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Contro il Politicamente corretto

L’Âge des ténèbres
(titolo italiano L’età barbarica)
di Denys Arcand
Canada, 2007
Con: Marc Labrèche (Jean-Marc Leblanc), Sylvie Leonard (Sylvie Cormier-Leblanc) (Diane Kruger (Veronica Star), Caroline Neron (Carole Bigras-Bourque), Macha Grenon (Beatrice di Savoia), Emma De Caunes (Karine Tendance)
Trailer del film

Il governo del Québec emana una legge che proibisce l’utilizzo di parole antiche, dirette, eloquenti, come ‘negro’ o ‘nano’. Chi le usa rischia l’incriminazione, il licenziamento, la condanna sociale. È quanto accade a Jean-Marc Leblanc. Ennesimo evento, questo, di una ‘vita insignificante’, con una moglie rampante, delle figlie indifferenti, dei capoufficio conformisti e idioti, che sottopongono gli impiegati a training del sorriso completamente artificiosi e a corsi motivazionali del tutto scoraggianti. Di fronte all’insensatezza, allo squallore, alla violenza travestita da rispetto, il protagonista del film si rifugia nell’allucinazione e nel sogno di una vita di successo. Soluzione disperata e nichilistica. Meglio reagire e chiamare la stupidità del Politically correct per quello che è: una delle più gravi e significative manifestazioni del conformismo che domina la Società dello Spettacolo.
Non si tratta certo di un film o di sola finzione. Si moltiplicano ovunque -a partire naturalmente dagli Stati Uniti d’America- le norme che proibiscono l’uso di parole ‘offensive’. Ma a tutti alcune parole risultano offensive. A me, ad esempio, offendono non pochi sostantivi, espressioni e aggettivi di uso sempre più pervasivo. Ho quindi il diritto di chiedere che tali parole non si pronuncino in mia presenza poiché ne rimango offeso? No, naturalmente.
Grave è anche la violenza espressiva implicita nella sostituzione del maschile neutro con soluzioni un po’ grottesche e un po’ patetiche del tipo ‘dello/della studente/studentessa’ o ‘student*’. La lingua è donna e merita di essere rispettata, non di essere violata in questo modo.
Le parole sono sacre. Comunità e civiltà che cominciano a violentare le parole danno un segno esplicito della propria ferocia. Dietro questa dittatura del politicamente corretto si cela una sostanziale indifferenza nei confronti dei reali bisogni dei disoccupati, delle vittime della violenza, degli anziani. Il politicamente corretto costituisce anzi una delle cause dell’ingiustizia, in quanto rappresenta l’alibi che ritiene di poter sanare e nascondere con un linguaggio asettico la ferita sociale. Come sostiene Robert Hughes, il Politically correct è «una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo».
Sono animalista e vegetariano ma ritengo gravissimo e insensato -un vero e proprio atto criminoso- voler censurare o stravolgere le moltissime fiabe nelle quali il lupo o altri animali appaiono in una chiave del tutto negativa. Eppure è quanto fanno seriamente negli Stati Uniti d’America. Allo stesso modo c’è chi comincia a invocare la censura di Shakespeare e di Dante Alighieri in quanto antisemiti e antislamici. Quando infatti si inizia a percorrere la china dei divieti linguistici, l’esito non può che essere la cancellazione della letteratura o la sua distruttiva ‘riscrittura’.
Amo le parole, tutte. Anche quelle che non mi piacciono. Perché «l’‘essere nel mondo’ dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal parlare» (Martin Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Adelphi 2017, p. 53). Un parlare libero, armonioso, semplice e funzionale. Non censurato o autocensurato dal timore che qualcuno si possa sentire offeso dal nostro linguaggio. Per non offendere nessuno sarebbe infatti necessario stare zitti. Che è, di fatto, il vero e ultimo esito di ogni dire politicamente corretto, di un‘âge des ténèbres, un’epoca di tenebre.

Tempo e coscienza

Tempo e coscienza nelle analisi di Paul Ricoeur, Francisco Varela, Henri Bergson, William James, Eugène Minkovski, Russell Foster, Leon Kreitzman, Arnaldo Benini, Claudia Hammond, Thomas Mann, Martin Heidegger. Un percorso nel quale ho accennato anche ai fondamenti di una psicologia e una metafisica della luce.
E tutto questo in dialogo costante e partecipe con gli allievi della Scuola Superiore e con altri studenti dell’Università di Catania.
Pubblico dunque su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile) della seconda e ultima lezione sulla Coscienza  che ho svolto  il 4 maggio 2018.

