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«Risorse umane»

La filosofia di Martin Heidegger è anche strumento di emancipazione e costituisce uno dei fondamenti teorici più importanti della Deep Ecology.
Lo testimoniano opere, saggi, l’intervista allo Spiegel, testi che hanno a fondamento la celebre espressione secondo la quale «der Mensch ist nicht der Herr des Seienden. Der Mensch ist der Hirt des Seins» (‘l’uomo non è il dominatore degli enti. L’uomo è il pastore dell’essere’, «Brief über den Humanismus» [1947], in Wegmarken, «Gesamtausgabe», Band 9, herausgegeben von Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Vittorio Klostermann 1976, p. 342).
In generale, Heidegger ha saputo cogliere la radice ontologica di fenomeni quali la trasformazione delle persone e dei lavoratori in risorse umane; l’obsolescenza pianificata degli oggetti di uso quotidiano; l’agricoltura intensiva; la distruzione dell’ambiente e quindi dell’umano in esso; la sostituibilità universale; la trasmutazione integrale del vivente a strumento di profitto, per cui «ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi».
Questa riduzione dell’intero a Gestell (impianto) e a semplice Bestand (fondo, magazzino, risorsa) è oggetto di una delle pagine più intense e attuali del seminario che Heidegger svolse a Le Thor nel 1969. Ne riporto alcuni brani.

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Cerchiamo ora di portare allo scoperto questa pre-apparizione dell’evento sotto il velo dell’impianto.
Bisogna cominciare ritornando alla storia dell’essere. Le diverse epoche della storia dell’essere -il differente e successivo sottrarsi dell’essere nel suo destino- sono le epoche dei diversi modi in cui la presenza si destina all’uomo occidentale. Si pensi a una di queste destinazioni, così come essa si destina all’uomo del XIX e XX secolo: in che cosa consiste?
Il modo di questa destinazione è l’oggettualità (come «essere oggetto» dell’oggetto). Ora, più la tecnica moderna si dispiega più l’oggettività si trasforma nell’essere risorsa (Beständlichkeit), in un tenersi-a-disposizione. Già oggi non c’è più nessun oggetto (nessun ente, nel senso di qualcosa che resiste di fronte a un soggetto che lo prende in considerazione), – ci sono ormai soltanto risorse (Bestände), enti che si tengono pronti per essere consumati; si potrebbe forse dire: non ci sono più sostanze, ma mezzi di sussistenza, nel senso di «riserve». Di qui la politica energetica e la politica dello sfruttamento delle risorse agricole, che effettivamente non hanno più niente a che fare con oggetti, ma, all’interno di una pianificazione generale, mettono sistematicamente ordine nello spazio in vista di uno sfruttamento futuro. Tutto (l’ente nella sua totalità) si allinea senz’altro all’orizzonte dell’utilizzabilità, del dominio o, meglio ancora, dell’ordinabilità, di ciò di cui bisogna impadronirsi. Il bosco smette di essere un oggetto (come era per l’uomo di scienza del XVIII-XIX secolo) e diviene, per l’uomo emerso finalmente nella sua vera forma di tecnico, cioè per l’uomo che vede a priori l’ente nell’orizzonte dell’utilizzazione, «spazio verde». Niente può più apparire nella neutralità oggettiva di un «di fronte». Ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi.
La determinazione ontologica della risorsa (dell’ente come riserva di materiali) non è la stabilità (la durata persistente nel tempo), ma l’ordinabilità, la costante possibilità di essere ordinato e adoperato, cioè il permanente star-a-disposizione. Nell’ordinabilità l’ente è posto come fondamentalmente ed esclusivamente disponibile, – disponibile per il consumo nella pianificazione globale.
Uno dei momenti essenziali del modo di essere dell’ente attuale (la disponibilità per un consumo pianificato) è la sostituibilità, il fatto che ogni ente diviene essenzialmente sostituibile in un gioco diventato generale, in cui tutto può prendere il posto di tutto. L’industria dei prodotti di «consumo» e il predominio del «surrogato» rendono tutto questo empiricamente manifesto.
Essere è oggi essere sostituibile. Già l’idea stessa di una «riparazione» è diventata un’idea «antieconomica». A ogni ente di consumo appartiene essenzialmente il fatto che esso è già consumato e chiede di essere sostituito. In ciò abbiamo davanti a noi una delle forme di svenimento (Schwund) del tradizionale, di ciò che viene tramandato di generazione in generazione. […] Riferito al tempo, questo carattere dà come risultato l’attualità. La durata non è più la stabilità del tramandato, ma il sempre-nuovo dell’incessante cambiamento.
[Seminari, (Vier Seminare. Zürcher Seminar), a cura di F. Volpi, trad. di M. Bonola, Adelphi 2003, pp. 140-142]

