Skip to content


Metafisica. Classici contemporanei

A cura di Achille C. Varzi
Laterza, Roma-Bari 2008
Pagine XI-536

Nel suo importante saggio del 1953 On What There Is, Quine sosteneva che «l’ontologia è fondamentale per la costituzione dello schema concettuale con cui si interpretano tutte le esperienze, anche le più comuni» (qui a p. 33). La svolta ontologica e metafisica che intride la filosofia analitica in questo inizio del XXI secolo ha quindi radici antiche, che la densa antologia curata da Varzi ben testimonia. Dalla sua lettura si comprende facilmente che in ambito analitico non si è mai voluto cancellare la metafisica o dichiarare irrilevante la sua tradizione ma si è inteso modificare alla radice il mondo di affrontarne i temi, che qui vengono riassunti e raccolti in sei grandi ambiti: Esistenza, Identità, Persistenza, Modalità, Proprietà, Causalità.

Molti autori sembrano non tener conto dell’avvertimento per il quale il mondo si dice in molti modi, rendendo invece esclusivo un approccio logico-formalistico che non di rado cade nella pedanteria o precipita in oscure inconcludenze. E tuttavia alcune analisi e tematiche risultano di grande interesse e fecondità. Un punto di partenza decisivo è la distinzione elaborata da Frege e ripresa da Quine tra Sinn e Bedeutung, senso e riferimento, connotazione semantica e semplice denotazione oggettiva. I significati non sono soltanto «idee contenute nella mente» (Quine, 32) ma costituiscono la materia con la quale le menti costruiscono il mondo e se stesse in esso. E sta anche qui la ragione della persistenza degli universali nel discorso filosofico. Perché, semplicemente, «senza di essi non sarebbe possibile parlare, ed il pensiero si ridurrebbe a ben poco» (Quine, Identity, Ostension, Hyposthasis, 1950, qui a p. 203). Russell si spinge sino ad abbracciare esplicitamente il platonismo riconoscendo l’esistenza ante rem degli universali:

«[Certe] entità quali le relazioni fra le cose sembrano avere un’esistenza in certo modo diversa da quella degli oggetti fisici, e diversa anche da quelle delle menti e dei dati sensibili (…) È un problema molto vecchio, introdotto in filosofia da Platone. La platonica “teoria delle idee” è appunto un tentativo di risolverlo, e a parer mio uno dei tentativi più riusciti fra quanti ne siano stati fatti sinora (…) Nessuna frase può essere costruita senza una parola almeno che indichi un universale (…) Così tutte le verità implicano un universale, e ogni conoscenza di verità implica la conoscenza degli universali» (The World of Universals, 1912, qui a pp. 333-335).

Una specialissima forma di platonismo è anche il concetto di designatore rigido proposto da Kripke. Su queste tematiche i filosofi analitici si incontrano e scontrano in modo anche assai duro, accusandosi di formulare enunciati che non hanno senso. Così Quine nei confronti di Carnap (quasi a contrappasso della stessa accusa rivolta da quest’ultimo a Heidegger), il quale risponde per le rime deplorando «il fatto che alcuni nominalisti contemporanei denominino “platonismo” l’ammissione di variabili di tipo astratto. Quanto meno, questa terminologia è priva di significato, conducendo all’assurda conseguenza che la posizione di chiunque accetti il linguaggio della fisica con le variabili numeriche reali (…) risulterebbe denominabile platonica» (Empiricism, Semantic, and Ontology, 1950, qui a pp. 56-57); rincarando poi la dose con queste affermazioni: «Decretare dogmatiche proibizioni di certe forme linguistiche, invece di sottoporle a controllo sulla base del loro successo o fallimento nell’uso pratico, è più che futile; infatti, ciò potrebbe ostacolare il progresso scientifico», equiparando i “pregiudizi” di Quine a quelli di matrice religiosa e irrazionale (Ivi, p. 64).

Anche in tali diatribe la filosofia analitica somiglia alla tradizione alla quale meglio la si può accostare: quella delle Disputationes medioevali: «I tre principali punti di vista a proposito degli universali, vengono designati dagli storici come il realismo, il concettualismo e il nominalismo. E, praticamente, queste stesse dottrine riappaiono nelle ricerche di filosofia della matematica del ventesimo secolo sotto i nuovi nomi di logicismo, intuizionismo e formalismo» (Quine, On What There Is, qui a p. 37).

