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Filosofia del linguaggio

Scritture filosofiche del Novecento
in Dialoghi Mediterranei
Numero 49, maggio-giugno 2021
Pagine 38-45

Indice
-Un’«invenzione ammiranda»
-Il Novecento
-Ferdinand de Saussure
-Ludwig Wittgenstein
-Martin Heidegger
-Hans-Georg Gadamer
-Altro Novecento
-La scrittura come dimora
-La scrittura filosofica di Friedrich Nietzsche

Il modo in cui i filosofi intendono il linguaggio contribuisce a determinare le forme in cui essi scrivono. In questo saggio ho cercato di (sinteticamente) ricordare alcuni dei filosofi e dei libri che testimoniano la centralità del linguaggio/scrittura nel Novecento.
Si pratica una lingua e si abita in essa esattamente come si vive un corpo. La lingua non è uno strumento poiché essa è un mondo di significati, di riferimenti, di memorie, di attese. Ritenere che esprimersi in una lingua piuttosto che in un’altra, in uno stile piuttosto che in un altro sia un gesto neutrale è dunque un’ingenuità epistemologica ed esistenziale. È infatti certamente possibile passare da un codice linguistico a un altro ma è chiaro che questo significa cambiare ogni volta l’orizzonte sia concettuale sia esistenziale nel quale siamo immersi.
Linguaggi diversi generano differenti concezioni della realtà e diversi modi di vivere in essa. Pensiero e linguaggio sono espressioni profondamente correlate del corpomente immerso in uno specifico ambiente. Tale ambiente influenza il pensiero che lo conosce, le parole che lo dicono, l’azione che in esso accade. Se è vero che il linguaggio è una funzione innata degli umani, essa ha sempre bisogno di un ambiente sociale che la renda possibile. Bambini che si sono trovati a crescere e a sopravvivere fuori dal consorzio umano, non sanno parlare. E questo conferma la struttura comunitaria del Dasein.
Sarebbe dunque utile e opportuno cogliere la varietà linguistica non come ostacolo – relazionale, scientifico, didattico – ma come occasione per mostrare con l’evidenza e la potenza del testo scritto la ricchezza delle differenze che costituiscono il mondo e in esso la filosofia.
Le scritture filosofiche del Novecento esprimono la millenaria saggezza di Thot: «ὦ βασιλεῦ, τὸ μάθημα,’ ἔφη ὁ Θεύθ,‘σοφωτέρους Αἰγυπτίους καὶμνημονικωτέρους παρέξει: μνήμης τε γὰρ καὶ σοφίας φάρμακον ηὑρέθη», «O sovrano, tale conoscenza renderà gli Egiziani più sapienti e in grado di ricordare meglio, poiché con essa si è trovato il farmaco della memoria e della sapienza» (Platone, Phaedrus 274e).

Imprendibile

«Sotto il segno di Platone», un filosofo imprendibile
il manifesto
13 aprile 2021
pagina 15

Leggere, comprendere, interpretare Platone è uno dei supremi gesti filosofici ed è un atto che non si limita alla filosofia, coinvolgendo la storia e il suo significato. Ma Platone rimane imprendibile. Questo è il dato primo e ultimo al quale ogni lettore del filosofo perviene. Ed è anche per questo che lo studio delle sue opere e della sua figura è interminabile. Perché Platone è molteplice, chiarissimo e labirintico, sirenico e mortale, politico e ontologico.

