Stefano D’Arrigo
Cima delle nobildonne
Mondadori, 1985
Pagine 202
«Non vedendo più riparo alla successione degli eventi ma non sognandosi nemmeno, quand’anche avesse potuto, di impedirli» (p. 201) Mattia Meli si trova al centro del divenire che comincia come zigote, si trasforma in embrione, diventa feto, umano, bambino, adulto, vecchio, mortale, moribondo, morente, morto.
Nel grembo materno tutto questo vive per alcuni mesi dentro una sfera, un ambiente, un mondo che si chiama placenta. A tale mondo è dedicato l’intrico di fatti e situazioni che costituisce questo romanzo di D’Arrigo. Vicende che vanno dal faraone Narmer -il quale 5000 anni prima dell’era volgare eresse la propria mummificata placenta a quarto simbolo della dinastia- a una clinica di Stoccolma dove il chirurgo Belardo costruisce una vagina all’ermafrodito amato da un emiro, il quale vorrebbe edificare nella propria capitale una Placentoteca.
Eventi che vanno da una paziente incontrata dal protagonista dentro un ascensore che la porta in sala operatoria alla cagnetta di lei che conduce Mattia presso la casa della padrona, dove è conservata in formalina la placenta di un bambino mai nato.
Un professore di placentologia muore a causa di una grande delusione professionale, dopo aver dedicato l’intera vita alla Cima delle nobildonne, come lui denomina la placenta in quanto nutrice della vita e delle cose. Cima delle nobildonne, ‘Colei che va davanti alle nobili’, era chiamata anche il faraone femmina Hatshepsut, che regno a metà del II millennio portando benefici alla sua terra.
In un intrico di vicende come questo, «la cruda, crudele verità del parlare scientifico» (84) si alterna all’ironia che pervade molte pagine, battute e situazioni; sogni assai tristi che hanno per protagoniste donne «atteggiate in viso a una struggente malinconia, [le quali] spingevano ognuna una carrozzina per neonato senza neonato dentro: rare vittime di rari aborti» (123) si accompagnano alla secchezza di descrizioni chirurgiche ultratecniche.
Il risultato è una inquietante ἱλαροτραγῳδία, uno straniante raccontare che punta dritto alle fonti della vita e della morte e sembra di esse riprodurre anche lo schifo, la malinconia, la materialità.
Che l’insieme dei fatti e il loro intreccio siano del tutto inverosimili non conta. O conta nell’esatto senso indicato da Stefano D’Arrigo: «Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» (163).