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Anarchia vs. umanitarismo

Morale e società: un punto di vista anarchico
in «Il pensiero e l’orizzonte. Studi in onore di Pio Colonnello»
Mimesis, Milano-Udine 2021 [ma pubblicato nel 2022]
pagine 87-96

  • Indice del saggio
    1 La guerra giusta
    2 Umanitarismo vs. emancipazione
    3 Oltre l’umanitarismo: la prospettiva anarchica
    Conclusione, Orwell-Schmitt

In questo saggio, scritto per un volume in onore dell’amico Prof. Pio Colonnello, ho cercato di indicare alcune delle ragioni per le quali il venir meno del sistema stabilito nel 1648 con le paci di Westfalia, vale a dire l’esclusione dei civili dai conflitti e la non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi, sia stato e continui a essere una delle ragioni della ferocia contemporanea, con le sue guerre scatenate in nome dei diritti e della democrazia così come in passato l’Europa subì le guerre condotte in nome delle religioni e della verità, guerre alla quali appunto Westfalia aveva posto fine.
La «guerra giusta» è una delle espressioni più esiziali e pericolose del paradigma umanitario, paradigma al quale contrappongo una prospettiva anarchica matura, vale a dire disincantata ma proprio per questo capace di difendere la democrazia, che significa non l’andare al voto ogni certo numero di anni -voto il cui esito viene regolarmente disatteso se diverso rispetto a quello voluto dai mercati- ma significa «effettiva divisione dei poteri, che oggi sono invece subordinati a quello finanziario; significa la libertà di scrivere e manifestare il proprio pensiero, sempre più limitata da censure ideologico-governative e dal flagello del politicamente corretto che sottomette al diritto penale persino le opinioni storiche e filosofiche».

La pelle

Curzio Malaparte 
La pelle
Garzanti, 1967 (1949)
Pagine 334

I fatti. Anzitutto i fatti. Quelli che tutti conoscono ma che è bene tacere. I fatti dei quali molti europei erano stati testimoni e conservavano memoria ma che era bene trattare come se non fossero accaduti. I fatti dell’Italia e dell’Europa liberata dagli eserciti alleati. Fatti che aiutano a comprendere in modo più ampio che cosa quella liberazione fu, quale costo ebbe per i popoli del nostro continente.
I fatti.
Bambini e bambine venduti ai soldati vincitori da parte dei loro stessi familiari.
L’amicizia e i ‘fidanzamenti’ dei soldati americani, in particolare i soldati neri, come grandi affari necessari alla sopravvivenza: «Il negro non sospettava di nulla. Non si avvedeva di esser comprato e rivenduto ogni quarto d’ora e camminava innocente e felice […] Non sospettava neppure di esser venduto e comprato come uno schiavo. […] Un negro americano era una miniera d’oro» (p. 25).
Una ragazza vergine mostrata come cosa rara e con la possibilità di infilare un dito nella sua vagina in modo da verificare che vergine fosse realmente: «Per sentirsi eroi, tutti i vincitori hanno bisogno di veder queste cose. Hanno bisogno di ficcare il dito dentro una povera ragazza vinta» (50).
Un rito iniziatico della ‘Internazionale degli invertiti’, denominato ‘la Figliata’.
Degli ebrei crocifissi dai nazisti in Ucraina.
Le bombe al fosforo su Amburgo: «Il fosforo è tale che si appiccica alla pelle come una viscida lebbra, e brucia solo al contatto dell’aria. Non appena quei disgraziati sporgevano un braccio fuor della terra o dell’acqua, il braccio si accendeva come una torcia. Per ripararsi dal flagello, quegli sciagurati erano costretti a rimanere immersi nell’acqua o sepolti nella terra come dannati nell’Inferno di Dante. […] E nulla valeva ad arrestare il morso di quella terribile lebbra ardente» (104).
L’amatissimo cane di Malaparte -di nome Febo- rubato a Pisa, venduto per pochi soldi alla Clinica Veterinaria dell’Università, torturato con la vivisezione: «Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieni di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un fremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto» (159).
A un pranzo del Generale Cork viene portato in tavola l’ultimo rarissimo pesce rimasto nell’acquario di Napoli (gli Alleati avevano proibito la pesca per ragioni militari); un pesce-sirena che sembra pari pari una bambina bollita e che come tale viene accolto con orrore dai commensali: «Io guardavo quella povera bambina bollita, e tremavo di pietà e di orgoglio dentro di me. Meraviglioso paese, l’Italia ! pensavo. Quale altro popolo al mondo si può permettere il lusso di offrire a un esercito straniero, che ha distrutto e invaso la sua patria, una Sirena alla maionese con contorno di coralli? Ah ! Metteva conto di perder la guerra, sol per vedere quegli ufficiali americani, quell’orgogliosa donna americana, sedere pallidi e sbigottiti d’orrore intorno a una Sirena, a una deità marina distesa morta in un vassoio d’argento, sulla tavola di un generale americano!» (218).

