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Oligarchie

Un càveat, un avviso, la necessità di stare attenti e scrutare con cura il presente.
Apprezzo molto chi lo fa, permettendoci di riflettere ed eventualmente anche di dissentire. E non mi interessano il nome, la qualifica, la posizione politica, le preferenze ideologiche di chi avverte di un rischio che si avvicina. Mi interessa che il rischio sia reale. In questo caso lo è. E dunque consiglio la lettura integrale del breve testo di Roberto Pecchioli uscito su «Ide&Azione» il 13 gennaio 2023. Si intitola Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
Ne trascrivo qui alcuni brani (i link sono aggiunti da me e si riferiscono a pagine di questo sito nelle quali ho discusso di alcuni degli argomenti trattati da Pecchioli).

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Nell’intero corso del tempo sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi. Inizia così un libro nel libro, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, inserito da George Orwell nel suo capolavoro, 1984. Il testo è vietatissimo in quanto sarebbe l’opera ideologica di Emmanuel Goldstein, l’arcinemico del partito unico. Tuttavia Goldstein non esiste, è una creazione del potere, quindi Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è un falso, una psyop (operazione psicologica) contro il popolo, una modalità per attirare, riconoscere e colpire i dissidenti. Non siamo distanti dal mondo di 1984. Siamo entrati davvero nel triste mondo del collettivismo oligarchico.

Il titolo del primo capitolo di Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è “l’ignoranza è forza”, uno dei tre slogan che campeggiano sulla facciata del Ministero della Verità. Niente di più essenziale per il potere: maggiori sono le conoscenze tanto più si è preda di dubbi e contraddizioni.

Chi comanda conosce bene una riflessione di Arthur Schopenhauer: «ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente; non è tanto l’opinione in sé, ma l’audacia di pensare da sé, qualcosa che esso non sa fare». Siamo lieti di non avere/essere nulla, purché il Signore getti qualche briciola attraverso vassalli, valvassori e valvassini.

Presto verrà spalancata la finestra di Overton dello stravolgimento delle abitudini alimentari: pancia mia fatti capanna di larve, blatte e farine di insetti. I ragazzi reclameranno la pizza con i grilli e le cavallette. Non solo lo chiede il Grande Fratello con incessante propaganda, ma è per la solita, ottima causa: l’ambiente.

Sì, l’ignoranza è forza, specie se accompagnata da un’impressionante capacità di assorbire come spugne – senza mai porsi domande – tutto ciò che viene propagandato dal potere.

Lezioni di sostenibilità da chi ha ammorbato il mondo e sfruttato sfacciatamente popoli e risorse naturali; richiami di moralità da parte di oligarchie corrotte sino al midollo, nel corpo e nell’anima.

Un monito dell’autore di Arcipelago Gulag: «se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: a che servono alle mandrie i doni della libertà? Il loro retaggio, di generazione in generazione, sono il giogo con i bubboli e la frusta».

Il collettivismo è per noi, l’oligarchia sono loro. Vogliono la fine della proprietà privata diffusa, a cominciare dalle case d’abitazione. Infatti l’UE – uno dei cagnolini fedeli del Forum – impone ristrutturazioni costosissime per scopi energetici (l’ossessione green degli inquinatori globali) che metteranno in crisi il mercato e costringeranno molti a vendere a prezzi stracciati il bene più prezioso. Chissà chi comprerà.

Nel paradiso della libertà è obbligatorio il linguaggio “inclusivo”. In Canada, laboratorio privilegiato della perfezione, si può essere costretti alla “rieducazione” (l’evidenza totalitaria sfugge per mancanza di neuroni) se si utilizzano pronomi personali errati. La legge C-16 protegge l’identità di genere punendo le violazioni con il carcere sino a due anni. Un celebre psicologo, Jordan Peterson, è stato condannato a seguire un corso di rieducazione verbale e mentale.

Quella che viviamo è una fulminea transizione neofeudale.

A che servono le elezioni, se una serie sterminata di vincoli esterni (BCE, UE, MES, FMI, NATO, OMS, ONU, WEF, infernali acronimi del Dominio) impediscono alla volontà popolare – se mai si manifestasse in termini antagonisti – di diventare norma? E, in Europa, come si possono cambiare le cose se gran parte delle leggi che scandiscono la nostra esistenza derivano da regolamenti (eufemismo da vita condominiale) emessi da una Commissione, un sinedrio non eletto, ratificati senza discussione – sono migliaia ogni anno – da un parlamento privo di potestà legislativa?