Il tema metafisico fondamentale anche in ambito analitico è il tempo. Lewis ha proposto di distinguere il significato dei verbi Endure e Perdure, che in inglese indicano genericamente la durata temporale di qualcosa. Col primo verbo si sostiene dunque il permanere tridimensionale degli enti che persistono nella loro interezza spaziale, col secondo il loro perdurare quadridimensionale di parti temporali successive. Lewis sostiene la necessità di abbandonare la permanenza a favore della perduranza. Arriviamo così alle soglie di una comprensione del mondo come evento (l’Ereignis heideggeriano tanto rifiutato e non compreso da molti analitici) e quindi come insieme dinamico di enti, azioni, processi, proprietà, relazioni. Se «non vi è niente di più importante, credo, che il riconoscere che le proprietà e le relazioni sono tra i costituenti fondamentali della realtà» (Armstrong, Properties, 1992, qui a p. 389), allora la questione ontologica è ben riassunta dal rompicapo platonico (Fedone 58A) della Nave di Teseo (lentamente ma integralmente sostituita dagli ateniesi nelle sue componenti) .

A questo e a simili problemi (come “il carro di Socrate”) si risponde in due modi:
A) La nave o il carro non sono soltanto i materiali dei quali sono composti ma i materiali più il significato a essi attribuito, sono il senso con il riferimento, la connotazione insieme alla denotazione.
B) Navi, carri, mattoncini sono entità temporali, sono quark, atomi, molecole, macrostrutture in continuo dinamismo, sono entità/eventi ai quali è l’osservatore a conferire un’identità sempre provvisoria, cangiante e insieme perdurante; temporale, quindi.
Il mondo è fatto di enti permanenti, eventi perduranti e significati che nascono, si distendono, mutano nello spaziotempo. Non possiamo bagnarci nelle medesime acque ma possiamo ben immergerci nello stesso fiume, perché le acque sono elementi materiali che scorrono, un fiume è un significato mentale che perdura. La cronosemantica può coniugare il discorso ontologico con quello linguistico, mostrando in tal modo la fecondità della metafisica.

MILANO SGUARDI DI QUARTIERE. Identità e rigenerazione

Urban Center Milano
Sino all’11 marzo 2009

milano_sguardi_di_quartiere

«L’essenza del costruire è il “far abitare”. Il tratto essenziale del costruire è l’edificare luoghi mediante il disporre i loro spazi. Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire». Il corsivo è di Heidegger e il brano si trova a pag. 107 di “Costruire abitare pensare”, uno dei testi raccolti in Saggi e discorsi (a cura di G.Vattimo, Mursia 1976). Il costruire non è dunque in primo luogo una tecnologia ma un essere. Di fronte al grande afflusso di nuovi abitanti provenienti dal Sud dell’Italia, la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta affidò se stessa a ingegneri e urbanisti privi della cultura dell’abitare e dediti soltanto al costruire. Il risultato fu la distruzione di luoghi che da secoli circondavano la città di acque, di coltivazioni e di comunità ben armonizzate con l’ambiente. Al loro posto sorsero i quartieri Molise-Calvairate a est e San Siro a ovest, dove fu ed è ancora possibile un abitare che si integra a fondo col tessuto urbano. Invece quartieri come Gratosoglio a sud e Ponte Lambro a est vennero fisicamente tagliati fuori dalla città diventando -come scrive Bianca Bottero- «luoghi “intimamente predisposti” alla criminalità».

Degradati anche nelle strutture -oltre che nelle persone- in questi quartieri è ora in corso un’opera di riqualificazione urbanistica e sociale della quale la mostra testimonia con documenti e fotografie le modalità e le intenzioni. Quarant’anni fa un gruppo di abitanti di Gratosoglio pose una lapide «alla fermata del tram che non arrivava mai». Sarà dura che questo tram arrivi ora, in un momento di rimescolamento sociale tra vecchi residenti e nuovi immigrati, di crisi economica e antropologica, ma fare di tutto perché la città sia luogo di vita in ogni sua parte è un dovere assoluto di chi la amministra e di chi la abita.