Questo fu la Seconda guerra mondiale a Napoli, in Italia, in Europa, ovunque. Compresa la guerra di resistenza al nazifascismo. Quest’ultima fu «un’atroce guerra civile» (302) e la guerra universale fu una «guerra non contro gli uomini, ma contro Cristo» (301), nome che compare lungo tutto il romanzo -anche il cane Febo è un Cristo crocifisso- a indicare probabilmente per contrasto l’impossibile purezza dell’umanità. Una guerra che sarebbe stato vergogna vincere (così la chiusa, p. 328). Una guerra che vide le popolazioni sottomettersi con gioia ai nuovi padroni e alla loro sorridente e ottimistica depravazione. Una guerra i cui luoghi italiani stupiscono i militari americani, che mostrano tutta la loro ignoranza su Roma e sull’Italia. Una guerra dove, a Napoli, nobiltà e plebe confermano ancora una volta la loro complicità, la loro reciproca fedeltà, la loro familiarità. Una guerra alla fine della quale uscirono dalle loro tane coloro che in esse si erano rifugiati -tane letterali, tane metaforiche- e che poi, «un giorno, morto il tiranno, faran gli eroi della libertà» (161). Una guerra che diventa piccola cosa al cospetto della potenza di due vulcani: l’«Etna, Olimpo di Sicilia» (161) e soprattutto il Vesuvio, la cui eruzione del 1944 viene descritta da Malaparte nel modo epico che quell’evento merita e che vide punite l’arroganza e il sentimento di superiorità dei soldati alleati, diventati anch’essi dei pezzenti del terrore, straccioni in fuga di fronte alla potenza del fuoco.

