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Babilonia

Cildo Meireles. Installations
A cura di Vicente Todolì
HangarBicocca – Milano
Sino al 20 luglio 2014

Meireles_Cruzeiro_dormire_Sul_(1970)Infinitamente piccolo, infinitamente grande. Particelle subatomiche e galassie senza fine. Ricondotte alla scala artistica, alla scala umana, diventano parte, struttura e forma dell’opera di Cildo Meireles. Negli enormi spazi dello HangarBicocca la prima delle 12 installazioni si nota soltanto perché un fascio di luce la illumina nel contorno vuoto e buio che da ogni parte la circonda. Si tratta di un cubo di legno di pino e di quercia che misura 9 mm di lato. Nell’avvicinarsi al fascio di luce e a quest’oggetto si ha la sensazione che la materia emerga dallo spazio, la conferma che la materia sia energia.
A una ventina di metri dall’infimo cubo si erge un’imponente torre composta da apparecchi radiofonici di varie epoche, alcuni dei quali funzionanti e dunque diffondenti suoni, musiche, parole. Babel è il suo titolo. Un vero e proprio totem tecnologico il cui brusio è sacro.
Attraversando Através si calpestano e si frangono pezzi di vetro, si percorre un labirinto fatto di filo spinato, cancelli, reti, barriere. Un labirinto con al centro una grande sfera di cellophane, un’enorme cellula del male.
Al centro di uno spazio delimitato da una tenda sta una bilancia circondata da centinaia di sfere tutte uguali. Prendendole in mano, tuttavia, il diverso loro peso si fa evidente. Tutto intorno si sente il tonfo di altre sfere che precipitano.
Due spazi racchiusi fra tende sono costituiti da una superficie bianca di gesso e da una superficie nera di carbone. Passando dall’una all’altra «la filosofia dipinge il suo grigio su grigio. Allora una figura è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere» (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza 1991, p. 17).
Meireles_Babel_(2001)Le altre sette opere -fatte di ossa, banconote, candele, fotografie, uova di legno, proiettili, termoventilatori, lampade- le avevo già incontrate al Museu de Arte Contemporânea de Serralvess di Porto e le ho riattraversate con gioia. Perché le installazioni di Cildo Meireles sono opere d’arte totale, le quali coinvolgono la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto, il tatto. Opere dentro cui ci si immerge e la cui forte dimensione politica ci fa intendere che mentre i potenti di professione si apparecchiano ogni giorno la tavola del malaffare, è pur sempre possibile predisporre un altro futuro, un altro pensiero, altre forme nello spaziotempo.

Intervista a Cildo Meireles
 

Identità e Differenza

Martin Heidegger
IDENTITÀ E DIFFERENZA
(Identität und Differenz, 1957: Der Satz der Identität; Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik)
Trad. di Giovanni Gurisatti
Adelphi, 2009
Pagine 101

L’identità non è uguaglianza. Per la seconda sono necessari due termini, per la prima ne basta uno soltanto, «giacché mentre nell’uguale la diversità svanisce, nello stesso la diversità appare» (p. 58). Il rapporto dell’umano con l’essere e la relazione dell’ente all’essere sono caratterizzati da identità e non da uguaglianza. Essi si coappartengono perché rimangono diversi pur essendo l’identico, la cui identità consiste proprio in tale coappartenersi. Senza l’uno quindi non si dà l’altro, anche se l’uno non è l’altro se non nella relazione stessa che li fonda.
È certo «singolare», come riconosce Heidegger, che l’ente e l’essere vengano trovati a partire dalla loro differenza e nella differenza. Ed è proprio tale condizione a rendere del tutto inadeguata la struttura linguistica soggetto/oggetto che domina il Moderno, avendo la sua radice nella concezione dell’umano quale animal rationale.  “Soggetto” e “oggetto”, infatti,

sono già il prodotto di una specifica caratterizzazione dell’essere. Chiaro è soltanto il fatto che nel caso sia dell’essere dell’ente sia dell’ente dell’essere si tratta ogni volta di una differenza. Ne deriva che noi pensiamo l’essere in modo aderente alla cosa solo se lo pensiamo nella differenza dall’ente, e quest’ultimo nella differenza dall’essere. Soltanto così la differenza balza propriamente agli occhi. Se però tentiamo di rappresentarla ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente. È così che la differenza (Differenz) viene ridotta a una distinzione (Distinktion), cioè a un artificio del nostro intelletto. (80)