(Testo tedesco)
Versuchen wir nun, diese Vor-Erscheinung des Ereignisses unter dem Schleier des Ge-stells ins Freie zu bringen.
Der Anfang muß durch einen Rückgang auf die Geschichte des Seins gemacht werden. Die verschiedenen Epochen der Geschichte des Seins – das unterschiedliche und aufeinander folgende Sichentziehen des Seins in seinem Geschick – sind die Epochen der verschiedenen Weisen, in denen sich dem abendländischen Menschen die Anwesenheit zuschickt. Bedenkt man eine dieser Schickungen, wie sie sich im 19. und 20. Jahrhundert dem Menschen zuschickt, worin besteht sie ?
Die Art dieser Schickung ist die Gegenständlichkeit (als Gegenstandsein des Gegenstandes). Je weiter sich nun die moderne Technik entfaltet, umso mehr verwandelt sich die Gegenständlichkeit in Beständlichkeit (in ein sich-zur-Verfügung- halten) . Schon heute gibt es keine Gegenstände mehr (kein Seiendes, insofern es einem Subjekt gegenüber, das es in den Blick faßt, standhält), – es gibt nur noch Bestände (Seiendes, das sich zum Verbrauchtwerden bereit hält) ; im Französischen könnte man vielleicht sagen : es gibt keine Substanzen mehr, sondern Subsistenzmittel im Sinne von »Vorräten«. Daher die Energiepolitik und die Politik der Bodenbewirtschaftung, die es tatsächlich nicht mehr mit Gegenständen zu tun haben, sondern den Raum innerhalb einer allgemeinen Planung systematisch im Hinblick auf zukünftige Ausbeutung ordnen. Alles (das Seiende im Ganzen) reiht sich ohne weiteres in den Horizont der Nutzbarkeit, der Beherrschung oder besser noch der Bestellbarkeit dessen ein, dessen es sich zu bemächtigen gilt. Der Wald hört auf, ein Gegenstand zu sein (was er für den wissenschaftlichen Menschen des 18. und 19. Jahrhunderts war) und wird für den endlich in seiner wahren Gestalt als Techniker hervorgetretenen Menschen, das heißt für den Menschen, der das Seiende a priori im Horizont der Nutzbarmachung sieht, zum »Grünraum«. Es kann nichts mehr in der gegenständlichen Neutralität eines Gegenüber erscheinen. Es gibt nichts mehr als Bestände : Lager, Vorräte, Mittel.
Die ontologische Bestimmung des Bestands (des Seienden als Materialvorrat) ist nicht die Beständigkeit (die beständige Dauer), sondern die Bestellbarkeit, die beständige Möglichkeit, aufgeboten und bestellt zu werden, das heißt das dauernde zur-Verfügung-stehen. In der Bestellbarkeit ist das Seiende gesetzt als von Grund auf und ausschließlich verfügbar, – verfügbar für den Verbrauch in der Planung des Ganzen.
Eines der wesentlichen Momente der Seinsweise des derzeitigen Seienden (der Verfügbarkeit für einen planmäßig gelenkten Verbrauch) ist die Ersetzbarkeit, die Tatsache, daß jedes Seiende wesenhaft ersetzbar wird in einem allgemein gewordenen Spiel, wo alles an die Stelle von allem treten kann. Die Industrie der »Verbrauchs«produkte und die Vorherrschaft des Ersatzes machen das empirisch offenkundig.
Sein ist heute Ersetzbarsein. Schon die Vorstellung einer »Reparatur« ist zu einem »antiökonomischen« Gedanken geworden. Zu jedem Seienden des Verbrauchs gehört wesentlich, daß es schon verbraucht ist und somit nach seinem Ersetztwerden ruft. Darin haben wir eine der Formen des Schwundes im Uberlieferungsmäßigen vor uns, dessen was von Generation zu Generation weitergegeben wird.  […]  Auf die Zeit bezogen, ergibt dieser Charakter die Aktualität. Die Dauer ist nicht mehr die Beständigkeit des Überkommenen, sondern das Immerneue des unablässigen Wechsels.
(Seminare, «Gesamtausgabe», Band 15, herausgegeben von Curd Ochwadt, Vittorio Klostermann 1986, pp. 367-369).