La libertà e i suoi nemici

In nome dell’epidemia da Sars2, dell’ossessione sanitaria e securitaria, delle lusinghe e delle minacce che le autorità rivolgono al corpo collettivo, «vegetare sta diventando lʼimperativo categorico del Terzo millennio» (Marco Tarchi, Diorama Letterario, n. 358, novembre-dicembre 2020, p. 2). Vegetare non soltanto nel senso di trascinare stancamente il proprio tempo da un ‘seminario online’ (webinar) all’altro, da un ‘abbraccio a distanza’ all’altro, da una sessione di digital labour all’altra, ma anche nel seguire il flusso di una suscettibilità generale per la quale alcune parole non possono essere pronunciate ed è obbligatorio, invece, indignarsi per i fatti sui quali si indignano la stampa, la televisione, i Social Network.
Come in quell’Oceania realizzata che era il sistema sovietico, si delineano due livelli e luoghi diversi del discorso: il linguaggio pubblico che segue i dogmi del Politically Correct (pena come minimo l’ostracismo) e quello privato nel quale a pochi amici di fiducia si parla a partire da ciò che davvero si pensa. Autocensura, insomma, vale a dire uno dei segni più evidenti della mancanza di libertà, come ben sapeva Rosa Luxemburg, per la quale una vera autonomia è sempre «die Freiheit der Andersdenkendend», libertà di pensare in un altro modo rispetto a quello della maggioranza. A schiacciare questa libertà sta provvedendo «una società opaca ed inesorabile, che sottopone tutti ad un controllo totale della propria esistenza. […] Al posto del Grande Fratello del romanzo di Orwell, 1984, sembra esserci, anche e soprattuto nella mentalità, un impersonale termitaio, in cui la singola termite non ubbidisce  a un capo supremo, ma fa quello che deve e non può, né sa né vuole fare altro» (Claudio Magris, Corriere della Sera, 4.8.2020).
Un termitaio paradossale, fatto di individui atomizzati, distanziati, soli, «a un metro di distanza dalla vita» come ha scritto D. Un termitaio nel quale l’identità è dissolta nella differenza individualistica e le differenze sono dissolte in un’identità universale -l’Umanità– che non è mai esistita perché ogni essere umano viene al mondo da due ben precisi genitori, in uno specifico luogo, in un tempo dato, in un contesto culturale/antropico che ha i suoi paesaggi, lingua, vicende, modi di vivere, credenze, simboli. Le «Weapons of Mass Migration», ‘armi di migrazione di massa’ delle quali parla la politologa Kelly Greenhill sono rivolte alla deflagrazione dell’identità/differenza in un indistinto termitaio, appunto
In questo termitaio possono entrare in conflitto l’idea e le pratiche della presunta sacralità della persona da un lato e i diritti di ogni individuo a ottenere ciò che desidera dall’altro; tanto da creare un cortocircuito come quello ricordato da Michel Onfray nel suo Teoria della dittatura, a proposito della «donna del Nebraska», la quale «a sessantuno anni ha messo al mondo una bambina concepita con lo sperma del proprio figlio e l’ovulo della sorella della moglie di quest’ultimo» (Archimede Callaioli, DL, cit., p. 29). Per chi crede che la generazione di un essere umano abbia lo stesso significato biologico e ontologico della generazione di una rana, di un gabbiano, di un gattino, tutto questo può anche costituire una banale conferma del fatto che i viventi vengono concepiti dall’unione di sperma maschile e ovulo femminile e non hanno alcun particolare pregio. Ma per gli altri? Per chi, appunto, crede che l’umano abbia un valore e un significato del tutto diversi? È o no un diritto diventare genitori (se proprio lo si vuole a tutti i costi) anche attingendo a pratiche come quelle esemplate dalla donna del Nebraska? Naief Yehya ha mostrato che per quanto possano all’inizio apparire bioeticamente inaccettabili, pratiche come quella descritta vengono poi lentamente ma inesorabilmente accolte, soprattutto se hanno il sostegno di potenti centri di ricerca, mediante «un’accettazione graduale ma convinta» (Homo cyborg. Il corpo umano tra realtà e fantascienza, elèuthera 2004, pp. 104 e sgg.).
Un termitaio che non tollera l’emergere di intelligenze profonde e non omologate. Quando esse si affermano universalmente, si scatena un impressionante apparato di diffamazione. È il caso di Martin Heidegger, ogni parola del quale – pubblica o privata, metafisica o rettorale – viene dissezionata al microscopio della malignità.
Diversamente invece ci si comporta con altri. Due soli esempi.
Günter Grass (1927-2015) definì Heidegger «cagnaccio presocratico nazista», salvo poi confessare di aver militato nelle «Waffen-SS, come volontario e non coscritto […] ‘Il motivo fu – racconta lo scrittore – comune per quelli della mia generazione, un modo per girare l’angolo e voltare le spalle ai genitori’» (Günter Grass, voce Wikipedia). E quindi questo integerrimo accusatore non soltanto di Heidegger ma di numerosi altri scrittori tedeschi, giustifica la sua adesione alle SS come un modo per ribellarsi ai genitori :-)). Grass è stato difeso dai suoi amici con la motivazione per la quale «il suo passato non avrebbe dovuto compromettere il giudizio sulle sue opere» (Ibidem), motivazione che si tende a non far valere quando l’accusato è Heidegger.
L’altro esempio riguarda Concetto Marchesi (1878-1957), eccellente latinista, maestro di scienza classica, intellettuale organico al PCI di Togliatti, il quale però non soltanto giurò fedeltà al fascismo ma divenne anche, sotto il regime mussoliniano, Accademico dei Lincei, Accademico d’Italia, Rettore dell’Università di Padova. In quest’ultima veste il 9 novembre 1943 tenne un «Discorso di Rettorato» rispetto al quale quello di Heidegger impallidisce, tanto il discorso di Marchesi è intriso di patriottismo e cesarismo (Michele Del Vecchio, DL, cit., pp. 39-40). Discorso che infatti venne applaudito e accolto con entusiasmo dai gerarchi fascisti. Ma a guerra finita Marchesi divenne un intransigente censore dei suoi colleghi e quasi nessuno gli rimproverò nulla.
Questo è il coacervo di contraddizioni, di conformismo e soprattutto di profonda miseria che accomuna molti degli accusatori di Heidegger. Ai quali va però riconosciuto il merito di confermarci nell’onore di  conoscere, leggere e studiare questo filosofo.