[Prima lezione del 3 maggio 2018]

[Photo by Daniele Levis Pelusi on Unsplash]

«Risorse umane»

La filosofia di Martin Heidegger è anche strumento di emancipazione e costituisce uno dei fondamenti teorici più importanti della Deep Ecology.
Lo testimoniano opere, saggi, l’intervista allo Spiegel, testi che hanno a fondamento la celebre espressione secondo la quale «der Mensch ist nicht der Herr des Seienden. Der Mensch ist der Hirt des Seins» (‘l’uomo non è il dominatore degli enti. L’uomo è il pastore dell’essere’, «Brief über den Humanismus» [1947], in Wegmarken, «Gesamtausgabe», Band 9, herausgegeben von Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Vittorio Klostermann 1976, p. 342).
In generale, Heidegger ha saputo cogliere la radice ontologica di fenomeni quali la trasformazione delle persone e dei lavoratori in risorse umane; l’obsolescenza pianificata degli oggetti di uso quotidiano; l’agricoltura intensiva; la distruzione dell’ambiente e quindi dell’umano in esso; la sostituibilità universale; la trasmutazione integrale del vivente a strumento di profitto, per cui «ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi».
Questa riduzione dell’intero a Gestell (impianto) e a semplice Bestand (fondo, magazzino, risorsa) è oggetto di una delle pagine più intense e attuali del seminario che Heidegger svolse a Le Thor nel 1969. Ne riporto alcuni brani.

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Cerchiamo ora di portare allo scoperto questa pre-apparizione dell’evento sotto il velo dell’impianto.
Bisogna cominciare ritornando alla storia dell’essere. Le diverse epoche della storia dell’essere -il differente e successivo sottrarsi dell’essere nel suo destino- sono le epoche dei diversi modi in cui la presenza si destina all’uomo occidentale. Si pensi a una di queste destinazioni, così come essa si destina all’uomo del XIX e XX secolo: in che cosa consiste?
Il modo di questa destinazione è l’oggettualità (come «essere oggetto» dell’oggetto). Ora, più la tecnica moderna si dispiega più l’oggettività si trasforma nell’essere risorsa (Beständlichkeit), in un tenersi-a-disposizione. Già oggi non c’è più nessun oggetto (nessun ente, nel senso di qualcosa che resiste di fronte a un soggetto che lo prende in considerazione), – ci sono ormai soltanto risorse (Bestände), enti che si tengono pronti per essere consumati; si potrebbe forse dire: non ci sono più sostanze, ma mezzi di sussistenza, nel senso di «riserve». Di qui la politica energetica e la politica dello sfruttamento delle risorse agricole, che effettivamente non hanno più niente a che fare con oggetti, ma, all’interno di una pianificazione generale, mettono sistematicamente ordine nello spazio in vista di uno sfruttamento futuro. Tutto (l’ente nella sua totalità) si allinea senz’altro all’orizzonte dell’utilizzabilità, del dominio o, meglio ancora, dell’ordinabilità, di ciò di cui bisogna impadronirsi. Il bosco smette di essere un oggetto (come era per l’uomo di scienza del XVIII-XIX secolo) e diviene, per l’uomo emerso finalmente nella sua vera forma di tecnico, cioè per l’uomo che vede a priori l’ente nell’orizzonte dell’utilizzazione, «spazio verde». Niente può più apparire nella neutralità oggettiva di un «di fronte». Ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi.
La determinazione ontologica della risorsa (dell’ente come riserva di materiali) non è la stabilità (la durata persistente nel tempo), ma l’ordinabilità, la costante possibilità di essere ordinato e adoperato, cioè il permanente star-a-disposizione. Nell’ordinabilità l’ente è posto come fondamentalmente ed esclusivamente disponibile, – disponibile per il consumo nella pianificazione globale.
Uno dei momenti essenziali del modo di essere dell’ente attuale (la disponibilità per un consumo pianificato) è la sostituibilità, il fatto che ogni ente diviene essenzialmente sostituibile in un gioco diventato generale, in cui tutto può prendere il posto di tutto. L’industria dei prodotti di «consumo» e il predominio del «surrogato» rendono tutto questo empiricamente manifesto.
Essere è oggi essere sostituibile. Già l’idea stessa di una «riparazione» è diventata un’idea «antieconomica». A ogni ente di consumo appartiene essenzialmente il fatto che esso è già consumato e chiede di essere sostituito. In ciò abbiamo davanti a noi una delle forme di svenimento (Schwund) del tradizionale, di ciò che viene tramandato di generazione in generazione. […] Riferito al tempo, questo carattere dà come risultato l’attualità. La durata non è più la stabilità del tramandato, ma il sempre-nuovo dell’incessante cambiamento.
[Seminari, (Vier Seminare. Zürcher Seminar), a cura di F. Volpi, trad. di M. Bonola, Adelphi 2003, pp. 140-142]

