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Quaderni neri

Quaderni_neri_1931_1938

Recensione a:
Quaderni neri 1931 / 1938 (Riflessioni II-VI)
di Martin Heidegger
(Bompiani 2015, pp. X-704)
in Discipline Filosofiche (10 dicembre 2015)

 

 

 

 

 

Intrisi di pensiero e declinati in un continuo domandare, i Quaderni costituiscono anche e soprattutto un costante invito alla filosofia, le cui definizioni si moltiplicano pervenendo ogni volta a un’essenza che riduzionismi di varia natura inutilmente cercano di cancellare, poiché «Filosofia è – filosofia: niente di più e niente di meno» (p. 614). Questo sapere «inutile ma signorile» (p. 364) è un «dire che lavora alla costruzione dell’Essere tramite la costruzione del mondo in quanto concetto» (p. 278), è un «portare, domandando, all’evento il dispiegarsi essenziale dell’essere» (p. 334).

 

Facebook totalitario

«Es gibt Sklavenmärkte, bei denen die Sklaven oft die größten Händler sind»
(Ci sono mercati degli schiavi nei quali gli schiavi stessi sono spesso i più grandi mercanti)
Heidegger, Quaderni neri 1931-1938, VI, § 56

 

La creatura di Mark Zuckerberg è stata sin dall’inizio avvolgente e pervasiva delle vite di chi abita in essa. Gli analisti più attenti vi hanno scorto ormai da tempo numerosi elementi tipici di una struttura nella quale il controllo politico-poliziesco è attuato con l’attiva complicità dei controllati; di una cultura del vuoto e dell’infantilismo protratto sino alla maturità; di una vera e propria neolingua.

Gli sviluppi più recenti stanno dando pienamente ragione a chi, come Dario Generali, descriveva già quattro anni orsono facebook nei termini di una lusinga rivolta ai «mediocri con la falsa possibilità di uscire dall’anonimato, dando visibilità pubblica ad azioni ed esistenze straordinariamente banali, con il risvolto esiziale di annullare la privacy e di fissare per sempre quelle banalità a soggetti che magari col tempo potrebbero migliorarsi (o anche, più semplicemente, cambiare la propria condizione sociale) e venire quindi pesantemente danneggiati dalla leggerezza con la quale hanno divulgato i fatti della loro vita» (Fonte). Un elemento dell’analisi di Generali si sta dimostrando persino profetico. Questo: «In passato per cambiare esistenza bastava cambiare ambienti e amici, ora, per chi ha ceduto alle suggestioni di Facebook, il passato non smetterà mai di ritornare insieme alle stupidaggini che gli sprovveduti hanno avuto la superficialità di divulgare». Da qualche tempo, infatti, gli utenti di facebook subiscono quasi quotidianamente l’invito a comunicare a tutti i propri contatti (detti ‘amici’) fotografie e testi pubblicati esattamente lo stesso giorno degli anni precedenti. In questo modo l’oblio -struttura necessaria alla salute mentale degli umani- viene cancellato con il periodico ritorno non soltanto dei ricordi del soggetto ma anche di quelli dei suoi contatti, che lo inondano di immagini e parole del passato.
A ciò si aggiunga il pressante invito a formulare gli auguri a questo e a quello tra i propri contatti, invito che è sempre stato presente in modo discreto sulla piattaforma ma che ora appare subito a tutta pagina in occasione del compleanno di qualcuno dei propri ‘amici’.
Facebook, in altre parole, vuole farci pensare ciò che l’algoritmo ha deciso essere significativo; vuole trasformare la vita dei suoi utenti in base a ciò che per l’algoritmo è più importante; vuole invadere di se stesso il corpomente e il tempo degli umani. Sono questi -pensiero eteronomo, imposizione di una gerarchia dei valori, mobilitazione totale- tre degli elementi caratteristici di ogni struttura e forma totalitaria.

