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Velut umbra

Homo fugit velut umbra
(Passacaglia della Vita)

di Anonimo (1657)
Voce Marco Beasley – Ensemble L’Arpeggiata (2002)

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In siciliano si impreca contro la «morte buttana». È vero, la morte sembra una puttana che si dà a tutti, uomini e donne, indistintamente. E tuttavia questo detto rivela non la natura del morire ma la miseria della condizione umana, il suo terrore, l’arroganza di pretendere un destino diverso da quello degli altri viventi. La Passacaglia della Vita (di anonimo, pur se spesso attribuita erroneamente a Stefano Landi) esprime invece la necessità del morire, il Sein zum Tode che ci rende ciò che siamo. È il limite temporale, infatti, che dà senso all’esserci.
Homo fugit velut umbra è un canto magnifico e danzante, eseguito da Marco Beasley con l’ensemble L’Arpeggiata diretto da Christina Pluhar, una delle più creative musiciste contemporanee. Forse anche Leonard Cohen (Who by Fire) si è ispirato a questo barocco trionfo della morte.

Oh come t’inganni se pensi che gli anni
Non han da finire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.
È un sogno la vita che par sì gradita
Che breve gioire, bisogna morire
Non val medicina, non giova la china
Non si può guarire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

Non voglion sperate in arie bravate
Che taglia da dire bisogna morire
Lustrina che giova parola non trova
Che plachi l’ardire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

Non si trova modo di scioglier ‘sto nodo
Non vale fuggire, bisogna morire
Non muta statuto, non vale l’astuto
‘Sto colpo schernire bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

Oh morte crudele, a tutti è infedele
Ognuno svergogna, morire bisogna
È pura pazzia o gran frenesia
A dirsi menzogna, morire bisogna, morire bisogna, morire bisogna.

Si more cantando, si more sonando
La cetra zampogna, morire bisogna
Si more danzando, bevendo, mangiando
Con quella carogna morire bisogna, morire bisogna, morire bisogna.

I giovani putti e gli uomini tutti
Son da incenerire, bisogna morire
I sani, gl’infermi, i bravi, gl’inermi
Tutti han da finire, bisogna morire.
E quando nemmeno ti penti nel seno
Ti vien da finire, bisogna morire.
Se tu non ti pensi hai persi li sensi
Sei morto e puoi dire: bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.
Bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire, bisogna morire.

 

«Per favore non aiutateci più!»

Mi è stato segnalato da Dario Sammartino questo articolo di Massimo Fini, uscito su il Fatto Quotidiano. Lo riporto per intero, con una postilla. Le evidenziazioni sono mie.

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Aiutiamo l’Africa andandocene via

«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere…Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranee. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario».

Questo discorso fu tenuto nel 1987 da Thomas Sankara all’ ‘assemblea dei Paesi non allineati’, OUA. Fu assassinato due mesi dopo.
Debbo la conoscenza di questo straordinario discorso, ampiamente dimenticato, a un mio giovane amico, Matteo Carta, che lo aveva ripreso da un servizio di Silvestro Montanaro per il programma di Rai3 “C’era una volta” andato in onda alle undici di sera il 18 gennaio 2013. E questa fu anche l’ultima puntata di quel programma.
Thomas Sankara arrivò al potere con un colpo di Stato che rovesciò la pseudo e corrottissima democrazia. Nei quattro anni del suo governo fece parecchie cose positive per il Burkina: si impegnò molto per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate, finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, fece un’importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel, cercò di svincolare il Paese dalle importazioni forzate. Inoltre si rifiutò di pagare i debiti coloniali. Ma non fu questo rifiuto a perderlo, Francia e Inghilterra sapevano benissimo che quei debiti non potevano essere pagati. A perderlo fu il contenuto sociale della sua opera che i Paesi occidentali non potevano tollerare. Tanto è vero che nel controcolpo di Stato che portò all’assassinio di Sankara, all’età di 38 anni come il Che, furono coinvolti oltre a Francia e Inghilterra anche gli Stati Uniti che ‘coloniali’ in senso stretto non erano stati. Sankara doveva quindi morire. Non approfittò mai del suo potere. Alla sua morte gli unici beni in suo possesso erano un piccolo conto in banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era cresciuto.
Questo discorso di Sankara è più importante di quello che Gheddafi avrebbe tenuto all’Onu nel settembre del 2009 e che gli sarebbe costato a sua volta la pelle. Gheddafi, in un linguaggio assolutamente laico, come laico era quello di Sankara, si limitò, in buona sostanza, a denunciare le sperequazioni istituzionali e legislative fra i paesi del Primo e del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ (questa immonda e razzista definizione ha un’origine abbastanza recente, fu coniata dall’economista Alfred Sauvy nel 1952 – Poca terra nel 2000). Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l’autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate dall’introduzione in Africa Nera, spesso con il pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all’Africa”. Non per nulla parecchi anni fa durante un summit del G7 i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin (Sankara era già stato ucciso) organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!” (mi pareva una notizia ma si guadagnò solo un trafiletto su Repubblica). Per questo tutti i discorsi che girano intorno al “aiutiamoli a casa loro”, che non appartengono solo a Salvini, sono pelosi. Noi questi Paesi con la nostra presenza, anche qualora, raramente, sia in buonafede, non li aiutiamo affatto. Li aiutiamo a strangolarsi meglio, a nostro uso e consumo.