(Testo tedesco)
Versuchen wir nun, diese Vor-Erscheinung des Ereignisses unter dem Schleier des Ge-stells ins Freie zu bringen.
Der Anfang muß durch einen Rückgang auf die Geschichte des Seins gemacht werden. Die verschiedenen Epochen der Geschichte des Seins – das unterschiedliche und aufeinander folgende Sichentziehen des Seins in seinem Geschick – sind die Epochen der verschiedenen Weisen, in denen sich dem abendländischen Menschen die Anwesenheit zuschickt. Bedenkt man eine dieser Schickungen, wie sie sich im 19. und 20. Jahrhundert dem Menschen zuschickt, worin besteht sie ?
Die Art dieser Schickung ist die Gegenständlichkeit (als Gegenstandsein des Gegenstandes). Je weiter sich nun die moderne Technik entfaltet, umso mehr verwandelt sich die Gegenständlichkeit in Beständlichkeit (in ein sich-zur-Verfügung- halten) . Schon heute gibt es keine Gegenstände mehr (kein Seiendes, insofern es einem Subjekt gegenüber, das es in den Blick faßt, standhält), – es gibt nur noch Bestände (Seiendes, das sich zum Verbrauchtwerden bereit hält) ; im Französischen könnte man vielleicht sagen : es gibt keine Substanzen mehr, sondern Subsistenzmittel im Sinne von »Vorräten«. Daher die Energiepolitik und die Politik der Bodenbewirtschaftung, die es tatsächlich nicht mehr mit Gegenständen zu tun haben, sondern den Raum innerhalb einer allgemeinen Planung systematisch im Hinblick auf zukünftige Ausbeutung ordnen. Alles (das Seiende im Ganzen) reiht sich ohne weiteres in den Horizont der Nutzbarkeit, der Beherrschung oder besser noch der Bestellbarkeit dessen ein, dessen es sich zu bemächtigen gilt. Der Wald hört auf, ein Gegenstand zu sein (was er für den wissenschaftlichen Menschen des 18. und 19. Jahrhunderts war) und wird für den endlich in seiner wahren Gestalt als Techniker hervorgetretenen Menschen, das heißt für den Menschen, der das Seiende a priori im Horizont der Nutzbarmachung sieht, zum »Grünraum«. Es kann nichts mehr in der gegenständlichen Neutralität eines Gegenüber erscheinen. Es gibt nichts mehr als Bestände : Lager, Vorräte, Mittel.
Die ontologische Bestimmung des Bestands (des Seienden als Materialvorrat) ist nicht die Beständigkeit (die beständige Dauer), sondern die Bestellbarkeit, die beständige Möglichkeit, aufgeboten und bestellt zu werden, das heißt das dauernde zur-Verfügung-stehen. In der Bestellbarkeit ist das Seiende gesetzt als von Grund auf und ausschließlich verfügbar, – verfügbar für den Verbrauch in der Planung des Ganzen.
Eines der wesentlichen Momente der Seinsweise des derzeitigen Seienden (der Verfügbarkeit für einen planmäßig gelenkten Verbrauch) ist die Ersetzbarkeit, die Tatsache, daß jedes Seiende wesenhaft ersetzbar wird in einem allgemein gewordenen Spiel, wo alles an die Stelle von allem treten kann. Die Industrie der »Verbrauchs«produkte und die Vorherrschaft des Ersatzes machen das empirisch offenkundig.
Sein ist heute Ersetzbarsein. Schon die Vorstellung einer »Reparatur« ist zu einem »antiökonomischen« Gedanken geworden. Zu jedem Seienden des Verbrauchs gehört wesentlich, daß es schon verbraucht ist und somit nach seinem Ersetztwerden ruft. Darin haben wir eine der Formen des Schwundes im Uberlieferungsmäßigen vor uns, dessen was von Generation zu Generation weitergegeben wird.  […]  Auf die Zeit bezogen, ergibt dieser Charakter die Aktualität. Die Dauer ist nicht mehr die Beständigkeit des Überkommenen, sondern das Immerneue des unablässigen Wechsels.
(Seminare, «Gesamtausgabe», Band 15, herausgegeben von Curd Ochwadt, Vittorio Klostermann 1986, pp. 367-369).