Ontologia del nuovo

Roberta De Monticelli – Carlo Conni
ONTOLOGIA DEL NUOVO
La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi
Bruno Mondadori, 2008
Pagine XIV-254

ontologia_del_nuovo

La fenomenologia non è una scuola ma uno stile di pensiero, non un insieme di dottrine ma una serie di percorsi teoretici volti a comprendere l’unità profonda tra la mente che conosce e il mondo dentro il quale essa dispiega la propria attività. A tale “stile di pensiero filosofico” questo libro costituisce un’ottima introduzione, pur con delle rigidità nei confronti di una pratica della fenomenologia che si allontani dai testi husserliani. In particolare, il pericolo sembra individuato in Martin Heidegger, nel suo concetto di verità come aletheia, la cui conseguenza sarebbe un sostanziale relativismo (una interpretazione -questa- discutibile). In generale, viene difeso ciò che si definisce come «“cultura del rispetto” (del dato, del visibile, dell’esperibile)» (p. 7) contro la cultura del sospetto propria delle posizioni nichilistiche e scettiche (Nietzsche, ovviamente…).

leggi di più

Mente & Cervello 49 – Gennaio 2009

In natura non si dà alcun teleologismo. Ce lo hanno insegnato, fra gli altri, Democrito, Darwin, Nietzsche e lo ricorda anche Enrico Bellone in apertura di questo numero di Mente & cervello. E fa bene, perché uno dei postulati della sapienza consiste nell’ammettere che l’essere è assai più complesso, intricato, ricco e stupefacente di quanto qualunque conoscenza umana possa immaginare, tanto meno raggiungere. Basta sfogliare questa Rivista.

«La visione non è una fotografia della realtà: ciò che vediamo dipende da un insieme di motivi, alcuni legati alla struttura dell’occhio, altri a fattori centrali, cioè le caratteristiche della corteccia visiva e i processi mentali» (Oliverio, p. 18; consiglio sul tema il volume di Paola Bressan Il colore della luna).
Se -come tante volte ho avuto occasione di sostenere- la coscienza dimentica, «il cervello non dimentica (…) ogni esperienza vissuta lascia una traccia precisa nel nostro cervello» e nell’intero corpo (Murelli, 22).
Ciò che i piccoli moralisti chiamano “egoismo” è semplicemente il naturale Wille zum Leben, la “volontà di vivere” che per Schopenhauer costituisce la struttura di fondo di ogni cosa e che «il comandamento dell’evoluzione» conferma: «“Persegui un’azione che ti procura piacere; sospendi un’azione che ti procura fastidio”» (Clément, 39). La vita, la sua potenza, è racchiusa in queste parole. Persino il morire per salvare altre persone, o “per il bene della causa”, è espressione di tale desiderio di autoaffermazione. Il “piacere”, infatti, ha una miriade di forme, espressioni, direzioni. Lo mostra l’articolo di copertina, dedicato al feticismo, nel quale Olaf G. Schmidt afferma giustamente che «non tutto ciò che è atipico deve necessariamente essere considerato patologico», tanto più che «continua comunque a sorprendere la capacità del cervello umano di produrre astrazioni, fantasie e pensieri di ogni genere per generare piacere fisico» (57 e 61). La neurobiologia dà ragione anche a Leopardi, alla sua preferenza per il sabato, dato che «anticipare qualcosa di piacevole crea infatti una maggiore attività nel centro di piacere del cervello rispetto a quanto non faccia l’effettivo raggiungimento dell’obiettivo prefissato» (Lambert, 91).
Cervello che ha nel linguaggio una delle sue espressioni più potenti. Un articolo assai interessante dedicato al “cervello da interprete” conferma -come ha intuito Heidegger– che in ogni caso (anche quando si conoscono perfettamente più idiomi) si pensa davvero in una sola lingua poiché si vive sempre in un solo mondo; il clamoroso e ripetuto fallimento dei software rivolti alla traduzione mostra che il linguaggio non costituisce un algoritmo ed è quindi impossibile «mettere a punto una macchina in grado di realizzare le complicate operazioni simboliche, sensoriali ed emotive necessarie per realizzare un’operazione così complessa» (Cicerone, 43).
Cervello che da sempre è ibridato con apparati e sistemi artificiali e lo diventa sempre di più poiché «cellulari, computer e iPod sono diventati estensioni del nostro corpo» (Barberi, 70).

È anche tale complessità a spiegare le numerose forme di creduloneria di cui approfittano demagoghi, commercianti, politici, cartomanti e anche…terapeuti e scienziati. Se, infatti, la credulità «consiste nel rifiuto di nuove credenze per attaccamento a credenze precedenti» (Clément, 38), anche con essa si spiega il proliferare di soluzioni ad hoc nell’ambito -ad esempio- della cosmologia, dove emerge sempre più l’implausibilità dell’ipotesi del cosiddetto Big Bang (si veda il recente studio di Marco De Paoli su La relatività e la falsa cosmologia, Piero Manni Editore 2008). Ha quindi ragione Max Planck quando afferma -nella sua Scientific Autobiography– che «una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa» (cit. da Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche [1962 e 1970], Einaudi 1978, p. 183).