Il solo modo per aiutare l’Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi. E dai piedi devono levarsi anche quelle onlus come l’Africa Milele per cui lavora, o lavorava, Silvia Romano, attualmente prigioniera nelle boscaglie del Kenya, formate da pericolosi ‘dilettanti allo sbaraglio’. Pericolosi perché -e almeno questo dovrebbe far rizzare le orecchie al nostro governo- sono facili obbiettivi di ogni sorta di banditi o di islamisti radicali a cui poi lo Stato italiano, per ottenerne la liberazione, deve pagare cospicui riscatti. È stato il caso, vergognoso, delle “due Simone” e dell’inviata dilettante del Manifesto Giuliana Sgrena la cui liberazione costò, oltre al denaro che abbiamo sborsato, la vita a Nicola Calipari. In quest’ultimo caso il soldato americano Lozano, del tutto legittimamente perché avevamo fatto le cose di soppiatto senza avvertire la filiera militare statunitense, a un check-point sparò alla macchina che si avvicinava e uccise uno dei nostri migliori agenti segreti.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018
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Il colonialismo è una realtà camaleontica. È transitato dai missionari con la buona novella agli scienziati e ingegneri con le trivelle, dal nazionalismo terzomondista agli aiuti finanziari. Sempre in nome della civiltà, dell’umanità e del progresso. Anche per questo studio e amo filosofie incivili, antiumanistiche e barbariche come quelle di Schopenhauer, di Spinoza, di Heidegger, di Nietzsche, il quale raccomandava di guardarsi dai «Gutmüthigen Mitleidigen» (Frammenti postumi 1884, 25[296]), dai buoni e compassionevoli, come da persone pericolose. Aveva naturalmente ragione.
L’intero frammento è molto interessante perché Nietzsche auspica un «nuovo illuminismo» che si opponga «come Machiavelli» all’ipocrisia delle chiese, dei politici, dei preti, dei buoni, dei civilizzati. Ecco il testo: «Die neue Aufklärung.  / Gegen die Kirchen und Priester / gegen die Staatsmänner / gegen die Gutmüthigen Mitleidigen / gegen die Gebildeten und den Luxus / in summa gegen die Tartüfferie. / gleich Macchiavell». Il colonialismo occidentalista è in ogni sua forma una delle massime espressioni della «Tartüfferie».

Riverberando luce

Qualche settimana fa il manifesto ha pubblicato un mio breve articolo dedicato a Il mondo nell’abisso. Heidegger e i Quaderni neri, di Eugenio Mazzarella. Ho tentato una presentazione più accurata e sistematica di questo libro sulla rivista Discipline Filosofiche.
In essa spero di aver meglio argomentato le ragioni per le quali  ci sono due libri –forse i soli due libri in italiano– che possono illuminare la questione Heidegger nelle sue valenze storico-politiche. Il primo è la rigorosa analisi filologica ed ermeneutica approntata da Friedrich-Wilhelm von Herrmann e Francesco Alfieri in Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri (Morcelliana, 2016). Il secondo è l’esegesi teoretica di Eugenio Mazzarella.