Numerosi sono i modi nei quali il pensiero ha dispiegato l’oblio della differenza tra essere ed enti. È tale dimenticanza della differenza (Vergessenheit) -e non soltanto la differenza- che Heidegger intende pensare.
Un oblio che si è di volta in volta manifestato come «Fu@siv Lo@gov,  çEn, Ide@a, Ene@rgeia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà di potenza, volontà di volontà» (87). In tutte queste determinazioni la metafisica mostra se stessa non soltanto come oblio della differenza ma anche come onto-teo-logia, che guarda o al fondamento comune degli enti (onto-logica) oppure alla totalità dell’ente supremo che fonda ogni cosa (teo-logica).
La concezione rappresentazionale dell’essere e l’oblio della differenza -in una parola la metafisica- arrivano per Heidegger al culmine nella tecnica, intesa come legittimazione del dominio di uno degli enti, l’umano, sull’intero.

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Don Giovanni, l’antidoto

Teatro Franco Parenti – Milano
Il Don Giovanni
Vivere è un abuso, mai un diritto

di Filippo Timi
Con Filippo Timi, Umberto Petranca, Alexandre Styker, Roberta Rovelli, Marina Rocco, Elena Lietti, Roberto Laureri, Matteo De Blasio, Fulvio Accogli
Costumi: Fabio Zambernardi in collaborazione con Lawrence Steele
Luci: Gigi Saccomandi
Scene e regia: Filippo Timi
Sino al 24 marzo 2013

«Dio è un virus e la vita è un’infezione». Così parla Don Giovanni.
La fica. Il doppio. Il Crocifisso. Alien. Il padre, l’incesto. Le bambine ginnaste alle Olimpiadi. La musica pop. Youtube. Arancia meccanica. Discoteche. Bare. Una magnifica Zerlina candida e svampita. Donna Elvira è un enorme ragno rosso appassionato. Leporello innamorato del suo padrone. Donna Anna odia il padre e punisce Don Ottavio. Il Commendatore intubato, con la bombola d’ossigeno. Hegel, il servo e il signore. Baci. Fisicità straripante ovunque. Don Giovanni vestito di plastica, di gonne, di fiori e degli scalpi delle sue donne. L’amore suprema illusione e inganno. Colori accesi e cangianti. Un flusso di battute al quale il pubblico risponde con risate clamorose e sincere. Trionfo finale. Blasfemia. Un pastiche linguistico di italiano, inglese, romanesco, tedesco.
La madre. La morte. Satana. La cacca. La crudeltà. Il mistico. La Gnosi.
Geniale. Visionario e geniale.

Franko B.

Franko B. I Still Love

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Francesca Alfano Miglietti
Allestimento di Fabio Novembre
Sino al 28 novembre 2010

Aver trasformato il corpo dell’artista da strumento dell’opera a opera esso stesso, è certamente uno dei fenomeni più importanti e radicali dell’arte contemporanea. Franko B., milanese di nascita ma londinese da ormai molti anni, è uno di questi artisti-opera che però inserisce se stesso all’interno di un itinerario tra le cose e i concetti del quale egli diventa parte. Le opere presentate in questa mostra sono infatti tra loro differenti, anche se tutte accomunate da una tonalità nello stesso tempo cupa e in rivolta. Il nero vi domina, nel corpo di Franko e negli acrilici che soltanto le ombre in rilievo -e dunque la luce- riescono a far emergere dallo sfondo. Vi si contrappone il bianco-rosso del cotone egiziano cucito sulle tele, a disegnare soggetti diversi. Cinque panche di chiesa ridipinte in color oro formano poi una scultura dal titolo The Golden Age Period, l’età d’oro delle certezze infantili, catechistiche. Alcune grandi fotografie e dei video mostrano il corpo dell’artista nudo e perfettamente bianco, segnato da ferite dalle quali cola il sangue che si raggruma a terra. Nelle opere più recenti, invece, il corpo è dipinto di un nero integrale e immobile, come gli uccelli e altri animali -tutti nerissimi anch’essi- che compongono varie installazioni.

Parte essenziale della mostra è l’allestimento con il quale l’architetto Fabio Novembre ha modificato gli interni del PAC allo scopo di dare luce e spazio al nero di Franko. Entrando, la prima sala è vuota e confluisce nella seconda con un’apertura nel muro a forma di croce, al centro della quale c’è il volto dell’artista. Volto che finalmente appare in una delle immagini conclusive della mostra, non più oscurato e coperto ma intenso, rassegnato, triste. Col suo nero delle forme sul nero della realtà -avrebbe detto Hegel- l’arte non si lascia ringiovanire ma soltanto morire. Tutto infatti qui sembra immobile, finito, anche se Franko B. dichiara di “amare ancora”.

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