Barbari

Epidemie barbariche
in Koinè, anno XXVII – 2020
«Tempi Covid moderni»
pagine 83-101

  • Pdf del saggio
  • Indice del saggio
    -Una premessa politica
    -Didattica distante
    -Spaziotempo
    -Un documento
    -Razionalità e barbarie

Un luogo collettivo dentro il quale la servitù consapevole o istintiva ha dispiegato i propri effetti in modo pervasivo e quotidiano, e continua a farlo, è la didattica. Se scuole e università hanno potuto chiudere con tanta immediatezza e facilità le loro porte agli studenti – studenti senza i quali scuole e università non hanno ragione di esistere – è perché strumenti e apparati erano già pronti a sostituire la relazione educativa con degli ologrammi disincarnati. Senza questi software sarebbe stato inconcepibile chiudere per mesi o per anni le scuole e le università. Sono dunque le piattaforme MS Teams, Zoom e altre analoghe ad aver causato un processo di impoverimento didattico e culturale che forse è solo agli inizi. La cosiddetta DAD, Didattica a distanza, è – in questa prospettiva – l’incipit della barbarie pedagogica. E questo perché ‘insegnare a distanzaè una contraddizione in termini. Corporeità vivente e vissuta è infatti la persona che insegna. Non un insieme astratto di parole, di dati, di informazioni ma un corpo che si confronta con altri corpi in uno spaziotempo condiviso.
In questo saggio ho cercato di argomentare a favore della dimensione corporea dell’insegnamento e della trasmissione culturale, riferendomi al pensiero di La Boétie (Discorso sulla servitù volontaria), Husserl (La crisi delle scienze europee), Heidegger (Essere e tempo) e attingendo a testi e documenti di vari colleghi, della Rete29aprile, di corpi & politica.

Il vuoto

Maurizio Consoli – Alessandro Pluchino
Il vuoto: un enigma tra fisica e metafisica
Aracne Editrice, 2015
Pagine 174