 

 

Ontologie animali

L’animale non esiste
Quaderni Leif / anno XII, numero 16 / gennaio-giugno 2018
pagine 159-172

Indice del testo
Ontologia animale
Continuità animale
Differenza animale
Alterità animale

I Quaderni Leif (Semestrale del CESPES, Centro Interdipartimentale di Studi su Pascal e il Seicento) hanno pubblicato gli Atti del Convegno su Bioetica Ambiente Alimentazione che si è svolto a Catania lo scorso maggio, a cura della collega Maria Vita Romeo.
Nella mia relazione ho cercato di mostrare come in natura non si diano salti ma sviluppi, non fratture ma differenze nella continuità. Oltrepassare davvero lo specismo implica l’abbandono del concetto stesso di centralità e di primato attribuito a un qualunque ente nel mondo. Questo è uno dei significati e degli obiettivi della filosofia di Martin Heidegger, che si esprime nell’insieme di tutta la sua riflessione, compresi i Quaderni neri (per un’analisi rigorosa e filologica dei quali torno a consigliare il fondamentale libro di von Herrmann e Alfieri).
In particolare, come nota Jacques Derrida, una lettura adeguata della ricchezza e complessità del seminario del 1929-30 Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endilchkeit – Einsamkeit (Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitudine – Isolamento/Solitudine) conduce molto al di là dell’antropocentrismo, che in Heidegger viene svuotato dall’interno. Ha dunque ragione Derrida a osservare che «questi sono i testi che bisognerebbe naturalmente leggere più da vicino, se si accusa Heidegger di mettere l’animale al di sotto dell’uomo, per non dimenticare che egli pretende di fare un’altra cosa, cioè dire che questa povertà non significa un meno, che anzi in un certo modo essa significa un più: un sentire la privazione che evidenzia che l’animale può sentire qualcosa mentre una pietra non ne è affatto capace» (L’animale che dunque sono, Jaca Book 2018, p. 217).
E perché l’animalità è un ‘di più’? Perché Heidegger sostiene che «non sarà possibile parlare dell’essenza dell’animalità in generale -benché nel corso del suo cammino Heidegger citi molti esempi di animali-, malgrado tutte le loro differenze (differenze, ad esempio, tra la lucertola e lo scimpanzé) senza mai mettere in questione l’appartenenza di tutti gli animali a una ‘essenza generale dell’animalità’» (Ivi, p. 214). Le differenze vanno tutte comprese, nel duplice significato che vanno capite e accolte, pervenendo così alla evidente inesistenza dell’animale al singolare collettivo. Le differenze vanno raccolte nell’oggettività che accoglie tutte le differenze: il morire.
Il tempo e la materia costituiscono fondamento, forma, struttura e modalità del mondo in ogni sua manifestazione, del reale a ogni suo livello, compresa l’animalità, tutta l’animalità, l’animalità che dunque siamo, poiché «dann bewegen wir uns immer schon in dem geschehenden Unterschied», ci muoviamo già sempre nella differenza che accade.
(Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endilchkeit – Einsamkeit, «Gesamtausgabe, Band 29/30 II. Abteilung: Vorlesungen 1923-1944», herausgegeben von F.W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, 1992, § 75, punto 4, p. 519).

 

Un abisso filosofico

Heidegger e il complicato abisso dei «Quaderni neri» 
il manifesto
8 novembre 2018
pagina 11

L’analisi che Eugenio Mazzarella dedica alla questione degli Schwarze Hefte è di grande rigore e plausibilità, ponendosi all’altezza nella quale sempre bisogna leggere Martin Heidegger. Sul manifesto ho pubblicato un articolo nel quale spero di aver restituito almeno un poco il significato e la densità del suo libro.
Nel capoverso conclusivo dell’articolo è saltata la frase finale. Riporto quindi per intero la conclusione: «Denso, intricato ed essenziale è il nodo che questo libro sa indagare, suggerendo ancora una volta che la filosofia -in Heidegger come in Eraclito, Platone, Aristotele, Spinoza, Nietzsche- è simile a una montagna, che ogni tanto degli umani cercano di scalare. Alcuni ben attrezzati arrivano alla cima, altri sono pieni di impegno ma non di strumenti e magari si fermano e tornano indietro, altri ancora pensano di aggredirla e finiscono con il precipitare. La montagna rimane lì, nell’aria e nella luce, dando respiro all’aria, riverberando luce».

Vom Ereignis

Martin Heidegger
Contributi alla filosofia (Dall’evento)
[Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), 1989]
A cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann
Traduzione di Franco Volpi e Alessandra Iadicicco
Adelphi, 2007
Pagine 497

Il libro che oggi vorrei segnalare è uno dei capolavori enigmatici e totali di Martin Heidegger: i Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), tradotti in italiano con il titolo Contributi alla filosofia (Dall’evento). Un mio articolo dedicato a quest’opera uscì sul numero 9/2009 della rivista Nuova Secondaria (pp. 59-61). In esso cerco di comprendere le riflessioni di Heidegger -pubblicate nel 1989 ma stese tra il 1936 e il 1938- all’interno del suo itinerario, fatto di direzioni, tornanti, soste, sentieri interrotti, riprese. Fatto dunque di un pensiero vivo, il più vivo della contemporaneità.