La lingua di Malaparte sembra davvero la pittura di Brueghel o di Bosch (esplicitamente ricordati a p. 29). La follia di Brueghel e di Bosch ricondotta e trasformata nella follia della Napoli e dell’Europa contemporanee.
Napoli, «la più misteriosa città d’Europa» (40); Napoli vittima di una peste, di un «nuovissimo morbo […] che non corrompeva il corpo, ma l’anima» (33), simile in questo al morbo contemporaneo denominato Covid19; Napoli, l’antica cui «nobile voce della fame, della pietà, del dolore, della gioia, dell’amore, l’alta rauca, sonora, allegra, trionfante voce era spenta» (322) ma con la dignità del suo popolo intatta, nonostante tutte le azioni turpi e infami delle quali diventa complice a favore dei ‘liberatori’; Napoli della quale Malaparte disegna come a nessun altro ho visto fare «il sapore e l’odore della luce» (120).
Al di là di Napoli, tutta l’Europa «è un paese misterioso, pieno di segreti inviolabili» (21); è una terra nobile, saggia ed estrema. E tale rimane anche quando non viene «purificata ma corrotta dalla sofferenza», anche quando non viene «esaltata ma umiliata dalla raggiunta libertà» (123). Durante la catastrofe delle due guerre nelle quali e con le quali l’Europa si è uccisa, dopo e di fronte agli effetti di tale autodistruzione, pur in mezzo alla «sottile, cinica, perversa propaganda condotta di lontano, e mirante a dissolvere il tessuto sociale europeo, in previsione di ciò che gli spiriti deboli del nostro tempo salutano come la grande rivoluzione dell’età moderna» (130), l’Europa è ancora la culla della luce pur rischiando d’essere la sua tomba.
E questo anche per merito dei suoi scrittori, filosofi e artisti, come lo stesso Curzio Malaparte, perseguitato dal fascismo e ostracizzato dall’antifascismo, avendo «sofferto la galera per la libertà dell’arte» (99) e l’emarginazione e delle bizzarre accuse per la stessa ragione. Come altri scrittori, filosofi e artisti, Malaparte può dire con chiarezza in mezzo alla devastazione, «io ero l’Europa. Ero la storia d’Europa, la civiltà d’Europa» (199).
I morti di Napoli e i morti universali; «hanno una forza terribile, i morti, e potrebbero spezzare i ferri, romper la cassa, buttarsi fuori a mordere» (70). Morti i quali, e qui l’intuizione antropologica è profonda, «eran stranieri, appartenevano a un’altra razza, alla razza degli uomini morti, a un’altra patria, la morte» (308). È infatti un libro di antropologia La pelle. Un’antropologia disincantata e dagli accenti gnostici. Di fronte all’intera vicenda di macello e di dissoluzione che è la storia umana, infatti, si deve constatare che «gli uomini son capaci di qualunque vigliaccheria per vivere : di tutte le infamie, di tutti i delitti, per vivere» (44). Realisticamente ed empiricamente, «l’uomo è cosa ignobile. […] L’uomo è una cosa orrenda» (319-320), tanto che disprezzare in sé e negli altri questa umanità «è la prima condizione della serenità e della saggezza nella vita umana» (159-160).

«Il male è inguaribile» (60) e la sua bandiera politica, il suo simbolo antropologico, il suo stendardo esistenziale è un uomo schiacciato da un carro armato alleato mentre correva per le strade di Roma ad accogliere festante i vincitori. Ridotto a una sottile striscia di carne e di pelle, quello che di lui rimase «è la bandiera della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle. […] E unitici al corteo dei becchini, ci avviammo dietro la bandiera. Era una bandiera di pelle umana, la bandiera della nostra patria, era la nostra stessa patria. E così andammo a vedere buttare la bandiera della nostra patria, la bandiera della patria di tutti i popoli, di tutti gli uomini, nell’immondezzaio della fossa comune» (288-290).
Un romanzo di guerra e di memorie, scritto come una poesia che si trasforma in studio antropologico e in danza macabra. E sopra ogni cosa l’intelligenza del mondo e della storia.

Odissea

Umanità irrequieta, nel mare e nel sole di un viaggio rapsodico
il manifesto
21 gennaio 2022
pagina 11

Il personaggio e la persona di Odisseo sono una delle incarnazioni più emblematiche dell’ermeneutica, del fatto che la vera storia di una figura letteraria, di un’opera, di un concetto sono i suoi effetti nel tempo. E questo conferma la potenza degli antichi canti dei Greci che vennero selezionati, messi per iscritto e ai quali si diede il titolo di Iliade, la guerra, e di Odissea, i viaggi e i ritorni. Vale a dire i due archetipi della letteratura universale perché modello e forma delle esistenze di tutti noi: i conflitti, la casa, gli affetti, lo spazio, l’inquietudine, la morte.