Intelligenze

Mente & cervello 130 – ottobre 2015

M6C_130_ottobre_2015La ‘scientificità’ della psicologia è assai scarsa, anche se molti psicologi pretendono che sia loro riconosciuta un’autorità simile a quella dei fisici, o almeno dei biologi: «Meno della metà di 100 studi di psicologia, pubblicati nel 2008 su tre riviste di primo piano, ha retto alla prova della replicazione. […] Anche in questi, poi, l’entità degli effetti trovati era in media della metà rispetto allo studio originale» (G.Sabato, p. 19). Si tratta, insomma, di una scienza umana a tutti gli effetti.
Tra i testi di psicologia, uno dei più noti è Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza (1983). Delle otto principali forme di intelligenza descritte e analizzate da Howard Gardner -e che possederemmo tutte, anche se ciascuno in modo assai differenziato- «sotto l’influenza del nostro bagaglio genetico, della cultura, delle nostre esperienze e della nostra storia personale abbiamo sviluppato alcune dominanze o preferenze che si manifestano attraverso la nostra personalità, le scelte di vita e il nostro stile di apprendimento» (G.Sirois, p. 30). Questo significa anche che l’interazione tra la mente e il mondo è completa e profonda.
Lo conferma una tesi di Heidegger sul linguaggio, secondo la quale si abita in una lingua come si vive in un mondo. Mutare lingua significa dunque cambiare la modalità e le forme del nostro esserci. Un cambiamento che arriva a toccare gli stessi principi morali. Sembra infatti che le valutazioni sui comportamenti espresse in una lingua ben posseduta ma diversa dalla lingua madre siano piuttosto differenti rispetto a quelle pensate e comunicate in quest’ultima: «I bilingue a volte usano la lingua materna quando vogliono sentire appieno l’impatto di un argomento, e passano invece all’altra lingua per distanziarsene emotivamente», poiché «l’effetto lingua straniera trae la sua influenza dal retroterra etico della cultura cui ciascuna lingua si riferisce» (C. Caldwell-Harris, 84).
Differenze, varietà, molteplicità, rendono del tutto illusoria ogni gerarchia tra gli enti e dunque tra i saperi e i loro linguaggi, poiché non esiste «una specie di scala del progresso, che culmina in Homo sapiens. Si tratta di un assunto scientificamente insostenibile, che contraddice ciò che da tempo sappiamo, e cioè che non esistono scale dei viventi, ma ramificazioni nel cespuglio evolutivo» (A.R. Longo, 104).
L’antica intuizione di Senofane, sulla comunanza di tutte le specie nel mondo, viene confermata di continuo. Soltanto lo stolto antropocentrismo di alcune filosofie e di molte religioni può sostenere la superiorità ontologica della materia umana rispetto alla materia tutta.