Spero di tornare prima o poi in modo più sistematico su quest’opera fondamentale, esoterica e insieme trasparente, dalla quale si impara che l’Essere e il Tempo si dispiegano come evento. Il Tempo-Evento va al di là di ogni soggettivismo e oggettivismo, non è la categorizzazione che la mente produce della realtà e neppure soltanto l’eterno divenire della materia. Lo Zeit-Raum è la forma nella quale «il tempo sembra essere presente in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo», come afferma Aristotele -uno dei Maestri di Heidegger- in Physica, IV, 223 a.
Il Tempo è in ogni caso parte e sostanza della domanda fondamentale, il Tempo è la denominazione della verità dell’Essere. Non una dottrina ma, ancora una volta, un compito, un cammino, un interrogare senza fine poiché «spazio e tempo sono nella loro essenza altrettanto inesauribili quanto l’Essere stesso» (§ 241, p. 369). Anche per questo la domanda sul tempo si pone al di là di ogni coscienzialismo, al di là di ogni posizione che fa del mondo un portato della mente, che fa dello spazio un calcolo di distanze umane e fa del tempo un frutto della soggettività che rammemora o attende. Anche questo, certo, sono il mondo, lo spazio e il tempo ma la struttura in cui simili caratteri affondano non è antropologica e invece si dispiega come vibrazione (Erzitterung) e oscillazione (Erschwindung) dello spazio-tempo, come la pulsazione di tutta la materia e della mente in quanto parte di essa.
Non a caso una pagina in cui Heidegger cerca di parlare di tutto questo si apre con il verbo wagen “osiamo”: «Osiamo dire direttamente questo: l’Essere è la vibrazione (die Erzitterung) dell’accadere divino (del preludio della decisione degli dèi sul loro Dio). Questa vibrazione allarga il gioco dello spazio-tempo in cui esso stesso viene all’aperto come rifiuto. L’Essere “è” così l’evento (Er-eignis) dell’appropriazione (Er-eignung) del Ci, quell’aperto in cui esso stesso vibra» (§ 123, p. 244).

Programmi 2018-2019

Nell’anno accademico 2018-2019 insegnerò Filosofia teoretica, Filosofia della mente e Sociologia della cultura. Pubblico i programmi che svolgerò, inserendo i link al sito del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania per tutte le altre (importanti) informazioni relative ai miei corsi.

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Filosofia teoretica
Metafisica

Alberto Giovanni Biuso, La Metafisica si dice in molti modi, in «Rassegna storiografica decennale», vol. I, Limina Mentis 2018, pp. 177-183
Alessandra Penna, La costituzione temporale nella fenomenologia husserliana 1917/18 – 1929-34, Il Mulino 2007 (Introduzione; cap. I, §§  1, 3, 4; cap. IV, §§ 1, 2)
Edmund Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani 2007 (§§ 36, 38, 39, 42, 64 e Appendice I)
Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia 1979
Alberto Giovanni Biuso, Temporalità e Differenza, Olschki 2013
Alberto Giovanni Biuso, Heidegger e Sofocle: una metafisica dell’apparenza, in «Engramma», n. 150, ottobre 2017, pp. 154-161

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Filosofia della mente
Tempo della mente e Tempo del mondo

Martin Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi 1998
Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi 2017, capitoli dall’1 all’8 e 12-13
Lee Smolin, La rinascita del tempo. Dalla crisi della fisica al futuro dell’universo, Einaudi 2014
Arnaldo Benini, Neurobiologia del tempo, Raffaello Cortina 2017
Alberto Giovanni Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori Edizioni 2016

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Sociologia della cultura
Dismisura

Rocco De Biasi, Che cos’è la Sociologia della cultura, Carocci 2008
Olivier Rey, Dismisura. La marcia infernale del progresso, Controcorrente 2016
Giuseppe Frazzetto, Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore 2017
Alberto Giovanni Biuso, «Anarchismo e antropologia. Per una politica materialistica del limite» in La pratica della libertà e i suoi limiti – Libertaria 2015, pp. 102-125

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