Islam

Differenze
Oltre il politicamente corretto
in Dialoghi Mediterranei
Numero 52, novembre-dicembre 2021
Pagine 373-384

Indice
-Premessa
-Le tesi di Ciccozzi
-Razzismi e altro
-La guerra giusta
-Il tramonto di Westfalia e l’emergere del terrore
-Potere, informazione, globalizzazione
Migranti. Un’analisi sociologica
-Identità e Differenza

Per 11 anni ho insegnato Sociologia della cultura nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict. Essendomi stato affidato un nuovo insegnamento nel corso magistrale di Scienze filosofiche, ho dovuto rinunciare a insegnare SdC nel corso triennale di Filosofia. Devo dire che mi dispiace perché ho trovato degli studenti sempre assai coinvolti nelle tematiche che ho loro proposto e perché insegnando sociologia ho imparato (a cercare di) osservare i fatti sociali con il maggior rigore possibile e con il necessario distacco scientifico.
Il testo uscito sul numero 52 di Dialoghi Mediterranei nasce dal confronto con un saggio di Antonello Ciccozzi dedicato al tema complesso e delicato del rapporto tra cultura e costumi europei e cultura e costumi islamici. Un saggio secondo me illuminante, a partire dal quale ho tentato di delineare altri aspetti del rapporto tra la civiltà europea e la civiltà musulmana, con riferimenti alle questioni razziali, alla geopolitica, al diritto pubblico europeo nato con le paci di Westfalia (1648). Credo infatti che solo alla luce della vicenda secolare del Mediterraneo si possano comprendere le potenzialità di arricchimento e gli insuperabili limiti del rapporto con le ondate migratorie provenienti dai Paesi islamici. Mi auguro insomma che questo testo, anche se breve, possa testimoniare la fecondità di una prospettiva sociologico-filosofica con la quale leggere i fenomeni più profondi della storia contemporanea.

Macigni

Dune
di Denis Villeneuve
USA, 2021
Con: Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica), Oscar Isaac (Il duca Leto Atreides), Stellan Skarsgård (il barone Harkonnen), Charlotte Rampling (La reverenda madre Mohiam), Chen Chang (il Dottor Wellington Yueh), Jason Momoa (Duncan Idaho), Javier Bardem (Stilgar), Zendaya (Chani)
Trailer del film

Le aride colline libanesi, il cerchio del tempo, le potenti strutture che si sbriciolano e il pesante rumore dell’acciaio erano alcuni degli elementi di precedenti film di Denis Villeneuve.
Essi convergono in Dune e si aprono alla forma che sempre sottende l’opera di questo regista: il mito. Che qui trova una vertiginosa condensazione di modi e narrazioni. La casa regnante si chiama Atridi; il giovane protagonista appare spesso una sorta di Amleto; la forza fisica si coniuga a possanza interiore; gli animali non umani vengono continuamente evocati: dai topi ai mezzi di trasporto che sono chiaramente delle libellule  meccaniche, da piccoli insetti artificiali e velenosi agli enormi, enigmatici e inquietanti vermi del deserto che scavano le dune al suono ritmato dei corpi o di altre macchine; le potenze malvagie gorgogliano da liquidi e liquami e si sollevano nello spazio in tutto il loro orrore, come ben sanno le più arcaiche fiabe di ogni epoca; le potenze complici dell’Imperatore hanno un nome simile a quello dei collaboratori del funesto Demiurgo gnostico: Harkonnen; le antiche Madri continuano a tessere il destino di ogni cosa.
E su tutto il duplice mito dal quale è nata la letteratura in Europa: la guerra (Iliade) e il viaggio, il ritorno (Odissea). In questa sorta di antologia dei poemi fondativi, i pianeti si moltiplicano e gli umani -o altre entità antropomorfe e consapevoli- appaiono sempre più insignificanti e schiacciati dalla forza immensa degli spazi e delle macchine.
Sono queste ultime, le macchine, l’elemento peculiare di Dune, ancor più del deserto immane, ospitale e ostile. Macchine gigantesche, ciclopiche e massicce, che tuttavia si alzano in volo, sfrecciano nello spazio, poggiano lievi sulle superfici. Autentici palazzi galattici azionati da leve e strutture del tutto e pesantemente meccaniche, che non possiedono niente di virtuale, nulla di algoritmico, non sono dei software e sono composti invece di pietra, di cemento, di acciaio. O di qualcosa che alla pietra, al cemento e all’acciaio rimanda.
È questa realtà solida, imponente e poderosa che permette non soltanto alle coscienze di essere  composte «della materia di cui son fatti i sogni» (Shakespeare, La Tempesta) ma anche ai sogni, come Dune, di essere composti della materia di cui son fatti i macigni, della materia delle rocce, del fuoco e delle galassie. Di materia è intessuta la realtà e non di formule interiori e digitali nelle quali l’umanità vagheggia e anela il proprio sopravvivere. Tranne poi, e come sempre, morire.