Il giurista nazionalsocialista Ernst Forsthoff spiegò il significato che per i dominanti ha la legalità «Chi ha lo Stato, fa le leggi e, cosa non meno importante, le interpreta. Egli stabilisce che cosa è legale. La legalità è qualcosa di puramente formale e non significa altro se non che la volontà di un partito è diventata disposizione di legge. La legalità è il mezzo con cui colpire il nemico politico: dichiarandolo illegale, ponendolo fuori dalla legge, squalificandolo dal punto di vista morale e consegnandolo all’eliminazione per mezzo dell’apparato statale». Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
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Una volta, nel 1929, a Davos si riunivano i filosofi (Cassirer e Heidegger) per dialogare e discutere con passione sulle modalità e gli scopi della conoscenza e su altre tematiche filosofiche. Dopo un secolo quella città è preda del World Economic Forum (WEF) di Klaus Schwab e di altri visionari e ingegneri delle distopie totalitarie, di coloro che dettano le regole e le forme ai parlamenti e ai governi di un Occidente diventato terra della tristezza.

 

Costruire

10 architetture italiane
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Matteo Ghidoni, Enrico Molteni e Vittorio Pizzigoni
Sino al 29 gennaio 2023

Opportuna e significativa è la decisione di presentare progetti che sono già diventati spazio e materia o che sono in via di realizzazione. Opportuna perché l’architettura o diventa luogo oppure ha poco senso. Significativa perché questa piccola rassegna dimostra che è possibile creare spazi belli da abitare, qualunque sia l’idea formale che li ispira, il contesto nel quale si collocano, i materiali utilizzati.
I curatori scrivono che «ognuno dei dieci progetti tre ville, un polo ricettivo, un teatro, una galleria, un negozio, un portale, una loggia e un giardino pubblico è rappresentato attraverso un modello, con l’intento di offrire uno sguardo sul presente dell’architettura nazionale». I luoghi vanno dall’Albania e dalla Spagna a Firenze e Roma, dall’Olanda e dal Marocco a Terni (immagine di apertura) e alla Val d’Arno, con una villa in costruzione in Sicilia, in Val di Noto (immagine qui sotto).
Ovunque accada e qualunque sia la sua tipologia, il costruire e l’abitare appaiono nella relazione che Heidegger ha individuato con la consueta lucidità: «Il costruire non è soltanto mezzo e via per l’abitare, il costruire è già in se stesso un abitare. […] Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare. Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare»; «Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire».
Lo si dice alle pagine 97 e 107 del testo più profondo e disvelatore che conosca sul significato e il senso dell’architettura. Si intitola «Costruire abitare pensare» e fa parte del volume Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia 1976.

Una metafisica antropodecentrica

La metafisica come antropodecentrismo
in Mechane. Rivista di filosofia e antropologia della tecnica
n. 3/2022
pagine 45-57

Indice
-Martin Heidegger e Eugenio Mazzarella
-Il campo metafisico
-Il campo anarchico-ermeneutico: Schürmann
-Metafisica e antropodecentrismo

Abstract
The essay tries to grasp starting from Heidegger and beyond Heidegger, from Mazzarella and beyond Mazzarella, the anthropodecentric structure that constitutes the real reason for the fecundity and necessity of metaphysics. Human meaning, its history and its future are inseparable from the atomic, molecular, thermodynamic story of the cosmos. Metaphysics, πρώτη φιλοσοφία, is also this attempt to observe and understand the world from the point of view of matter, of the whole, of the Φύσις.