The Managerial Revolution

Managerial-revolution-1941Il totalitarismo nel quale viviamo -naturalmente senza accorgercene- è secondo Günther Anders soft poiché avendoci «già determinati avant la lettre, può sempre permettersi di essere generoso, può sempre restare liberale. […] Ci lascia le mani libere per le nostre opere? Sì. Perché le nostre mani sono opera sua» (L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, 2007, p. 171).
Fondamentale in questa struttura è naturalmente l’informazione, la quale descrive un mondo radicalmente virtuale, dove gli eventi sono tutti spiegati e piegati a vantaggio del padrone, vale a dire gli Stati Uniti d’America e le loro emanazioni finanziarie. Così nessuno dice, ad esempio, che la tragedia dei migranti che si ammassano ai confini dell’Europa, spesso con esiti fatali, è frutto non della miseria e della dittatura -che nelle aree di provenienza sono ben presenti da decenni- bensì di una ‘strategia del caos’ «che gli occidentali hanno portato a casa loro», la quale «mira ad abbattere i regimi laici a vantaggio dei movimenti islamisti, onde smantellare alcuni apparati statuali e militari che non potevano controllare e poi a rimodellare l’intera regione sulla base di piani stabiliti ben prima degli attentati dell’11 settembre. Così, lo Stato islamico (‘Daesh’) è stato creato dagli americani nel contesto dell’invasione dell’Iraq, e poi si è rivoltato contro di loro. […] Oggi abbiamo perciò tre guerre in una: una guerra suicida contro la Siria, nella quale gli occidentali sono gli alleati di fatto dei jihadisti, una guerra degli americani contro lo Stato islamico e una guerra delle dittature del Golfo e della Turchia contro l’asse Beirut-Damasco-Teheran, con la Russia sullo sfondo» (Alain de Benoist in Diorama Letterario 325, p. 6).
La stessa grave disinformazione è attiva nelle questioni economiche, nel «trionfo incondizionato ed assoluto della visione capitalista, che resta salda e inscalfibile a governare i disastri che ha prodotto, non solo nei proclami politici ma, prima e soprattutto, nel senso comune della gente», una visione per la quale è necessario sacrificare tutto alla cosiddetta ‘crescita’ del PIL, la quale ci impedisce di «accettare l’idea che, da molti anni, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, e quella cosa chiamata Pil, lo vogliamo o meno, decrescerà. Non sarà un gran dramma, se quello che decrescerà con lui saranno solo i suoi frutti più maturi: gadgets, o, per dirla in un’altra lingua, minchiate» (Archimede Callaioli, ivi, p. 27).
Una delle menti e delle scritture più lucide del Novecento, George Orwell, aveva ben compreso radici e sviluppi del totalitarismo linguistico, della neolingua che -dagli slogan dei telegiornali al politicamente corretto- distrugge ogni potenzialità critica delle menti: «In 1984 la ‘neolingua risponde a questa duplice esigenza: impoverire e rendere ogni pensiero non conforme impossibile sin dall’inizio. Insomma, una sorta di contraccezione intellettuale, di profilassi mentale» (Emmanuel Lévy, p. 39). Orwell aveva letto con grande attenzione i libri dello studioso statunitense James Burnham, il quale nel 1946 cominciò a parlare di una Managerial Revolution, dell’ascesa di «una nuova classe transnazionale: quella degli ‘organizzatori’», protagonisti di «un nuovo tipo di società planetaria e centralizzata, che non sarà né capitalista, né socialista, né democratica e in cui emergerà una nuova classe, quella degli ‘organizzatori’ o ‘managers’, i quali saranno ‘dirigenti d’impresa, tecnici, burocrati e militari’» (Id., p. 38).
È esattamente quanto sta accadendo. Ha dunque ragione Martin Heidegger ad accomunare nazionalsocialismo, comunismo e capitalismo nella comune distruzione di ogni stratificazione temporale, di ogni identità spaziale, di ogni libertà e comunità, di ogni vita.

Tempo / Cinema

Youth – La giovinezza
di Paolo Sorrentino
Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna, 2015
Con: Michael Caine (Fred Ballinger), Harvey Keitel (Mick Boyle), Rachel Weisz (Leda Ballinger), Paul Dano (Jimmy Tree), Madalina Diana Ghenea (Miss Universo), Alez MacQueen (L’emissario della regina), Jane Fonda
Trailer del film

youthDue anziani artisti -un musicista e un regista- vivono il loro crepuscolo in modi assai diversi tra le montagne svizzere, nello spazio verticale dove il primo dice di aver rinunciato a ogni ulteriore creazione, il secondo -invece- sta preparando il suo film testamento. In un doloroso chiasmo, il finale inverte i loro destini. Il musicista eseguirà ancora «l’opera della propria leggerezza», il secondo sarà accompagnato dall’intero suo passato -che gli appare nelle fattezze delle sue tante attrici- verso L’ultimo giorno di vita, come recita il titolo del progettato film.
Youth è infatti un’opera sul cinema e sul tempo. Le heideggeriane estasi del tempo –ciò che ha da venire, l’essente stato, il presente- vengono continuamente pronunciate. E in questo modo il film diventa una dolente metafora dell’andare degli anni, della memoria incarnata della giovinezza. Opera profonda, visionaria, luminosa. Forse con troppi finali ma anche con un notevole coraggio. Come Kubrick, Sorrentino è un regista epico, è un artista eccellente nella scelta e nell’intreccio di scenografia, montaggio e musiche. La particolare dimensione esistenziale dei suoi protagonisti aleggia dentro l’opera d’arte. È dominante, perché tema unico del film, ma anche dominata dall’intera creazione cinematografica; è come se dominasse da lontano. Mi sono trovato coinvolto nel ritratto drammatico e tenero dei personaggi ma con una certa distanza. Alla fine, infatti, a contare è il cinema in quanto tale.
Molto diverso dalla Grande Bellezza, Youth è opera interiore e quasi decadente, mentre la precedente era barocca e dionisiaca. Ma la poetica è la stessa: è la pura forma, è il colore, è il labirinto del sogno umano. E soprattutto è una meditazione sull’andare inesorabile degli anni, degli istanti, del tempo. Un andare che solo le emozioni, la bellezza, l’opera possono salvare. Una costante malinconia pervade Youth, come se «anche gli eventi più desiderati fossero guardati da un luogo dell’abbandono; guardati con commozione, come se fossero già perduti prima ancora che accadano, mentre accadono e una volta accaduti» (Lucrezia Fava). Il tempo, il cinema. La loro finzione diventa la più radicale delle verità, diventa un’«ermeneutica della fatticità» (Martin Heidegger).