βιος / ζωη

La lezione di Sociologia della cultura svolta al Disum di Catania il 26.4.2018 è stata dedicata a Dioniso. Ne ho messo a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi).

Che cosa gli umani temono più di tutto? Il dolore, la morte, il nulla. Sono queste le forme di radicale annientamento della vita universale e di quel grumo d’essere che ogni ente rappresenta. Ciascuna forma nella quale il mondo si sostanzia cerca i mezzi e adotta le strategie più efficaci allo scopo di perpetuarsi. I Greci avevano due parole per definire la forza dell’essere che non muore. Due parole assai diverse. ζωή è la nuda vita, la vita senza altre caratterizzazioni, il puro esistere. βίος è la singolarità della forma, l’unicità effimera di ogni ente. Una delle condizioni affinché la ζωή si perpetui è che il βίος si annienti. Sta anche qui l’inoltrepassabile tragicità dell’esistenza. Da tale consapevolezza è nato il pensiero greco con Anassimandro: 

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον….ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεὼν διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν.
(Principio degli esseri è l’apeiron, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito…Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la distruzione in modo necessario: le cose che sono tutte transeunti, infatti, subiscono l’una dall’altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia secondo l’ordine del Tempo)
Anassimandro, in Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13; DK, B 1

Il Tempo è la forma che fa del βίος un anello nella catena della ζωή. Nel primo istante in cui i viventi si staccano dalla ζωή diventando vita caratterizzata, identità distinta e tempo separato, in quell’istante è già cominciato il processo della fine: «Das Seyn der endlichen Dinge als solches ist, den Keim des Vergehens als ihr Insichseyn zu haben, die Stunde ihrer Geburt ist die Stunde ihres Todes» (L’essere delle cose finite in quanto tale è di avere come proprio in sé il germe del trapassare, l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte; Hegel, Logik, «Sämtliche Werke», Frommann 1965, Band IV, p. 147).
Il non esserci più è la condizione dell’esserci stato. La finitudine non è una delle tante possibili tonalità emotive della vita, la finitudine è la struttura costitutiva di ogni forma che emerge dal tutto indistinto dell’essere. L’umano è il luogo in cui la dinamica dell’esistere come vita che è mentre muore diventa consapevole di sé: «So wie das Dasein vielmehr ständig, solange es ist, schon sein Noch-nicht ist, so ist es auch schon immer sein Ende. Das mit dem Tod gemeinte Enden bedeutet kein Zu-Ende-sein des Daseins, sondern ein Sein zum Ende dieses Seienden. Der Tod ist eine Weise zu sein, die das Dasein übernimmt, sobald es ist» (L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo “non ancora”, è anche già sempre la sua morte. Il finire proprio della morte non significa affatto un essere alla fine dell’Esserci, ma un esser-per-la-fine da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è; Heidegger, Sein und Zeit, «Gesamtausgabe», Klostermann 1977, Band 2, § 48, p. 326; trad. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Longanesi 1976, p. 300).
È da qui che scaturisce il mito greco e con esso Dioniso, il nome della vita indistruttibile. Il miele fermentato, la vite e il vino hanno cercato un nome sacro per esprimere la forza della Terra. Questo nome è Dioniso e i miti che lo cantano sono un’«epifania degli dèi per mezzo del linguaggio» (Kerényi, Dioniso, Adelphi 1998, p. 34).
Dioniso è insieme il sacrificatore, il sacrificato e il dio al quale si sacrifica: κεῖρε, κάκιστε, γναθμοῖς ἡμέτερον κλῆμα τὸ καρποφόρον· ῥίζα γὰρ ἔμπεδος οὖσα πάλιν γλυκὺ νέκταρ ἀνήσει ὅσσον ἐπισπεῖσαι σοί, τράγε, θυομένῳ (Divorami soltanto i tralci ricchi di frutti: le radici produrranno ancora abbastanza vino per irrorarti, quando verrai sacrificata!, Leonida di Taranto, Anthologia palatina, IX, 99). È questa la vera formula della resurrezione.