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Aggiungo qualche altra parola al contenuto sempre necessariamente stringato dell’abstract.
Mia convinzione è che la struttura antropodecentrica costituisca la vera ragione di fecondità e necessità della metafisica. Ho cercato in questo testo di confrontarmi sia con Mazzarella sia con la lettura anarchica e antimetafisica che Reiner Schürmann ha dato del cammino heideggeriano.
Metafisico è infatti lo sguardo antropodecentrico, così diverso dalla centralità dell’umano e della soggettività che caratterizza invece il pensiero cristiano, cartesiano e moderno. Pensare la nostra specie come senso, centro e vertice significa concepire ancora una volta l’umano come un impero dentro l’impero, errore dal quale Spinoza ci ha messo in guardia con grande chiarezza. L’obiettivo è invece la delineazione di un campo metafisico nel quale l’umano è soltanto una parte trascurabile dell’intero, del cosmo, dell’essere.
Il saggio parte dalla centralità della relazione essere/esserci che Eugenio Mazzarella ha sempre posto alla base del cammino di pensiero di Heidegger. La salvaguardia di un elemento è condizione per la salvezza dell’altro, tanto che l’essenza umana è individuata nella costante apertura all’essere, che significa anche e immediatamente riconoscimento ‘greco’ dei limiti dell’umano, della finitudine, dell’inoltrepassabile che è il morire come destino e sostanza di tutto ciò che è vivo.
È qui che affonda la questione della tecnica, al di là di eventi storici, prospettive epistemologiche, inquietudini politiche. Affonda nei limiti umani e nel loro impossibile e quindi autodistruttivo superamento. A salvare l’οἶκος e a garantire dentro di esso l’umano è necessaria la rimemorazione di una finitudine biologica che è figura della colpa ontologica insita nell’esserci, come la filosofia sa da Anassimandro a Heidegger. I grandi temi gnostici della colpa e della pena sono stati affrontati tematicamente da Mazzarella solo nelle opere più recenti ma la loro genesi sta nel gioco di finitudine e ὕβρις che l’umano è da sempre.
Antiumanista come antiumaniste sono le filosofie di Marx e di Nietzsche, il pensiero di Heidegger è disvelatore dei limiti intrinseci a ogni prospettiva e progetto umanistici mediante il pieno riconoscimento di una differenza ‘ontologica’ proprio nel senso della differenza che sta a fondamento dell’essere. L’umano è sempre la situazione che lo precede, nella quale è comparso e in cui rimane gettato per l’intera sostanza dei suoi giorni; l’umano è dunque sempre una ben precisa possibilità che compare, accade e agisce dentro i bastioni del tempo storico che gli è stato destinato dall’eventuarsi della realtà. Il venire alla presenza non è niente di soggettivo e coscienzialistico, non ha a che fare con qualche volontà e proponimento, non è nulla di umanistico e nemmeno di antropologico.
Il punto chiave è che a essere finita non è soltanto l’umana esistenza, il Dasein, ma è «l’essere stesso in quanto tempo» (Sein und Zeit, § 47), l’essere come di-venire alla presenza per poi tornare nell’assenza. L’essere in quanto dissoluzione e processo.
Cerco insomma di leggere l’ontologia, anche quella heideggeriana, in profonda relazione con la cosmologia e la termodinamica.

Heidegger, la guerra

Heidegger nacque in trincea
Recensione a:
Pierandrea Amato
Trincee della filosofia. Heidegger e la Grande guerra
Mimesis 2022, pagine 130
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
6 novembre 2022 / pagine 1-4

Se la guerra accompagna da sempre la specie umana, se essa rappresenta di fatto il basso continuo della storia, che fa da sfondo a tutti gli eventi, la Grande guerra è altro. A un secolo dal suo compiersi, essa costituisce non soltanto lo spartiacque che ha irreversibilmente mutato la vita dell’Europa e quindi del mondo, non è stata soltanto una cesura evidente e netta; quel conflitto rimane ancora sostanzialmente un enigma, una forma dell’arcano che a volte investe gli umani.
La tesi di Pierandrea Amato è che gran parte del pensiero heideggeriano, e certamente Essere e tempo, sia inconcepibile al di fuori del disvelamento che la Grande guerra è stata e ha rappresentato.
La potenza teoretica e prassica della filosofia heideggeriana consiste in gran parte nel superamento che in essa si attua di ogni prospettiva etica, di ogni paradigma umanistico, di ogni illusione antropocentrica. Elementi il cui lato oscuro è diventato evidente in modo persino lancinante durante gli anni dal 1914 al 1918. Dopo quell’esperienza indicibile e inspiegabile, l’umanesimo ha mostrato la sua natura allucinatoria e astratta rivelando la tendenza distopica che lo muove.
Il libro di Amato getta una vivida luce  sulla genesi di una filosofia radicale e feconda.