Guerre e censure

Non è necessario aggiungere molto alle analisi critiche sul presente e sulla storia che intessono il numero  362 (Anno XLII – 7/8 – Luglio/Agosto  2021) della rivista Diorama Letterario. Mi limito a riportare una serie di riflessioni suddividendole per argomento.

Afghanistan
Nei rapporti forza del conflitto asimmetrico, l’ossessione per le operazioni a ‘perdite zero’ induce gli Stati maggiori ‘democratici’ e ‘umanitari’ a programmare interventi dal costo economico esorbitante, che finiscono così per rendere insostenibile nel lungo periodo l’intera campagna; inoltre induce i comandi sul campo a richiedere sistematicamente l’appoggio aereo o il fuoco indiretto dell’artiglieria e, quindi, a seminare la morte tra i civili, cosa che -indipendentemente dalla sua enormità a livello etico- rende controproducente l’utilizzo stesso della forza nella conquista dei «cuori» della popolazione.
(Eduardo Zarelli, p. 23; aggiungo solo che caratteristica della Società dello Spettacolo è la sua capacità di dissolvere ogni evento in una fiammata mediatica senza radici né continuità. Il destino delle donne afghane è sparito dai media e dalle menti, sostituito da nuove questioni che saranno a loro volta bruciate nell’arco di pochi giorni o persino poche ore. Invece la continuità implacabile -sui media di ogni genere e soprattutto in Italia- di tutto ciò che è legato al Covid19 costituisce un’ulteriore testimonianza di quanto autorità e aziende farmaceutiche abbiano investito -in ogni senso- su tale questione).

Censura
Una volta, la censura era fondamentalmente opera dei poteri pubblici. Oggi, proviene dalle lobbies, dalle leghe della virtù e dalle reti sociali. Il potere, parallelamente, ha delegato il potere di censura a società private come Twitter, Facebook, o Google, una cosa che non si era ancora mai vista. Con la paura, l’autocensura prevale sulla censura. È una delle ragioni per le quali non ci può più essere un dibattito argomentato. Su qualunque argomento, si arriva immediatamente agli estremi. I dibattiti televisivi cominciano ad assumere aspetti da scontri di piazza e il grande ospizio occidentale assomiglia ogni giorno un po’ di più a un manicomio. Si trascura d’altronde troppo il fattore psichiatrico: vediamo tutti i giorni in televisione degli isterici che pontificano e dei monomaniaci che sono visibilmente altrettanto caratteriali e squilibrati
(Alain de Benoist, pp. 4-5)