Svelamento

Heidegger e il Sacro
in Aquinas. Rivista internazionale di filosofia
Numero 2017 | LX | 1-2. «Martin Heidegger. Cammini e Opera»
Lateran University Press, 2018
Pagine 289-299

Ho cercato in questo saggio di fare il punto della mia comprensione di Heidegger, della sostanza profonda e dunque metafisica del suo pensare. Heidegger afferma infatti che «la metafisica oppone resistenza a definire l’essere come un ente, per quanto sia tentata di farlo», che «la differenza ontologica è, se si vuole, la condizione della possibilità della metafisica, il luogo su cui essa si fonda» (Seminario di Le Thor, 1969). Ha dunque ragione il Direttore di Aquinas, che nel presentare questo numero della rivista ricorda come «la critica heideggeriana non presenti soltanto il lato di un ‘rapporto polemico’ con la tradizione metafisica. In essa è dato rintracciare anche il lato che, adottando un linguaggio di tipo musicale, potrebbe far parlare di una ritrascrizione dello spartito della metafisica in una ‘chiave’ diversa: la chiave, appunto, della Seinsfrage».
Metafisica è un inizio sempre aperto, un orizzonte presente sin da Sein und Zeit. Per quanto quel cammino possa essere apparso interrotto, si tratta di un itinerario che da lì è nato, che si è generato attraverso un metodo che non vuole dimostrare ma indicare; attraverso una serrata critica all’autocertezza del soggetto cartesiano che fonda se stesso e tramite sé l’intero; attraverso una verità che non è rappresentazione, corrispondenza o rectitudo, ma Entbergung -svelamento- ancor più che Unverborgenheit ‘svelatezza’; attraverso il primato generale dell’ontologia sulla gnoseologia poiché «‘velato’ e ‘svelato’ sono un carattere dell’ente come tale, non però un carattere del notare e del comprendere» (Lezioni su Parmenide, 1942-43).
Il testo è diviso in quattro paragrafi: L’inizio – La vita religiosa – Metafisica – Gnosi.

 

Su Eugenio Mazzarella

Introduzione alla filosofia di Eugenio Mazzarella 
in Vita pensata
Numero 17 – Aprile 2018
Pagine 55-58

Il cammino teoretico intrapreso da Eugenio Mazzarella con Tecnica e metafisica (1981) e proseguito con le analisi critiche dedicate alla storicità, all’abitare, alla vita, alla fede cristiana, all’identità, all’ontologia, mostra evidente tutta la sua coerenza. Finitudine è uno dei nuclei teoretici costanti di tale pensiero, che prende avvio da un esplicito «richiamo alla finitezza» dell’umano, anche a proposito della fondamentale questione della tecnica. La filosofia, che è scaturita dall’esigenza apollinea della conoscenza di sé, ha infatti rischiato nel moderno e rischia ancora di dimenticare la consapevolezza del limite, per inoltrarsi negli spazi della fondazione soggettivistico-tecnica dell’esserci umano.
Con la sua riflessione pacata, tenace, sempre fedele allo specifico di una filosofia che si confronta a fondo con le scienze umane ma a esse rimane irriducibile, Mazzarella elabora una prospettiva tanto teoreticamente forte quanto più costruita sull’accettazione umile e insieme orgogliosa di ciò che da sempre siamo e per sempre rimarremo, un filosofare che è «sapere finito del finito», un sapere che rifiuta di trasformare l’«originarietà del presso di noi dell’Assoluto» in «un insostenibile in forza di noi», un sapere che nella pienezza di una pace conquistata accetta il mondo, il frammento che ogni cosa rappresenta, il proprio sé, e accettando benedice: «e tutto è un solo andare / un solo ascendere / più vicino alla polpa della luce», come cantano alcuni dei suoi versi.