Tra i concetti più antichi, enigmatici, pervasivi del pensare, sempre attuali pur nel mutare delle concezioni fisiche e filosofiche, il vuoto si delinea sempre più come un altro nome dell’essere. Vuoto è infatti la condizione del movimento, del divenire, del tempo. Non soltanto nel banale e semplice senso che qualcosa per muoversi e diventare deve farlo in un elemento libero, spazialmente occupato e temporalmente non ancora compiuto ma anche e soprattutto in un significato assai più radicale, che questo importante libro indaga in una molteplicità di direzioni: dal rigore delle equazioni che intessono un intero capitolo (il settimo) ai riferimenti esatti e costanti alla storia della filosofia e alle tradizioni metafisiche orientali.
Il fecondo paradosso che attraversa tutto il testo è che il vuoto non è ‘vuoto’ ma consiste, usando il linguaggio della fisica contemporanea, nello «stato di minima energia» (p. 166); è il ground state, lo stato fondamentale che riempie uniformemente lo spazio e con il quale alla fine coincide. Il vuoto può dunque essere anche la forma oscura di materia ed energia che non è percepibile o misurabile (almeno con i nostri strumenti) ma che interagisce gravitazionalmente, determinando la struttura stessa della materia, la sua origine, il suo evolversi.
I nomi e le forme che questa potenza del vuoto ha assunto nelle differenti culture, tradizioni e paradigmi sono diversi, radicali e fondanti: l’ἄπειρον di Anassimandro, l’indifferenziato che consente l’esistenza e il dinamismo di tutti gli elementi nel tempo; la materia del Taoismo, dell’Induismo e del Buddhismo, non il mero nulla – anche qui – ma l’unità degli opposti; la χώρα platonica, «un elemento primordiale oscuro, informe ed invisibile» (p. 68); il Sein di Heidegger come trasparenza che fa vedere, attrito che fa muovere, intero che rende possibile la parte.
Un altro nome del vuoto è, infine, l’etere della millenaria tradizione fisica e metafisica, vale a dire la sostanza che pervade tutto l’universo e dentro la quale si muovono i corpi, compresa la luce. È sull’etere che questo libro formula ipotesi e propone interpretazioni di grande significato sia per la storia della scienza sia per l’epistemologia. Dall’indagine condotta in queste pagine emerge infatti come non sia vero che la relatività abbia definitivamente cancellato l’etere. Non soltanto perché, come si disse sin da subito, nella teoria einsteiniana dell’invarianza (o della relatività) l’etere continua a rimanere centrale prendendo il nome di spazio, ma per numerose altre ragioni sia sperimentali sia matematiche.
Lo stesso Einstein fu sulla questione molto più aperto di quanto di solito si pensi. Nel Manoscritto Morgan del 1920 e in una lezione tenuta a Leida  lo stesso anno, affermò infatti che «nel 1905 ero convinto che non fosse più permesso di parlare di etere in fisica. Tuttavia questa opinione era troppo radicale. Secondo la relatività generale, lo spazio è dotato di proprietà fisiche. In questo senso, un etere esiste…Si può perciò dire che l’etere è risuscitato nella teoria della relatività generale, anche se in una forma più sublimata. A differenza della materia ordinaria, esso non è pensabile come composto di particelle che possano essere seguite individualmente nel tempo» (qui citato alle pp. 100-101).
Consoli e Pluchino mostrano in modo documentato che se questa posizione non venne dallo scienziato tedesco ulteriormente sviluppata fu per ragioni che non hanno a che fare con la fisica ma con la sociologia della conoscenza e con la situazione storica della prima metà del Novecento. Di fatto oggi si assiste a un ritorno dell’etere «sotto altre specie, tramite la nozione di un condensato che pervade uniformemente lo spazio e fa da sfondo ai processi fisici osservabili. Peraltro […] il campo di Higgs non  è l’unica forma di etere che viene introdotta» (17).
Il vuoto non è il nulla, l’etere non è il nulla. Vuoto ed etere sono il vacuum condensation, la condensazione del vuoto, tanto che  diversamente «dallo spazio-tempo banalmente vuoto che Einstein aveva in mente nel 1905, il vuoto della fisica di oggi andrebbe piuttosto pensato come permeato da diversi condensati di quanti elementari» (140).
A partire da questa complessa e ricca fondazione epistemologica, Consoli e Pluchino conducono una duplice operazione: interpretano in modo diverso – rispetto alla vulgata – il significato e i limiti degli esperimenti di ottica effettuati da Michelson-Morley nel 1887; analizzano e riproducono tali esperimenti su base matematica. Mostrano in questo modo che i residui di quegli esperimenti – il cui obiettivo consisteva nell’osservare il moto della Terra nell’etere e stimarne la velocità – conducono a un valore di 370 km al secondo, che è esattamente quello confermato dallo studio della Cosmic Microwave Background (CMB, radiazione cosmica di fondo). La loro indagine suggerisce quindi di rivalutare alcuni elementi di quegli esperimenti che risultano compatibili con l’esistenza dell’etere, non riducendoli per intero a errori strumentali ma anzi mostrando che «possono anche essere consistenti con il modello stocastico di ether-drift che abbiamo discusso» (124). Si tratta di un risultato assai fecondo, dato che «riuscire a rivelare in laboratorio un ‘ether-wind’ (vento d’etere) finirebbe con il modificare sostanzialmente il nostro modo di concepire la realtà» (10).
I primi esperimenti di Michelson-Morley, e i numerosi che seguirono nei decenni successivi, se da un lato non diedero i risultati che ci si attendeva per poter confermare l’ipotesi dell’esistenza dell’etere, dall’altro diedero però dei risultati con essa compatibili. Riformulati con metodi matematici, questi risultati «differentemente dall’interpretazione tradizionale, che tende a considerarli come puri effetti strumentali, potrebbero invece acquistare un significato fisico ed indicare un debole flusso di energia, associato al moto cosmico della Terra, che induce correnti convettive in sistemi debolmente legati come i gas ed una conseguente leggera anisotropia della velocità della luce» (140-141). Ricordo che con anisotropia si indica quella proprietà per la quale il valore di una grandezza fisica dipende dalla direzione che il fenomeno studiato assume. Questo implica che un punto di riferimento conta nell’accadere e nei risultati del fenomeno studiato e che quindi siano possibili riferimenti assoluti.
Un altro elemento favorevole a questa ipotesi è una delle più interessanti interpretazioni della meccanica quantistica, vale a dire la teoria dell’onda-pilota di de Broglie-Bohm: «Nella sua formulazione più semplice, vengono introdotte due entità distinte: un corpuscolo materiale localizzabile ed un’onda che lo guida, la funzione d’onda Ψ che compare nell’equazione di Schrödinger. L’onda ha un diretto significato fisico ed andrebbe interpretata come una reale eccitazione di un etere sottostante, cioè del vuoto. Essa viene provocata dal corpuscolo ma, nello stesso tempo, lo ‘pilota’ nel senso che ne determina il momento spaziale P tramite la relazione P = −h∇S, dove S è la fase di Ψ = |Ψ|eiS» (164). In questo modo non soltanto si supera il dualismo onda/particella ma l’etere acquista lo stato di ipotesi ancora ben presente e ben plausibile all’interno della fisica contemporanea, un’ipotesi radicata nell’intera scienza e metafisica, non soltanto europee, e coerente con la meccanica quantistica.
L’etere può costituire l’ἄπειρον come campo/energia nel quale la materiatempo fluisce, si condensa, sta e accade. In termini generali, l’etere può rappresentare lo spaziotempo assoluto la cui esistenza non è affatto esclusa ma anzi è implicata da alcune delle teorie cosmologiche più recenti.
Il fatto che la meccanica quantistica conduca «a una visione della realtà come un tutt’uno profondamente interconnesso» (52) conferma il significato e la fecondità del pensiero greco arcaico, da cui matematica e fisica sono sorte e del quale – come si vede anche in questo libro appassionante – rimangono eredi.