βιος / ζωη

La lezione di Sociologia della cultura svolta al Disum di Catania il 26.4.2018 è stata dedicata a Dioniso. Ne ho messo a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi).

Che cosa gli umani temono più di tutto? Il dolore, la morte, il nulla. Sono queste le forme di radicale annientamento della vita universale e di quel grumo d’essere che ogni ente rappresenta. Ciascuna forma nella quale il mondo si sostanzia cerca i mezzi e adotta le strategie più efficaci allo scopo di perpetuarsi. I Greci avevano due parole per definire la forza dell’essere che non muore. Due parole assai diverse. ζωή è la nuda vita, la vita senza altre caratterizzazioni, il puro esistere. βίος è la singolarità della forma, l’unicità effimera di ogni ente. Una delle condizioni affinché la ζωή si perpetui è che il βίος si annienti. Sta anche qui l’inoltrepassabile tragicità dell’esistenza. Da tale consapevolezza è nato il pensiero greco con Anassimandro: 

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον….ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεὼν διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν.
(Principio degli esseri è l’apeiron, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito…Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la distruzione in modo necessario: le cose che sono tutte transeunti, infatti, subiscono l’una dall’altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia secondo l’ordine del Tempo)
Anassimandro, in Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13; DK, B 1

Il Tempo è la forma che fa del βίος un anello nella catena della ζωή. Nel primo istante in cui i viventi si staccano dalla ζωή diventando vita caratterizzata, identità distinta e tempo separato, in quell’istante è già cominciato il processo della fine: «Das Seyn der endlichen Dinge als solches ist, den Keim des Vergehens als ihr Insichseyn zu haben, die Stunde ihrer Geburt ist die Stunde ihres Todes» (L’essere delle cose finite in quanto tale è di avere come proprio in sé il germe del trapassare, l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte; Hegel, Logik, «Sämtliche Werke», Frommann 1965, Band IV, p. 147).
Il non esserci più è la condizione dell’esserci stato. La finitudine non è una delle tante possibili tonalità emotive della vita, la finitudine è la struttura costitutiva di ogni forma che emerge dal tutto indistinto dell’essere. L’umano è il luogo in cui la dinamica dell’esistere come vita che è mentre muore diventa consapevole di sé: «So wie das Dasein vielmehr ständig, solange es ist, schon sein Noch-nicht ist, so ist es auch schon immer sein Ende. Das mit dem Tod gemeinte Enden bedeutet kein Zu-Ende-sein des Daseins, sondern ein Sein zum Ende dieses Seienden. Der Tod ist eine Weise zu sein, die das Dasein übernimmt, sobald es ist» (L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo “non ancora”, è anche già sempre la sua morte. Il finire proprio della morte non significa affatto un essere alla fine dell’Esserci, ma un esser-per-la-fine da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è; Heidegger, Sein und Zeit, «Gesamtausgabe», Klostermann 1977, Band 2, § 48, p. 326; trad. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Longanesi 1976, p. 300).
È da qui che scaturisce il mito greco e con esso Dioniso, il nome della vita indistruttibile. Il miele fermentato, la vite e il vino hanno cercato un nome sacro per esprimere la forza della Terra. Questo nome è Dioniso e i miti che lo cantano sono un’«epifania degli dèi per mezzo del linguaggio» (Kerényi, Dioniso, Adelphi 1998, p. 34).
Dioniso è insieme il sacrificatore, il sacrificato e il dio al quale si sacrifica: κεῖρε, κάκιστε, γναθμοῖς ἡμέτερον κλῆμα τὸ καρποφόρον· ῥίζα γὰρ ἔμπεδος οὖσα πάλιν γλυκὺ νέκταρ ἀνήσει ὅσσον ἐπισπεῖσαι σοί, τράγε, θυομένῳ (Divorami soltanto i tralci ricchi di frutti: le radici produrranno ancora abbastanza vino per irrorarti, quando verrai sacrificata!, Leonida di Taranto, Anthologia palatina, IX, 99). È questa la vera formula della resurrezione.