[A proposito dell’organizzazione Sleeping Giants, sostenitrice del politicamente corretto, della Cancel Culture, del linciaggio mediatico]
Di questi «giganti dormienti», attivisti dell’oltranzismo progressista, in Italia si parla ancora poco. Troppo poco, in relazione alla loro pericolosità e all’elevata probabilità di vederli presto entrare in campo in misura molto più incisiva, con il loro gioco a gamba tesa, per intensificare la già cospicua demonizzazione degli avversari. […]
Minacciati nella loro stessa esistenza, i media sotto attacco hanno finalmente reagito, concordando una azione legale. Ma c’è da scommettere che l’apparato informativo ufficiale ribalterà i ruoli nella vicenda e farà passare gli aggrediti per aggressori e questi ultimi per coraggiosi martiri della lotta per la tutela dei diritti dell’uomo. […]
Primo: l’efficacia del rullo compressore della omologazione al pensiero globalista oggi dominante si fonda innanzitutto sul ricatto, materiale o psicologico che sia. […] Secondo: questi ricatti – la patente di razzista o di omofobo assegnata a chi non si piega al coro ‘inclusivista’ – puntando a creare un complesso di inferiorità nei dissidenti e ad indurli a tenere le loro ragioni ed obiezioni ben chiusa nella sola cerchia delle frequentazioni più intime, se non addirittura in interiore homine (ove peraltro non a caso habitat veritas). Terzo: l’obiettivo finale del processo è la cancellazione dell’identità nelle coscienze individuali e in quella collettiva. È questo l’estremo baluardo a difesa della specificità dei popoli, delle culture -e persino dei sessi-, su cui per millenni si sono articolate la bellezza del mondo, la sua vitalità, la sua creatività, nelle più svariate forme a cui ogni aggregato umano ha saputo dare espressione.
(Marco Tarchi, pp. 1-3).

Jean-Claude Michéa dice assai giustamente che la cancel culture è il «complemento indispensabile del rullo compressore dell’economia liberale di mercato». La cancel culture non va intesa come «cultura della soppressione» quanto come soppressione della cultura. Leggendo le Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, si cade su questa terribile frase: «Neanche i morti saranno al riparo dal nemico, se esso vince». [il grassetto è mio] Con la cancel culture, ci siamo. La caccia all’«inappropriato», colpevole di non rispondere alle norme dell’ideologia dominante, consente tutto, giustifica tutto. Screditare prima e far sparire poi tutto ciò che, da due o tre millenni, è stato prodotto, pensato, scritto, teorizzato, dipinto, scolpito, rappresentato, filmato , diventa possibile, dato che, frugando bene, si finirà per trovare ovunque tracce di «razzismo sistemico», «omofobia», «sessismo» e altre scempiaggini di moda.  […]
Chi svolge questo compito non ha mai accettato che la storia sia tragica, che la realtà possa essere compresa solamente nella complessità dei chiaroscuri. Sogna un mondo trasformato in safe place, in asilo per orsetti del cuore dai muri imbottiti. È il partito del neopuritanesimo punitivo, il nuovo partito iconoclasta (distruzione di statue) e persecutore, il partito della contrizione e dell’afflizione, del pentimento e della techouva.
(Alain de Benoist, p. 6).

Al Figaro Magazine si è verificato un episodio abbastanza simile quando mi è stato fatto notare che il mio anticapitalismo infastidiva gli inserzionisti. Si vede in tal modo che la normalizzazione ha soltanto cambiato forma: non si deportano più i dissidenti, li si condanna alla morte sociale; non li si fucila più, ma li si mette in disparte per ridurli al silenzio. Come nell’epoca sovietica, l’intellettuale può scegliere solo tra l’aderire alla doxa dominante o il restare fuori dal gioco: per sopravvivere, deve recitare ciò che ci si attende da lui. Personalmente provo soltanto disprezzo per quelli che antepongono i loro interessi alle loro convinzioni. Costoro non differiscono molto dai ‘pentiti’, contestatori da quattro soldi che hanno finito col coricarsi con delizia nel sistema della spettacolo, con i relativi privilegi e rendite vitalizie. E non sono nemmeno uno di quei prudenti professori universitari che dicono ciò che pensano solo una volta andati in pensione.
(Alain de Benoist, p. 5).