Gli autori del libro – che si può scaricare in pdf – ne hanno scritto un altro, molto più tecnico, pubblicato nel 2018 in lingua inglese con la World Scientific.
Le loro ipotesi sulle relazioni tra l’etere e la radiazione cosmica di fondo erano state anche sintetizzate in forma semplificata e per un più vasto pubblico in un articolo in lingua italiana, inizialmente preso in considerazione da una rivista di divulgazione scientifica ma che poi per varie traversie non è stato pubblicato. Ne pubblico qui il pdf (con le mie evidenziazioni).
Si tratta di pagine che possono aprire un dibattito fecondo, anche nel caso si volesse respingere i loro contenuti. Significativa è la conclusione del testo, che indirizza alla questione della complessità. Se un articolo così fecondo non è stato ancora pubblicato è perché, oltre i meccanismi di censura e rifiuto analizzati magistralmente da Kuhn e Feyerabend, in questi casi agisce anche la consueta antropologia del branco, tesa a respingere i membri della comunità che mostrino troppo coraggio. Un coraggio che rischierebbe di mettere in pericolo l’identità e la forza della comunità stabilita. Insomma, che siano fisici, matematici, filosofi o altro, gli umani rimangono una comunità di primati. È bene che lo sappiano per non incorrere nella ὕβρις antropocentrica. Tanto più apprezzo chi, come Pluchino e Consoli, ha il coraggio e la curiosità di muoversi su territori non dogmatici e realmente scientifici.