«Viva le femmine! Viva il buon vino!»

da Don Giovanni
di Da Ponte – Mozart

(1787)

Atto II – Scena XVIII
Orchestra e coro dell’Opera di Parigi
Direttore: Lorin Maazel
Don Giovanni: Ruggero Raimondi
Donna Elvira: Kiri Te Kanawa
Leporello: José van Dam

Donna Elvira ancora si illude di poter essere amata da Don Giovanni, si illude soprattutto di ‘redimerlo’, «che vita cangi». Di fronte a una richiesta così insensata -la cristiana metanoia, la conversione- l’uomo la invita a condividere il suo pranzo: «Lascia ch’io mangi, / E se ti piace, / mangia con me». Alla patetica preghiera di diventare altro da ciò che è, Dom Juan oppone la necessità del corpo, del cibo. Leporello -il doppio che mai prevale- vedendo quanto accorato sia l’amore della donna, dice tra sé e sé che «se non si muove / al suo dolore, / Di sasso ha il core, / o cor non ha». Ma Don Giovanni potrebbe rispondere con le stesse parole del Visconte di Valmont delle Liaisons Dangereuses: «Trascende ogni mia volontà». Rispetto alla tragedia di Choderlos de Laclos, tuttavia e per fortuna, Da Ponte e Mozart elevano un inno alla gioia: «Vivan le femmine, / Viva il buon vino! / Sostegno e gloria / d’umanità!».
Subito dopo questo grido di piacere e di potenza appare sulla scena il primo segno del moralista, del Commendatore, che viene a prendersi il reietto per portarselo all’inferno. Ma Don Giovanni non rinuncerà mai alla sua vitalità disperata e diretta, replicando «No!» al «Pentiti!» che più volte dal Commendatore gli viene intimato. «Incredibilmente sprovvista di etica, la sua opera non può aver contratto un debito nei confronti dell’ebraismo, religione dell’etica che si fonda sull’osservanza della Legge». Questa accusa indirizzata da François Rastier a Heidegger è in realtà un grande apprezzamento, che potrebbe essere rivolto anche a Mozart-Da Ponte.
Le femmine e il vino, per sempre.

[audio:Don Giovanni_Vivan_le_femmine.mp3]