Il caso Matzneff
Matzneff ha 85 anni e il cancro: le anime belle, le anime indignate, diranno che se l’è meritato e che per i carnefici non è prevista la pietà. Sono le stesse che in Francia fino al giorno prima si sdilinquivano davanti alle intemperanze erotiche del marchese de Sade, che pure era un criminale patentato…[…]
È difficile dare torto a Matzneff quando osserva: «Se è normale bruciare quei miei libri in cui è descritto un passato d’amore poco ortodosso, esigo allora che vadano al rogo anche i libri di Anacreonte, Teocrito, Tibullo, Petronio, Luciano di Samosata, Djami, Kayyam, Aretino, Ronsard, La Fontaine, Baffo, Casanova, Pony, Sade, Laclos, Mirabeau, Byron, Baudelaire, Apollinaire, Gide, Colette, Sandro Penna, Nabokov, senza dimentica Hécate et ses chiens di Paul Morand. […]
Sulla ‘età del consenso’, per tornare al libro della Springora, l’età legale dell’amore, Matzneff non ha mai avuto dubbi e lo ha sempre sostenuto pubblicamente: andava abbassata, «quei quindici che speravamo il legislatore tramutasse in tredici». Ne scriveva allora in lettere aperte, sulle colonne di «Libération» e di «Le Monde» e a fianco della sua firma c’erano quelle di Sartre, Aragon, Roland Barthes, Simone de Beauvoir. Era il 1977, erano tutti pedofili? […]
Parliamo di letteratura. Matzneff è uno scrittore che rimarrà, per l’eleganza dello stile, per la cultura, per la varietà di interessi, di trame, di personaggi e insieme per il narcisismo e la sofferta verità che la continua esposizione di sé comporta, nel bene come nel male. […] Per i libri però non esistono sbarre, e non c’è prigione da cui prima o poi non riescano a evadere.
(Stenio Solinas, pp. 36-38)

Ordine
Non ho mai accettato l’idea destrorsa secondo la quale un’ingiustizia è meglio di un disordine. Un’ingiustizia è, per me, il più grande dei disordini.
(Alain de Benoist, p. 4).

Stati Uniti d’America
Il significato vero della propaganda di sinistra, con il suo universalismo umanitario o di quella di destra con il «prima gli italiani» è comunque e sempre «come vogliono gli americani».
Dovrebbe essere inutile, insomma, dire che questa non è un’alleanza ma una sudditanza in cui solo una delle due parti è libera e sovrana, perché chi non lo vede evidentemente non lo vuole vedere (pensare qui a tutto il sistema dei media occidentali è del tutto appropriato).
La prima cosa da fare sarà sbarazzarsi di quel simulacro di istituzione, burocratica, irresponsabile e asservita, che vive tra Straburgo e Bruxelles.
(Archimede Callaioli, p. 18)

In Afghanistan le truppe occidentali si ritirano dopo venti anni dalla guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti (e dai suoi alleati). […] In Iraq la guerra del 2004 contro Saddam Hussein fece precipitare il Paese e il Medio Oriente nel caos da cui vennero partoriti l’Isis e il fanatismo del terrorismo islamista. La guerra alla Libia del 2011 contro Mu’ammar Gheddafi ha devastato e ora spartito il Paese tra la Turchia neo-ottomana di Recep Tayyip Erdoğan e l’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi. In Siria la guerra jihadista figlia anche dell’ingerenza occidentale ha distrutto un intero Paese, causando cinquecentomila morti e contribuendo all’instabilità generale del Mediterraneo.
Cosa l’Italia e l’Europa, direttamente o indirettamente coinvolte, abbiano avuto da guadagnare in questi interventi militari, è sotto gli occhi di tutti e sottolinea una volta ancora la necessità che il continente europeo miri al fine di emanciparsi dalla subalternità atlantica in un contesto geopolitico multipolare, favorendo reazioni internazionali multilaterali. Affermare la sovranità neutrale dell’Europa significa ritornare nella storia, assumersi la responsabilità della propria difesa, in alleanza continentale con chi punta alla costruzione di un mondo plurale, sostenibile, capace di ricomporre il divario tra cultura e natura, dato il suicida progetto della forma capitale di una crescita illimitata di una Terra finita.
(Eduardo Zarelli, p. 21).