Svelamento

Heidegger e il Sacro
in Aquinas. Rivista internazionale di filosofia
Numero 2017 | LX | 1-2. «Martin Heidegger. Cammini e Opera»
Lateran University Press, 2018
Pagine 289-299

Ho cercato in questo saggio di fare il punto della mia comprensione di Heidegger, della sostanza profonda e dunque metafisica del suo pensare. Heidegger afferma infatti che «la metafisica oppone resistenza a definire l’essere come un ente, per quanto sia tentata di farlo», che «la differenza ontologica è, se si vuole, la condizione della possibilità della metafisica, il luogo su cui essa si fonda» (Seminario di Le Thor, 1969). Ha dunque ragione il Direttore di Aquinas, che nel presentare questo numero della rivista ricorda come «la critica heideggeriana non presenti soltanto il lato di un ‘rapporto polemico’ con la tradizione metafisica. In essa è dato rintracciare anche il lato che, adottando un linguaggio di tipo musicale, potrebbe far parlare di una ritrascrizione dello spartito della metafisica in una ‘chiave’ diversa: la chiave, appunto, della Seinsfrage».
Metafisica è un inizio sempre aperto, un orizzonte presente sin da Sein und Zeit. Per quanto quel cammino possa essere apparso interrotto, si tratta di un itinerario che da lì è nato, che si è generato attraverso un metodo che non vuole dimostrare ma indicare; attraverso una serrata critica all’autocertezza del soggetto cartesiano che fonda se stesso e tramite sé l’intero; attraverso una verità che non è rappresentazione, corrispondenza o rectitudo, ma Entbergung -svelamento- ancor più che Unverborgenheit ‘svelatezza’; attraverso il primato generale dell’ontologia sulla gnoseologia poiché «‘velato’ e ‘svelato’ sono un carattere dell’ente come tale, non però un carattere del notare e del comprendere» (Lezioni su Parmenide, 1942-43).
Il testo è diviso in quattro paragrafi: L’inizio – La vita religiosa – Metafisica – Gnosi.

 

Su Eugenio Mazzarella

Introduzione alla filosofia di Eugenio Mazzarella 
in Vita pensata
Numero 17 – Aprile 2018
Pagine 55-58

Il cammino teoretico intrapreso da Eugenio Mazzarella con Tecnica e metafisica (1981) e proseguito con le analisi critiche dedicate alla storicità, all’abitare, alla vita, alla fede cristiana, all’identità, all’ontologia, mostra evidente tutta la sua coerenza. Finitudine è uno dei nuclei teoretici costanti di tale pensiero, che prende avvio da un esplicito «richiamo alla finitezza» dell’umano, anche a proposito della fondamentale questione della tecnica. La filosofia, che è scaturita dall’esigenza apollinea della conoscenza di sé, ha infatti rischiato nel moderno e rischia ancora di dimenticare la consapevolezza del limite, per inoltrarsi negli spazi della fondazione soggettivistico-tecnica dell’esserci umano.
Con la sua riflessione pacata, tenace, sempre fedele allo specifico di una filosofia che si confronta a fondo con le scienze umane ma a esse rimane irriducibile, Mazzarella elabora una prospettiva tanto teoreticamente forte quanto più costruita sull’accettazione umile e insieme orgogliosa di ciò che da sempre siamo e per sempre rimarremo, un filosofare che è «sapere finito del finito», un sapere che rifiuta di trasformare l’«originarietà del presso di noi dell’Assoluto» in «un insostenibile in forza di noi», un sapere che nella pienezza di una pace conquistata accetta il mondo, il frammento che ogni cosa rappresenta, il proprio sé, e accettando benedice: «e tutto è un solo andare / un solo ascendere / più vicino alla polpa della luce», come cantano alcuni dei suoi versi.

Interpretans

Giovedì 7.6.2018 alle 15,15 terrò una relazione nell’ambito della «Giornata dei Dottorati Italiani di Scienze del Testo e dell’Interpretazione». L’evento ha per argomento Leggere, tradurre, pensare e si svolgerà il 7 e l’8 giugno nell’Auditorium del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict.
Il titolo della mia relazione è Animal Interpretans.

Il cuore dell’ermeneutica è costituito dal gioco tra il dato e il significato. Pervasività, varietà e universalità del segno sono state da sempre oggetto del discorso filosofico. Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi.
Heidegger e Gadamer hanno trasformato l’ermeneutica da metodica delle scienze dello spirito a ontologia. Un’ontologia che affonda nella temporalità; nell’insieme di rimandi fra il passato della tradizione e il presente della comprensione; nella Wirkungsgeschichte, la «storia degli effetti» che l’opera ha generato e nella quale consiste il suo significato più pieno; nella Horizontverschmelzung, la «fusione di orizzonti» che accade sia fra gli interlocutori del dialogo sia tra loro e il testo che proviene dal passato e parla nell’adesso.
L’essere degli umani è sempre storico, temporale, linguistico. Il che equivale a dire che l’essere degli umani è costitutivamente ermeneutico.

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