Heidegger in Grecia

soggiorni_2Possiamo incontrare gli dèi ogni volta che il nostro muoverci e il nostro stare assume la forma del soggiorno. È questo il senso del viaggio compiuto da Heidegger in Grecia nel 1962. Un percorrere territori che fu un andare alla radice del suo pensare, un vedere in cui –nella dinamica del nascondimento che si mostra- l’ἀλήθεια, la verità, finalmente risplende nel corpomente, attraversato dalla vibrazione del sacro in cui il divino consiste.
Oltre l’archeologia, al di là della storiografia, il viaggio filosofico coglie la pienezza del soggiornare. Così a Neméa, in quell’ampia distesa dove le poche colonne rimaste del tempio di Zeus vibrano «come le corde di una lira invisibile dalla quale, forse, i venti traggono melodie di canti funebri che i mortali non riescono a udire –eco della fuga degli dèi» (Martin Heidegger, Soggiorni. Viaggio in Grecia [Aufenthalte, 1989], trad. di Alessandra Iadicicco, Guanda 1997, p. 24).
Partito da Venezia in nave, Heidegger tocca le prime isole –Cefalonia, Itaca-, poi Olimpia, Corinto, Creta, Rodi…ma in nessuno di questi luoghi trova ciò che sembra cercare. Finché non gli si apre Delo –la Manifesta- e il senso del viaggio si compie. Nell’isola deserta, assolata e silenziosa, si raccoglie e si nasconde il segreto della Luce. Quel luogo «custodisce il sacro e lo difende contro l’assalto di tutto ciò che è empio» (37), luogo intatto, rimasto libero dalla «crescente desolazione dell’esserci moderno» (50). L’Isola di Apollo è il cuore pulsante della Grecia –lo era un tempo, lo è per sempre- poiché in essa splende «quella inconfondibile luminosità dell’esserci greco, che cela e preserva in sé l’oscurità del destino» (55).
Il nostro destino, il Geschick del presente, vive nel rischio costante dell’insensatezza, proprio perché la ὕβρις –la tracotanza degli apparati tecnici- è per Heidegger l’opposto di ogni soggiornare, è un rubare alla Terra ciò che la Terra offre, senza riconoscere però, in cambio, la sua sostanza sacra. Questo significa che gli dèi sono fuggiti dal nostro spazio di vita, lasciando nella desolazione più profonda –perché inavvertita- ogni nostra impresa, ogni fare, ogni conquista.
Non alla ricerca dei singoli luoghi, dunque, è volta l’intenzione del filosofo ma all’interezza dello spazio greco, lo spazio in cui il divino soggiorna nella pienezza che si sottrae e che lo fonda. Ad Atene, quindi, va oltrepassata la caligine che nasconde quanto rimane della città antica, in modo da –entrati nello spazio della dea eponima- poter sentire quel «bagliore inafferrabile» che «comincia a far oscillare l’intera costruzione» e che la solleva «in una presenza saldamente delimitata, intimamente fusa con le scogliere che la sostenevano. Quella presenza era colma dell’abbandono del santuario. A esso, invisibile, si avvicinò l’essenza della dea fuggita» (46-47). La stessa apertura all’enigma, che nascondendosi si rivela, Heidegger la vive a Capo Soúnio, dove «le poche colonne ancora in piedi offrivano al vento le corde di una lira invisibile: le faceva vibrare il dio di Delo che guarda lontano per accompagnare il canto che echeggiava sull’arcipelago delle Cicladi» (49).
Al centro del viaggio sta dunque Apollo, il dio «che trasformò l’elemento selvaggio e conciliò la sofferenza» (30) ma il libro si chiude con Delfi, il soggiorno si compie nel nome di Dioniso. Delfi non è i suoi specifici luoghi, i templi, i tesori, le fonti. Delfi è l’intero, la cui luce «non giungeva dai resti dei templi o dagli scrigni dei tesori, né dalle costruzioni disseminate lungo il pendio fino alla vetta, ma irraggiava dalla grandiosità della contrada stessa» che «sotto l’alto cielo dove l’aquila, uccello di Zeus, volteggiava attraverso l’aria chiara, si apriva come il tempio» (57-58). Delfi che Heidegger paragona alla coppa Exekías, con i delfini che accompagnano Dioniso. Quella coppa, Delfi e la Grecia tutta riposano «entro i limiti propri della splendida raffigurazione […], il luogo della nascita dell’Occidente e dell’epoca moderna, nascosto nel mondo insulare che lo circonda, resta affidato al pensiero rammemorante del soggiorno» (63).
Il soggiorno di Heidegger –in Grecia, nel mondo, nella filosofia- si configura così come un abitare il Tempo in forma pienamente pagana e cioè nei modi di un vivere familiare, iniziale, straordinario eppur misurato: «Quel soggiorno resterà irripetibile. Eppure non è trascorso» (44). Non lo è e non lo sarà. Con il viaggiare e con il tornare, Heidegger conferma ciò che ha sempre saputo, che «l’intera Grecia antica si trasformò in un’unica isola richiusa in se stessa e separata dal resto del mondo noto e ignoto. Il congedo dalla Grecia divenne l’avvento della Grecia. Ciò che era sopravvissuto portando con sé la garanzia del proprio restare fu il soggiorno degli dèi fuggiti che si apre al pensiero rammemorante» (62).
Di questo soggiornare, la filosofia è forma suprema.

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