Transumanismo
Nella prospettiva della «grande reinizializzazione» (il great reset) si mette all’opera una mutazione antropologica che mira a fare dell’uomo un individuo digitalizzato, connesso, retto da dispositivi tecnologici privi di pertinenza esistenziale, isolato per quanto possibile dai suoi simili, vivente in permanenza nel «distanziale» e nel virtuale. La vera Grande Sostituzione, quella dell’uomo da parte della macchina. Un transumanesimo tecnologico che, nelle attuali circostanze, va di pari passo con l’igienismo di Stato. Lo Stato terapeutico. Big Mother. La tabula rasa è la fine dell’uomo e il caos.
(Alain de Benoist, p. 6).

Vaccini
Il primo fatto inconcepibile è che l’Unione europea abbia stipulato con le aziende produttrici dei vari vaccini contratti che sono stati secretati. […]. Nel caso di stipulazione di contratti in cui la Commissione agisce come soggetto di diritto privato, in una materia di primario interesse pubblico, ma nella quale in nessun modo può configurarsi la necessità del segreto, con controparti a loro volta private, la decretazione è inconcepibile, in termini di diritto ma vorremmo dire anche dal punto di vista della pura decenza politica. Ma quando poi si sono (in parte) desecretati quei contratti, la cosa è apparsa anche peggiore.
Nei contratti non c’era, a carico dei fornitori, alcuna effettiva penale in caso di inadempimento, né una definizione stringente dei tempi delle prestazioni. […]
Di fronte ad un tale incredibile esempio di insipienza, noi ci rifiutiamo di pensare che di insipienza si tratti. Siamo troppo oltre. Per un comportamento di questo tipo, l’unica spiegazione è che chi ha contrattato non fosse in realtà libero di farlo, ma abbia dovuto accettare tutto quanto gli è stato proposto a scatola chiusa. Certo, «Big Pharma» non è una controparte arrendevole né priva di potere nel senso più forte della parola, ma Regno Unito e Stati Uniti hanno negoziato con le stesse aziende con risultati del tutto diversi. E allora, quale è la differenza tra Gran Bretagna, Stati Uniti d’America ed Unione europea? La differenza, semplicemente, sta nel godere o nel non godere di sovranità, nell’essere o meno padroni di se stessi.
(Archimede Callaioli, p. 17)

Tramonto

Old Henry
di Potsy Ponciroli
USA, 2021 (Festival del Cinema di Venezia 2021)
Con: Tim Blake Nelson (Henry), Stephen Dorff (Ketchum), Scott Haze (Curry), Gavin Lewis (Wyatt)
Trailer del film

Inizi del Novecento, Ovest degli Stati Uniti d’America. Henry e suo figlio vivono in una fattoria isolata tra i campi e i boschi. Arriva un cavallo senza il suo proprietario. Henry lo va a cercare e trova un uomo quasi moribondo. Accanto a lui una pistola e una borsa con molto denaro. Henry è indeciso. Fa per andarsene ma poi torna indietro, porta l’uomo a casa e lo rimette in sesto. Ben presto arrivano tre figuri che si presentano come sceriffi ma non si sa bene che cosa siano. L’uomo ferito dice di essere lui lo sceriffo. I tre chiedono a Henry se ha visto quell’uomo. Naturalmente no. Fanno finta di credergli ma poi tornano e si scatena la morte.
Paesaggi mirabili nel cielo e nella terra dell’autunno. Colori intensi e mortali. Un western epico, sobrio e decadente nel quale la tomba di una donna offre informazioni preziose nella partita a scacchi che è l’esistere, nel quale il conflitto non è sul denaro ma è sull’identità. Chi sono gli umani che si fronteggiano ancora una volta come gli Achei assediavano Ilio? Che cosa nasconde -quali carte, quali storie- quella fattoria i cui maiali raffigurano per due volte il ciclo della materia che muore e in altre forme si rigenera? E soprattutto chi è davvero il vecchio Henry?
La risposta verrà e sarà, come sempre, il tramonto.

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