Colpa e tempo

Leopardi, Heidegger e la consapevolezza filosofica del limite umano
il manifesto
26 ottobre 2022
pagina 11

Ci sono dei libri che appaiono nella vita del loro autore come una rivelazione o una conferma o un compimento o un nuovo inizio. Colpa e tempo. Un esercizio di matematica esistenziale è l’insieme di tutto questo. Convergono qui il rigore teoretico di Eugenio Mazzarella, la sua incessante tensione esistenziale, uno stile che sembra seguire i contorni del mondo e descriverne come in un dipinto le fattezze.
In questo breve articolo per il manifesto ho cercato di entrare nella profondità del testo e di porlo in relazione con i primi due libri del filosofo, usciti nel 1981 e nel 1983 e riediti di recente dall’editore Carocci: Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger; Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita. Ho dunque cercato di mostrare che se i grandi temi gnostici della colpa e del dolore sono stati affrontati tematicamente da Mazzarella soltanto nelle opere più recenti, la loro genesi è nel suo itinerario antica e ne illumina esiti, modalità, potenza.

Segnalo inoltre le riflessioni che a Colpa e tempo hanno dedicato Enrico Moncado (in Vita pensata, n. 27, settembre 2022) ed Enrico Palma (in Discipline Filosofiche, 27 settembre 2022).

D’Arrigo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo
in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre-ottobre 2022
pagine 147-151

Indice
-Il mare, la morte
-Omero / Heidegger
-L’Orca, la materia
-La potenza della femmina
-Un lessico arcaico, splendente e magico
-Il mare della Nonsenseria

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.
Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo.
Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale. Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte», sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico.
Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati. Parole dentro le quali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

[La foto di D’Arrigo è di Ferdinando Scianna (1988)]

Dugin e Platone

Aleksandr Dugin
Platonismo politico
(Political Platonism: The Philosophy of Politics, Arktos Media Ltd., Londra 2019)
Traduzione di Donato Mancuso
Edizioni AGA, Milano 2020
Pagine 190

[Questa recensione è in gran parte descrittiva di uno degli elementi più significativi del pensiero di Aleksandr Dugin, la conclusione del testo è invece critica.
La pubblico come gesto di solidarietà nei confronti della tragedia che Dugin sta subendo, dell’attentato che ha ucciso sua figlia Darya – ricercatrice universitaria che si stava occupando della falsificazione sistematica che l’informazione finanziata dalla NATO produce nelle nostre menti ‘occidentali’ – e che certamente avrebbe dovuto uccidere anche lui.
Il terrorismo ucraino e statunitense è probabilmente il responsabile di questo gesto di intimidazione politica e filosofica, nei confronti del quale ribadisco – per quello che posso e che conto – la mia totale, completa e convinta difesa della libertà di pensiero, di parola, di interpretazione del mondo, contro ogni imposizione di un’identità unica e universale perseguita dal cosiddetto “globalismo“]

