che un multitasking troppo frequente porta a prestazioni peggiori» (D.L. Strayer e J.M. Watson, 48) come nel caso, tanto frequente quanto pericoloso, di chi guida e insieme parla al telefono: «in coloro che guidavano parlando al cellulare o inviando sms il rischio d’incidente era spesso superiore addirittura a quello osservato nei guidatori al limite legale del tasso alcolico nel sangue» (Id., 51).
Siamo animali complessi, siamo colonie di animali, come quelli che a miliardi abitano la nostra pancia, i microrganismi che ci aiutano a digerire e ci proteggono da sostanze dannose: «le conoscenze più recenti ci confermano fino a che punto corpo e mente sono collegati. Anche i miliardi di microrganismi che ospitiamo dentro di noi hanno un posto stabile in questo sistema e potrebbero contribuire a risistemare una mente che aveva perso il suo equilibrio» (S. Reinberger, 39).
Marco Cattaneo, direttore di Mente & cervello, sostiene che Feuerbach aveva ragione a «predicare l’inscindibile unità tra psiche e corpo, per cui per pensare meglio dobbiamo alimentarci meglio» (3). Un’unità che fa sì che dei maschi eterosessuali provino piacere se pensano che ad accarezzarli siano delle femmine oppure provino fastidio se ritengono che a toccarli siano altri maschi, anche se le carezze -senza che loro lo sappiano- provengono sempre da una donna: «I partecipanti potevano vedere chi li toccava solo su uno schermo, e l’immagine condizionava le loro reazioni: quando vedevano una donna giudicavano la carezza piacevole, il contrario se nello schermo appariva un uomo. Eppure, le carezze venivano sempre fatte da una donna. […] Non è vero che ci sono circuiti cerebrali separati per l’elaborazione delle proprietà fisiche del tocco e per la sua interpretazione emotiva- spiega Michael Spezio- la corteccia somatosensoriale è sensibile anche al significato sociale delle carezze» (M. Saporiti, 24).
Nell’unità dinamica e molteplice che siamo ogni evento è legato a tutti gli altri. Antichi avvenimenti ci seguono per anni e determinano le nostre reazioni a fatti e persone del tutto nuovi. Così un «eccessivo senso di colpa», che magari affonda nella nostra infanzia, «e l’autobiasimo avrebbero un ruolo chiave nella depressione» (C. Visco, 23). Ma tutto è molto più complesso di quanto appaia anche agli schemi psicologici e neurologici. Un uomo tra i più famosi al mondo –Mozart– visse l’ultimo suo anno di vita, il 1791, intrecciando «insieme gloria e disonore, vergogna e opere musicali immortali» (V. Andreoli, 17).
Siamo uno -Identità- ma siamo anche tanti -Differenza-, disseminati nello spazio e nel tempo.
La pelle che abito
di Pedro Almódovar
(La piel que habito)
Con: Antonio Banderas (Robert Ledgard), Elena Anaya (Vera), Marisa Paredes (Marilla), Jan Cornet (Vicente), Blanca Suárez (Norma)
Spagna, 2011
Trailer del film
Robert è un chirurgo plastico che tiene prigioniera una sua paziente alla quale trapianta a poco a poco una pelle nuova e resistente, un volto bello e morbido. Anni prima aveva perso la moglie, uscita sfigurata da un incidente d’auto e morta suicida perché incapace di reggere la tragedia. La figlia l’aveva vista morire e soffre a sua volta di gravi turbe psichiche. Ma è nella enigmatica figura della paziente prigioniera che tutto trova spiegazione.
Il film non è così tragico come questo breve riassunto potrebbe far pensare. A volte, anzi, muove al riso per una sceneggiatura non proprio all’altezza. È, poi, una sorta di psico-horror nel quale i temi dell’identità, del corpo e dell’ibridazione vengono affrontati in modo spesso dilettantesco. Certo, la cifra di Almódovar è sempre il grottesco ma qui mi sembra che il film si trascini stancamente per due terzi e soltanto nell’ultima mezz’ora riesca a prendere quota, mano a mano che il mistero si svela e i personaggi diventano più profondi e anche -paradossalmente- più veri.
Il linguaggio umano è una facoltà innata, come pensa Chomsky, o è un’acquisizione evolutiva, come sembra ritenere Darwin? In realtà, anche questa dicotomia è troppo rigida e non dà conto della complessità degli eventi. Il biologo cognitivista W.T. Sherman Fitch III -intervistato da D. Ovadia- ritiene che la struttura linguistica sia fatta di moduli innati che poi il tempo biologico e quello culturale contribuiscono a sviluppare nei modi più ricchi e diversi, non soltanto nell’uomo ma anche -pur se in modi diversissimi- negli altri animali.
Esiste a Torino un museo singolare, dove si viene accolti dallo scheletro del padrone di casa, Cesare Lombroso.
In «Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno»
A cura di Valerio Meattini e Luigi Pastore
Mimesis, Milano 2009
Pagine 91- 109
La decostruzione schopenahueriana e nietzscheana dell’etica dimostra che se per azioni morali si intendono azioni compiute solo per altruismo, allora non esistono azioni morali. Constatazione che ci apparirebbe ovvia se non fossimo permeati di richieste impossibili e innaturali come quelle di alcuni precetti cristiani. Un articolo di D.Ovadia dedicato al “piacere di donare” offre la conferma sperimentale (se ce ne fosse bisogno) di tale banalità: «È evidente che chi dona trae un certo beneficio dal proprio gesto» (pag. 36), non foss’altro la gratificazione per averlo compiuto.