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Antropologie ragusane

Ragusa Foto Festival
XII edizione
Ragusa – Varie sedi
Sino al 30 settembre 2024

Da vari anni Ragusa dedica all’arte fotografica un festival fatto di eventi che durano un fine settimana e di mostre che invece si prolungano per un mese. L’edizione del 2024 ha selezionato le immagini di 13 fotografi. Qui parlerò di quelle che mi sono sembrate più coinvolgenti. I luoghi che ospitano queste immagini sono due antichi e bei palazzi di Ragusa Ibla: Palazzo Cosentini e Palazzo La Rocca, ai quali si aggiungono l’Auditorium dell’ex-chiesa di San Vincenzo Ferreri e, a Ragusa superiore (la città moderna), il Palazzo Garofalo.

Ragusa. Auditorium San Vincenzo Ferreri

Quest’ultimo ospita le opere di Mario Cresci, uno degli artisti più coinvolgenti con il suo portfolio Limen, soglia di passaggio, nel quale le architetture rurali, i muretti a secco, l’archeologia industriale del ragusano – e poi dell’intera Sicilia – diventano una riflessione direi luminosa, al confine tra invenzione, geografia, antropologia. 

Mario Cresci. Torre di pietra

 

 

Mario Cresci. Fornace Penna

Una forte ispirazione antropologica guida anche le immagini che Umberto Coa (a Palazzo Cosentini) ha dedicato agli stadi di calcio di varie piccole città siciliane. Luoghi e strutture che, o vuoti o riempiti da gruppi di ultras di squadre dilettanti, si inseriscono perfettamente nei paesaggi splendidi o nei brutti contesti che fanno loro da sfondo e da contenitore, regalando un significato che va al di là di edifici sportivi  a volte ben tenuti e altre fatiscenti. 

Umberto Coa. Geraci siculo

Di un’antropologia tragica sono testimonianza le immagini di Claire Power (sempre a Palazzo Cosentini). Il titolo è The Mountain e la montagna è il Vesuvio, in particolare la zona di Somma Vesuviana. Gli umani e gli altri animali che la abitano sembrano in qualche modo degradati, dolorosi, spenti. E non a causa di miserie economiche o di disagi sociali ma proprio per la loro insignificanza e abbrutimento rispetto alla selvatichezza e disumanità dello spazio.
Allo spazio, alle strade, agli edifici di molti luoghi del pianeta sono dedicate le foto di Marco Zanta a Palazzo La Rocca. Si intitolano This is the Way it is, occupano soltanto una parete perché stampate in piccolo formato, costituendo in tal modo una antologia e una sinossi di città e luoghi molto diversi tra di loro e accomunati ogni volta dalla particolarissima relazione che nasce tra gli umani e ciò che Heidegger definisce Umsicht «visione ambientale preveggente» e non semplice Sicht, ambiente puramente fisico.

Marco Zanta

Esperimento molto interessante è infine quello di Viola Pantano (anche lei a Palazzo La Rocca). Si intitola Anemos ed è composto dai ‘ritratti’ scattati a dei soggetti subito dopo che sono emersi da una apnea in acqua più o meno lunga (dai 13 secondi al minuto e mezzo circa). Ai volti deformati, liberati, allegri, inquieti che emergono dall’immersione, la fotografa ha attribuito dei titoli che fanno riferimento a sentimenti, sensazioni e ancora una volta a stati d’animo. Quello che vedete qui sotto (emerso dopo 23 secondi) lo ha intitolato Vuoto. A me sembra invece il ritratto di una pienezza. Di una terribile pienezza, il ritratto della Gorgone, 

Viola Pantano, Vuoto / Gorgone

al quale affianco – anche per un confronto – quello assai bello che Viola Pantano ha intitolato Ascolto.

Viola Pantano, Ascolto

L’immagine di apertura raffigura un affresco che si trova sul soffitto di una delle sale di Palazzo Cosentini; visitare il Ragusa Foto Festival è infatti l’occasione anche per godere degli spazi di Ibla, città splendida.

