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Potenze morenti

Come mostrano gli etologi e come sa un’antica sapienza, l’animale morente può diventare molto pericoloso, sia per un ultimo disperato tentativo di non morire sia perché non ha più nulla da perdere.
Gli Stati Uniti d’America sono un animale politico morente e anche per questo stanno diventando sempre più pericolosi. Di questa grande potenza «che si prendeva per il mondo e che diventa una nazione provinciale, intollerante e in via di decomposizione […] il mondo farebbe volentieri a meno» (Hervé Juvin, Diorama Letterario, n. 366, marzo-aprile 2022, p. 12).
Il mondo. Non quella sua piccola parte che lo ha dominato per secoli ma che dalla fine della Prima guerra mondiale è sottomessa alla cultura e all’economia anglosassone. Il mondo, vale a dire l’Asia, buona parte dell’America centrale e del Sud America, molti stati arabi ed africani. E non un’Europa «troppo sottomessa, troppo muta e troppo assopita in un confort usurpato per poter aiutare l’alleato a riprendere piede in un mondo che non capisce più» (Ibidem).
L’animale politico morente ha teso l’ennesima trappola alla Russia e soprattutto all’Europa. Tramite lo strumento di egemonia militare della NATO, gli USA hanno messo la Russia «di fronte all’alternativa di vedere anche formalmente inglobata nella Nato un’Ucraina ormai da otto anni sostenuta con armi, risorse economiche e aperture di credito politiche dall’alleanza occidentale oppure tentare con la forza di impedire il rafforzamento di questo connubio» (Marco Tarchi, p. 1). Questo è il quadro geopolitico e storico, non moralistico e sentimentale, dentro il quale soltanto si può comprendere il conflitto tra la NATO e la Russia combattuto in territorio ucraino.
Si tratta infatti anche dell’ennesimo evento e testimonianza di ciò che Baudrillard definisce «immondializzazione», il progressivo venir meno della pluralità e della differenza a favore di una visione unica e omologata della storia e dell’umano. La stessa ‘immonda mondializzazione’ per contrastare la quale Yukio Mishima commise seppuku il 25 novembre del 1970, convinto -come scrisse- che il suicidio «permette di cambiare la propria vita in un istante di poesia» (lo ricorda Manlio Triggiani parlando di un libro dedicato da Danilo Breschi allo scrittore giapponese, p. 33).
Un gesto, il suicidio, sul quale Mishima rifletté e scrisse lungo tutta la vita. Anche il Giappone appariva ed era agli occhi di questo scrittore/samurai un animale morente. Al quale con la propria morte Mishima cercò di restituire vita.

Il Gran Consiglio e la Russia

Non conosco l’autore del testo che pubblico qui sotto né la rivista sulla quale è uscito.
Ma importa poco. Chiunque siano Gabriele Giorgi e la rivista Cambiailmondo, quella che segue mi sembra un’analisi assai lucida, informata e intelligente della guerra in corso tra da una parte la NATO/USA e dall’altra la Federazione Russa, con vittima la popolazione ucraina. Vittima in primo luogo del governo di quel Paese, pesantemente inquinato da elementi e ideologie neonaziste e guidato da un attore cocainomane e completamente sottomesso alla NATO. Un governo che ha un analogo, pur se con modalità diverse, nel governo italiano, guidato da un soggetto che Francesco Cossiga definì «vile affarista» e che tale in effetti si sta rivelando.
Di fronte alla rovina dell’Italia e dell’Europa, a vantaggio degli USA e per difendere il governo fantoccio dell’Ucraina, ci sarebbero le condizioni per processare i governi in quanto colpevoli di «alto tradimento» degli interessi e della sicurezza dei loro cittadini.
È quello che propone anche questo testo, il quale denuncia la grave crisi economica, i rischi bellici, la miseria politica di un governo definito «Gran Consiglio del Draghismo», del quale fanno parte tutti i partiti presenti in Parlamento, dalla Lega di Salvini al Partito Democratico di Letta e con il sostanziale sostegno anche di Fratelli d’Italia. La formula indica una plausibile analogia con il Gran Consiglio del Fascismo.
Segnalo quindi l’articolo di Giorgi e ne consiglio vivamente la lettura.