Interpretans

Giovedì 7.6.2018 alle 15,15 terrò una relazione nell’ambito della «Giornata dei Dottorati Italiani di Scienze del Testo e dell’Interpretazione». L’evento ha per argomento Leggere, tradurre, pensare e si svolgerà il 7 e l’8 giugno nell’Auditorium del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict.
Il titolo della mia relazione è Animal Interpretans.

Il cuore dell’ermeneutica è costituito dal gioco tra il dato e il significato. Pervasività, varietà e universalità del segno sono state da sempre oggetto del discorso filosofico. Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi.
Heidegger e Gadamer hanno trasformato l’ermeneutica da metodica delle scienze dello spirito a ontologia. Un’ontologia che affonda nella temporalità; nell’insieme di rimandi fra il passato della tradizione e il presente della comprensione; nella Wirkungsgeschichte, la «storia degli effetti» che l’opera ha generato e nella quale consiste il suo significato più pieno; nella Horizontverschmelzung, la «fusione di orizzonti» che accade sia fra gli interlocutori del dialogo sia tra loro e il testo che proviene dal passato e parla nell’adesso.
L’essere degli umani è sempre storico, temporale, linguistico. Il che equivale a dire che l’essere degli umani è costitutivamente ermeneutico.

Heidegger

Franco Volpi
La selvaggia chiarezza
Scritti su Heidegger 
Adelphi, 2011
Pagine 336

Le Avvertenze di Franco Volpi alle traduzioni dei testi di Martin Heidegger costituiscono una tra le più chiare e profonde introduzioni al filosofo, una guida al pensiero e alla personalità di un «uomo complicato, impenetrabile, tagliente»  (come scrive Antonio Gnoli, qui a p. 16) che fece di se stesso non una ma la voce stessa della filosofia. Per Heidegger infatti il lavoro filosofico è tutto. È una «scelta di vita radicale» (220) che si esprime non in quanto «attività teoretica fra le altre, come un sistema di teorie e dottrine indifferente alla vita, ma come una comprensione della vita che implica una forma di vita e dà forma alla vita. La filosofia non è solo sapere, ma è anche scelta di vita: è salvezza e redenzione» (247).
Greco tra i Greci, che per lui sono «l’alpha e l’omega della filosofia» (159); gnostico tra gli gnostici, tramite i quali va «in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide» (44), Heidegger fu radicalmente filosofo e radicalmente docente, fu la filosofia stessa che attraverso la sua voce/scrittura parlava e continua a parlare:

«Tutti coloro che ebbero il privilegio di ascoltare direttamente Heidegger, disposti o meno che fossero a seguirlo nel cammino da lui intrapreso, su un punto concordano nelle loro testimonianze: l’‘insegnamento orale’ di questo ‘sciamano della parola’ aveva un qualcosa di travolgente. Osservare Heidegger ‘al lavoro’, vederlo all’opera nell’atto stesso del pensare, nel confronto diretto con i problemi, i testi e la tradizione della filosofia, era come assistere allo spettacolo di una forza della natura» (69).