Ibla

La dea Iblea era feconda, una delle grandi Madri che costellano il mito umano alle sue origini. Il terremoto del 1693 costrinse i ragusani a ricostruire la loro città in un luogo diverso e un poco più alto. Separatosi dalla nuova città, l’antico centro vittima del sisma fu chiamato Ragusa inferiore. L’ambiguità dell’aggettivo nella nostra lingua indusse i suoi abitanti a cercare una denominazione più consona alla bellezza di quel luogo. La Madre antica venne in soccorso e Ragusa diventò Ibla.
La topografia a forma di pesce raccoglie intorno a sé il vuoto dei burroni dentro i quali nuota, mentre la coda si spinge verso il nuovo centro. Percorsi gli scalini che dall’anonimato di Ragusa -riscattato da alcune suggestive strade dritte e a perpendicolo tra loro– conducono a Ibla, si apre uno scrigno barocco, fatto di chiese che vorrebbero diventare templi, di conventi, di lastricati che splendono al Sole, di un giardino che percorre l’antica strada verso Giarratana, di circoli di conversazione, di angoli fiocamente illuminati, di resti di edifici medioevali, di squarci stupefatti nel tessuto urbano, di silenzio.
Dentro questo spazio abita anche un teatro che ha nome Donnafugata. Un teatro piccolo, privato, ma di nulla mancante, come si vede dall’immagine che ho avuto la fortuna di scattare. Mentre gli attori e le note scandiscono lo spazio ellittico della finzione, altre verità emergono nelle strade, sotto i balconi dei palazzi fieri. Si chiamano cagnoli e sono i mascheroni che reggono quei balconi dai quali ogni tanto si affaccia una bellezza femminile che sembra venuta da altri amori. Reggono quella bellezza secolare perché sono pietra duttile alla mano, fragile ai venti ma resistente al desiderio. I balconi fatti di cemento crollano invece dopo pochi decenni dalla loro triste nascita seriale.
Alcuni luoghi di questo pianeta vivo e doloroso rimarranno quando dentro i resti delle civiltà umane le foreste, i deserti, le lucertole, gli uccelli avranno riacquistato il loro legittimo diritto alla potenza.
Uno di questi luoghi sarà Ibla, il suo cielo, le sue pietre, la sua luce.

νόστος

Il 20 ottobre 2016 ho partecipato a un Convegno organizzato dalla Struttura didattica speciale di Lingue e Letterature straniere dell’Ateneo di Catania. Convegno voluto e introdotto da Nunzio Zago e dedicato ad alcuni Aspetti dell’ulissismo intellettuale dall’Ottocento a oggiLa sede è stata la magnifica città di Ragusa Ibla.
Ho partecipato per quello che sono, un dilettante di letteratura, e ascoltando i colleghi specialisti ho sentito l’orgoglio e l’onore di far parte di una comunità di ricerca umanamente coinvolgente e scientificamente feconda. Ho infatti imparato da tutti. Ricordo alcuni degli interventi, alla fine dei quali ho chiesto ai relatori la loro opinione sulla lettura che Horkheimer e Adorno hanno dato di Ulisse come emblema anche del borghese che persegue lucidamente i propri scopi in una logica utilitaristica. Chiarisco che quanto scrivo qui non costituisce una sintesi delle tesi enunciate dai colleghi ma si tratta soltanto di alcune mie riflessioni che partono dai loro eccellenti contributi.

Andrea Manganaro ha parlato dei personaggi di Verga e della loro corsa verso la morte. Ascoltandolo ho pensato al fatto che Ulisse torna da solo a Itaca, tutti i suoi compagni sono morti. Forse Ulisse è anche il potente di cui parla Canetti, è colui che differisce la propria morte attraverso il morire degli altri, a cominciare dalla distruzione imposta agli abitanti di Ilio.
Antonio Sichera analizzando l’opera di Pavese si è riferito alle motivazioni per le quali Ulisse rifiuta la straordinaria proposta di Calipso di renderlo immortale e sempre giovane, invece che tornare da una moglie umana. Forse il motivo di tale rifiuto sta nel fatto che Ulisse ha compreso l’infelicità di Calipso. La dea non si è conciliata con il tempo. Non il tempo Χρόνος, naturalmente, essendo lei divina, ma il tempo Aἰών. E invece Ulisse con il tempo si è conciliato, è stato capace di fare del futuro -dei propri desideri, ambizioni, aspirazioni- il suo stesso presente.
Fernando Gioviale ha raccontato di D’Arrigo. Non soltanto di Horcynus Orca ma anche dell’ultimo romanzo darrighiano, Cima delle nobildonne, un testo dedicato alla placenta. Anche Giuseppe Traina parlando di Bufalino ha accennato al ritorno all’utero.
Ascoltandoli mi sono ricordato di uno dei più grandi narratori del Novecento, Elsa Morante, forse troppo trascurata. Nell’ultimo suo romanzo, il figlio di Aracoeli si rivolge alla memoria della madre dicendole: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (Aracoeli, Einaudi, 1982, p. 109). Ulisse è forse anche il desiderio del ritorno al luogo nel quale tutto era caldo, liquido, sicuro. Il luogo nel quale ogni voce, contatto, movimento, erano pura luce. Tornare a Itaca la madre, tornare a Itaca la Terra. Tornare all’intero da cui proveniamo.

Forse è anche per questo che Odisseo -come l’Ettore di Foscolo- vivrà «finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane» (Dei Sepolcri, 294-295), vivrà nelle nostre parole, nei nostri studi, nel nostro tendere al luogo da cui proveniamo. Vivrà in quel νόστος che è l’intera esistenza.

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