[La fotografia raffigura il nostro pianetino, con la Luna che gli gira intorno, come si vede da Saturno;  a una distanza di circa un miliardo e mezzo di km, che corrispondono a 90 minuti luce]

Salvatore Grandone su Animalia

Salvatore Grandone
Recensione a Animalia
in Figure dell’immaginario. Rivista internazionale (gennaio 2021)

«Un testo denso che affronta la questione dell’animale in una prospettiva plurale, ad un tempo ontologica, epistemologica, antropologica e socio-politica. Il lavoro di Alberto Giovanni Biuso prolunga idealmente le riflessioni sviluppate in Tempo e materia, mostrando sul campo come la metafisica del tempo-materia sia un valido strumento per descrivere il mondo della vita. […] Il modo di affrontare la questione del vivente di Biuso si inscrive anche nel solco di un’importante tradizione fenomenologica che supera la visione dell’animale-macchina. Biuso amplia infatti le analisi di Heidegger sviluppate ne I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine. […] D’altra parte non basta denunciare la hybris dell’uomo, che nella sua foga tecnocratica riduce la natura a mero serbatoio di risorse; occorre comprenderne le ragioni. Con grande lucidità, e senza cadere nella facile retorica animalista, Biuso mostra le radici antropologiche e biologiche della violenza umana nei confronti degli animali».

Il Prof. Grandone mi ha chiesto un’intervista sul libro; le sue domande sono state uno stimolo ad approfondire e chiarire alcune delle questioni centrali del testo: l’animalità come differenza; lo statuto della biologia; virus ed epidemie; misura umana e potenza del cosmo.

 

Sui quaderni heideggeriani

Traduzione del saggio di Friedrich-Wilhelm von Herrmann:
Die Reinheit des seynsgeschichtlichen Denkens
Il reale significato del pensiero ontostorico
in Vita pensata, n. 23 – Novembre 2020
pagine 5-15

Il testo si può leggere:
sul sito della rivista
in pdf

Il testo tedesco è seguito dalla traduzione in italiano, che è stata approvata dall’autore.
Riporto qui la Nota del traduttore:

Il saggio del Prof. von Herrmann affronta una delle questioni più delicate, strumentali e incomprese del percorso heideggeriano. Lo fa con pacata determinazione e anche, dove è necessario, con durezza. Sono pagine che contribuiscono in modo decisivo a fare chiarezza sul rapporto tra Martin Heidegger e il Nazionalsocialismo. ‘Decisivo’ perché si pongono all’altezza della dimensione teoretica dalla quale ogni riga di Heidegger scaturisce.
L’importanza ermeneutica e politica di questo saggio mi ha indotto a privilegiare la scorrevolezza della resa in italiano rispetto alla letteralità dell’enunciato, senza naturalmente mai discostarsi dai significati del testo, di per sé assai chiari.
E questo anche perché uno dei segreti della potenza heideggeriana, direi della sua gloria, è l’utilizzo delle parole come un tutto che si dissolve. ’Tutto’ nel senso che per Heidegger, come per ogni vero filosofo, la parola è il luogo nel quale traluce, splende e si dà l’essere. E quindi ogni parola deve essere -per dirla con Ungaretti- «scavata come un abisso».
Ma questo tutto della parola è destinato a dissolversi poiché il pensiero deve affrancarsi da ogni rigidità che inerisce a questa potenza, senza rimanere nella univocità di un solo significato, senza scadere mai nella scolastica e nell’idolatria delle formule. La parola deve rimanere e diventare ciò che è: la vibrazione del mondo.
Anche per questo ho ad esempio tradotto la medesima struttura semantica – Wesungsgeschehen der Wahrheit des Seyns – in tre modi diversi. Tre modi che a me sembrano corretti perché moltiplicano il senso e lo innestano ogni volta nella differenza: nella prima occorrenza è un divenire non della verità ma dell’essere nella sua verità; nella seconda occorrenza la verità dell’essere ha la forza di un accadere ontostorico che si allontana vertiginosamente dal verificarsi storico del Nazionalsocialismo; nella terza occorrenza la verità dell’essere è un manifestarsi che conferma la natura fenomenologica del pensare heideggeriano.

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