Le analisi di Volpi costituiscono un itinerario über, oltre, al di là di un primo e secondo Heidegger; al di là di idealismo e realismo; al di là di soggettività e oggettività; al di là dell’equivoco nazista; lontano sia dal «neoumanesimo classicheggiante, sia dalla Weltanschauung cattolico-umanista di un Theodor Haecker […] sia infine dall’ideologia nazionalsocialista» (155); al di là del bene e del male, «virtù e morale hanno ormai soltanto la bellezza di fossili rari» (125); al di là di vitalismo e teoreticismo; e invece a favore di «una comprensione della vita che non sia, ancora una volta, né teoria astratta lontana dalla fatticità del vivere, né semplice lasciarsi andare al suo irrequieto fluire. La comprensione heideggeriana della vita ha uno statuto equidistante sia dall’uno che dall’altro estremo. È una ‘filosofia pratica’ che si distingue dalla vita per quel che basta a capirla nel suo movimento proprio, per poi ricadere subito su di essa e guidarla, sulla scorta di tale comprensione, alla sua riuscita, alla sua salvezza, riprendendola dalla perdizione e aiutandola a ritrovare se stessa» (253).
Al di là di categorie e dualismi che furono significativi ma che sono ormai diventati dei miti teoretici invalidanti, «la coerente e martellante interrogazione filosofica heideggeriana» (157) ripropone l’antica domanda dei filosofi: «pourquoy il y a plustôt quelque chose que rien? Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts? Perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?» (229), perché c’è la pienezza del qualcosa piuttosto che l’abisso del nulla?
Il tentativo di rispondere a tale domanda è la filosofia di Heidegger ed è la filosofia di Aristotele. Quest’uomo fu sostanzialmente un aristotelico, come è chiaro dalla ricchezza, densità e numero dei riferimenti allo Stagirita, è chiaro dalla fonte primaria che l’Etica Nicomachea rappresenta per Sein und Zeit, è chiaro dalla convinzione che sempre nutrì che «soltanto con Aristotele la filosofia giunge all’attuazione piena della sua natura di ontologia, giacché solo con lui si introduce in maniera consapevole ed esplicita la differenza tra la considerazione dell’essere e quella dell’ente» (196).
Questa differenza è la metafisica nel suo scaturire e nel suo tornare –Kehre in tedesco fa riferimento anche ai tornanti delle strade di montagna-; nel suo trasformare in ontologia ogni cosa che tocca, ogni questione che affronta, ogni domanda che pone, ogni risposta che tenta. Perché «il bisogno di metafisica precede la descrizione logico-scientifica dell’ente, ed è una possibilità radicata nella struttura stessa dell’esserci» (219).
Metafisica, Seinsfrage, ontologia, significano e si squadernano «come Ereignis, ‘evento-appropriazione’, cioè come coappartenenza di Essere ed esserci» (279), Eternità e Divenire, Χρόνος e Aἰών, βίος e ζωή, Uno e Molti, Ἁρμονία e Πόλεμος, e soprattutto Identità e Differenza. La metafisica, la sua potenza, è il pensiero che tiene ferme le differenze in quanto differenze e nello stesso tempo ne mostra le relazioni, senza le quali le differenze non sorgerebbero, non apparirebbero, non sarebbero.
La più fonda, fondante, fondamentale delle identità e differenze con le quali il bambino eracliteo gioca e dà esistenza al mondo è quella tra gli enti e l’essere, tra lo stare e il durare, tra il Sein e il Wesen. Insieme costituiscono il καιρός, il tempo perfetto. Il pensiero di Martin Heidegger riverbera questa perfezione e la indica. L’ontologia fenomenologica ha in lui mostrato l’interminata dinamica di essere, verità e tempo. Ha mostrato ed è stata la metafisica finalmente compiuta e quindi oltrepassata, über.

Metafisica

Giovedì 5 aprile 2018 alle 16,00 nell’aula 252 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania terrò un seminario dal titolo «Metaphysics is now respectable again». Si  tratta della prima lezione di un laboratorio organizzato da alcuni docenti e studenti del Disum, dedicato a Filosofia analitica e continentale.
La linea teoretica sulla quale mi muoverò parte dall’assunto che la filosofia consista  anche nel comprendere ciò che siamo dentro l’intero che noi non siamo. Per questo il  metodo e la natura del lavoro filosofico sono fenomenologici e consistono anche nell’autocorrezione della tendenza idealistica, la quale subordina gli enti alla loro conoscenza da parte di un corpomente,  e nell’autocorrezione della tendenza realistica di un corpomente che ritiene di poter conoscere il mondo prescindendo da sé.
In realtà, ogni pensiero che si esprime sul mondo, ogni parola che dice il reale, ogni sentire estetico, concetto logico, legge fisica, hanno come fondamento una metafisica, esplicita  o implicita che sia. E questo va detto anche al di là di Nietzsche, al di là di Heidegger. E certamente al di là di ogni riduzionismo.

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