La radice filosofica di ogni opzione politica emerge con chiarezza da questa raccolta di interventi, analisi, interviste di Aleksandr Dugin, per il quale «considerare la politica come un fenomeno separato, scollegato dalla filosofia, è completamente estraneo alle origini della tradizione filosofica» (p. 35). La politica nella sua essenza e struttura non ha alcuna autonomia dalla filosofia e piuttosto ne costituisce una parte. Ogni prospettiva filosofica, infatti, «anche la più astratta, ha una dimensione politica, in alcuni casi espressa esplicitamente» (37).
Uno di questi casi, il più importante, il caso che ha fondato l’Europa, è Platone. Anche per Dugin, come per Whitehead ed Emerson, «Platone rappresenta tutta la filosofia – la filosofia nella sua interezza, la filosofia in toto» (42) anche se, naturalmente, la filosofia non rimane nei limiti di Platone e non finisce certo con lui, come con lui non comincia. Ma «chi non conosce o non capisce Platone non può sapere o capire nulla. Platone è il creatore del terreno fondamentale della filosofia. La filosofia, a sua volta, è lo sfondo della teologia, della scienza e della politica. Platone, quindi, è alla base della teologia, della scienza e della politica» (81).
Dugin attinge soprattutto al Parmenide per delineare una articolata struttura di opzioni politiche, esattamente otto, tutte basate sullo statuto dell’Uno e sulla sua relazione con la molteplicità. Nella sua forma più pura e più compiuta, nella sua forma ideale, «il potere nel platonismo è sacrale, razionale, trasparente e ideale. Rappresenta la cristallizzazione del mondo dei paradigmi (57).
Platone rappresenta per Dugin l’emblema della filosofia apollinea, sempre in feconda identità/differenza con quella dionisiaca. A entrambi si contrappone un elemento/modello che a Platone risulta lontano sino all’indifferenza e che tuttavia pesa, pesa molto, nei destini politici dell’Europa. Questo elemento è la Grande Madre, è Cibele, e con lei i Titani. È Cibele, sono i Titani, ad aver preso il potere nella modernità, che proprio per questo è modernità; ad aver preso il potere nell’Europa contemporanea, che proprio per questo è la nemica dell’Europa e della sua Tradizione, parola e concetto fondamentali nella filosofia di Dugin.
Con uno scarto e arricchimento notevoli, a questi paradigmi teoretico-politici qui si coniugano delle analisi che riguardano lo gnosticismo antico e moderno, analisi complesse che riguardano la natura femminile del Demiurgo, il Padre, il Pleroma, gli eoni, in particolare nelle elaborazioni di Valentino. Dugin richiama l’attenzione sulla complessità intrinseca allo gnosticismo, sulla natura dello gnostico come «un portatore della coscienza infelice, ma secondo Hegel solo la coscienza infelice è capace di filosofare» (110), sullo gnostico quale prigioniero della Grande Madre e della sua potenza materica, sullo gnostico il quale «porta in sé l’abisso» (111).
Anche sul fondamento di tutto questo, si accenna alla Quarta Teoria Politica, tema per il quale Dugin è particolarmente noto, come superamento delle tre teorie politiche del liberalismo, del comunismo del fascismo/nazionalsocialismo, forme tutte alienate perché fondate su diverse interpretazioni ed effetti del soggettivismo moderno: «Nelle tre teorie politiche moderne abbiamo a che fare con tre interpretazioni più ristrette del soggetto. Il liberalismo interpreta il soggetto come individuo: i comunisti come classe; i fascisti come Stato, nazione o razza (nel nazionalsocialismo). Heidegger mostra che il soggetto è un costrutto della Modernità, edificato sul Dasein, obliato e sepolto sotto di esso. Questo è il motivo per cui la distruzione filosofica inizia con uno smantellamento del soggetto e una breccia che porta a ricongiungersi al Dasein» (130).
Come si vede, elemento ispiratore della Quarta Teoria Politica è Heidegger, cosa esplicitamente riconosciuta da Dugin, il quale intreccia le questioni heideggeriane della metafisica e dello statuto del soggetto con quelle relative alla tecnica, sino a dare alla sua teoria e prassi politica un compito quasi anarchico e forse nella tradizione del populismo russo: «La distruzione dello Stato, come apparato, come Machenschaft» (133) per far emergere al suo posto la centralità del popolo, inteso non come somma di individui, classi, interessi ma come unità organica.
L’elemento più metafisicamente interessante, e per certi versi sorprendente, di tali prospettive – per quello che è possibile capirne da una antologia piuttosto eterogenea di scritti – è la vicinanza costitutiva della filosofia alla morte come tensione verso il nulla. Il legame tra filosofia e morire è certo classico, antico e decisamente socratico-platonico ma sorprendenti sono le conseguenze che Dugin ne trae in relazione al Niente e al Caos.
Il Niente appare infatti costitutivo del mondo, un oceano che circonda la piccola isola dell’Essere, la quale appare a noi così vasta soltanto perché «guardiamo il niente attraverso gli occhi del Logos» (141). E invece ciò che Heidegger chiama der andere Anfang, l’altro inizio della filosofia, è una prospettiva che abbia il coraggio del Caos, di rivolgersi al Caos contro il primato del Logos, il quale è solo «un pesce che nuota nelle acque del Caos» (149). Il Logos può dunque respirare e sopravvivere soltanto dentro le acque caotiche del Nulla e quindi -è l’invito conclusivo del testo – «il nostro compito è costruire la filosofia del Caos» (151).
Questi i contenuti principali che ho cercato di portare a chiarezza e unità di un libro che solo a tratti è unitario e chiaro, che presenta molte suggestioni ma che appare anche radicato in modo convinto e forte dentro non la Tradizione in generale ma la Tradizione del cristianesimo ortodosso quale elemento di identità slava. Un cristianesimo che Dugin intende innervare di platonismo per salvarlo dalla sterilità epistemologica e da una sostanziale perifericità. Intento che comporta un rifiuto quasi totale non soltanto della scienza moderna ma anche e soprattutto delle grandi metafisiche che pongono in qualche modo al centro la struttura e la dimensione materica del cosmo, pur essendo niente affatto riduzionistiche: da Aristotele a Spinoza, dall’atomismo alla termodinamica.
E questo sembra un esito piuttosto deludente anche perché molto confessionale.

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