Se questo accade in ambiti come la fisica e l’astronomia, figuriamoci in saperi incerti come la psicologia. Due esempi. Nel numero di ottobre di M&C Ester di Rienzo aveva difeso l’utilizzo delle testimonianze dei bambini in modi che mi erano parsi francamente eccessivi; lo sono sembrati anche a Giovanni Battista Camerini e al suo gruppo di lavoro, i quali criticano in modo assai duro l’articolo della loro collega, citando anche delle sentenze della Cassazione che mettono in guardia dalla creazione -da parte degli stessi “esperti” che interrogano i bambini- di «falsi ricordi», rilevando il grave rischio di «sottovalutare il ruolo della suggestione e, con esso, di alimentare le denunce infondate, ovvero i “falsi positivi”, la cui frequenza assume un rilevo sempre maggiore nel panorama giudiziario e i cui costi umani e sociali, specie per i bambini e per le famiglie coinvolte, possono essere molto alti, paragonabili (come hanno sostenuto Fonagy e Sandler) all’ignorare un “falso negativo”» (6-7). Sempre a proposito di psicologi, non è per nulla «sorprendente» un dato che sempre più emerge nella pratica clinica, e cioè «la centralità della personalità terapeutica del singolo professionista. In sostanza l’abilità clinica del terapeuta, al di là dell’appartenenza a uno specifico orientamento, sarebbe l’elemento fondamentale per la guarigione del paziente» (Castiello d’Antonio, 77). Come sempre, infatti, a contare sono le competenze professionali, la ricchezza culturale, la sensibilità umana delle persone e non la sequela dell’una o dell’altra scuola o corrente. E visto che di psicologi siffatti ce ne sono pochi, non hanno poi torto quanti si rifiutano di affidarsi a tali professionisti (circostanza che l’autore dell’articolo invece deplora…). Uno che se ne intende -Woody Allen- ha detto che «la psicoanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani» (Ivi, 75).

Dove lo spirito critico dà il meglio di sé è nello smascheramento operato da Michael Shermer della fiducia eccessiva riposta nel Brain imaging. Si tratta, ancora una volta, della tendenza ad applicare alla mente le analogie più in voga in ciascuna epoca. Vedere nel cervello una macchina idraulica (XVIII secolo), un calcolatore meccanico (XIX), un computer (XX), ha significato non comprenderne le peculiarità, la potenza, il sottrarsi a qualunque similitudine meccanicistica. Shermer critica sia tecnologie come la PET e la fMRI sia la concezione modulare del cervello quale «coltellino svizzero, con una serie di moduli specializzati evoluti per risolvere problemi specifici» (96). In realtà, le immagini ottenute con la risonanza magnetica funzionale hanno almeno cinque gravi limiti: i dati sono statisticamente non corretti perché escludono una significativa percentuale della popolazione che rifiuta di entrare in un ambiente claustrofobico e costringe quanti invece vi si sottopongono a “pensare” in un contesto del tutto innaturale; le immagini sono indirette poiché scaturiscono semplicemente dall’allinearsi di alcuni atomi al campo magnetico della macchina; nella ricostruzione finale i colori appaiono netti e divisi per zone, quando ciò che si ottiene è invece molto più distribuito tra tutte le parti del cervello, amalgamato e insieme approssimativo; il risultato è sempre una media statistica, frutto delle fotografie dei cervelli di numerosi soggetti; i tecnici cadono spesso nella fallacia induttiva del post hoc ergo propter hoc: «se creo in te uno stato di paura, la tua amigdala si accende, ma ciò non significa che ogni volta che la tua amigdala si accende tu provi paura. Ogni area del cervello si attiva in corrispondenza di innumerevoli stati differenti» (101). La vita, insomma, «è infotografabile» (F. Leoni, in Neurofenomenologia, Bruno Mondadori 2006) e il cervello è un organo olistico, non modulare o meccanico. Il Brain imaging non è una registrazione di quanto accade nella mente ma una costruzione a posteriori, è una metafora non una raccolta di dati: «le tecnologie di scansione cerebrale continueranno a produrre dati per le nostre teorie metaforiche» (101) e cioè per le sedicenti ipotesi empiriche e cerebrali sulla mente, che invece sono teorie anch’esse, né più né meno delle interpretazioni filosofiche o psicologiche del mentale.

mc_49_gennaio09

Vai alla barra degli strumenti