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Il popolo italiano deve decidere se accetta o no l’entrata in guerra
di Gabriele Giorgi
Fonte: Cambiailmondo, 24.6.2022

L’ora delle decisioni irrevocabili si sta rapidamente avvicinando. Anzi è già stata presa. Resta da stabilire la data della comunicazione ufficiale. Non a Piazza Venezia, ma a reti unificate, appoggiata da un’azione sui social già iniziata mesi fa, che si farà pressante verso la fine dell’estate. Dichiarazione al popolo e, solo in seconda istanza, al Parlamento, visto che da tempo, si governa per decreti e l’urgenza è diventata la prassi consueta, analogamente a quanto avviene per le condannabili autocrazie che ci apprestiamo a sconfiggere.

Per chi, tra le elìtes istituzionali, si oppone all’entrata in guerra, vi è una sola possibilità: lavorare alla caduta del Gran Consiglio del Draghismo, dichiarare la neutralità e la sospensione dell’adesione alla Nato, seguendo le indicazioni della maggioranza del popolo italiano che ha capito da tempo l’obiettivo del variegato movimento guerrafondaio: una nuova, lunga stagione di oppressione dei lavoratori e lavoratrici, dipendenti o autonomi, dei precari, dei giovani, degli studenti, dei pensionati, che deve durare decenni; per salvaguardare gli interessi, ma soprattutto il potere, dei rappresentanti della grande impresa, di grandi banche, del capitale finanziario e speculativo, di tutti coloro che per sopravvivere devono continuare ad avere la possibilità di salassare i produttori reali.

La secessione del ministro degli esteri Di Maio – con la contemporanea convergenza di Fratelli d’Italia a sostegno di Draghi – è stata la mossa preventiva per ovviare al potenziale inconveniente della caduta del Gran Consiglio. Ne seguiranno altre. Si tenta cioè di chiudere ogni via parlamentare “legittima” al possibile posizionamento del paese contro la partecipazione diretta alla guerra in Europa e ad una terza guerra mondiale pienamente dispiegata.

Sono i seguiti di quanto deciso un mese prima dell’invasione russa dell’Ucraina, in occasione della rielezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica, quando si è riusciti a bloccare ogni opzione che non fosse di piena garanzia per gli anglosassoni e per il loro prediletto giocattolo, la Nato.

È immaginabile che, in vista del voto di marzo 2023, in considerazione del succedersi degli eventi, si stiano valutando diverse altre possibilità di contenimento di pericolosi orientamenti che tentino di mettere in forse l’applicazione pedissequa del canovaccio già scritto; fino al possibile rinvio della campagna elettorale e delle elezioni o al varo di un governo provvisorio di salute pubblica che gestisca l’emergenza energetica, inflazionistica e bellica (causate ovviamente dai cattivi russi).

È già evidente che abbiamo solo due/tre mesi di autonomia energetica, dopodiché la riduzione o la chiusura del flusso di gas dalla Russia provocherà la sospensione di altrettante fabbriche nei settori produttivi più esposti all’aumento dei prezzi, disoccupazione di ingenti masse di lavoratori, razionamento energetico nelle case, aumento vertiginoso dell’inflazione con parallela svalutazione dei redditi da lavoro e dei profitti delle piccole imprese (quelle che resteranno in campo) e della perdita di competitività generale di un sistema paese orientato all’export sui mercati internazionali.

Si tratta di uno scenario che prevede solo due opportunità: la guerra appunto, oppure una generale revisione da attuare in più passaggi, il primo dei quali non può che essere quello di uscire dalla logica di guerra. Poi si vedrà.

Come mostrato dai risultati delle elezioni politiche in Francia, la questione non riguarda solo noi. E gli effetti accennati coglieranno in pieno, assieme all’Italia, anche la Germania. Il vagone ferroviario del treno da Varsavia a Kiev, che ospitava Draghi, Macron e Schulz, da questo punto di vista, è l’immagine storica di un fallimento. La soluzione che i tre hanno proposto e che oggi è stata confermata dall’UE, di accettazione della candidatura dell’Ucraina, è una mossa incerta per prendere tempo in attesa di vedere come si evolvono le cose e per verificare la possibilità di un parziale sganciamento di Kiev dai solidi fili manovrati da Washington e Londra.

Ma l’inserimento nell’agenda dell’adesione anche della Moldavia (e già si preannuncia della Georgia) e la chiusura del transito ferroviario tra Bielorussia e l’enclave russa di Kalinigrad, a sole 48 ore dalla missione dei tre leader a Kiev, mostra che gli angloamericani e i loro non pochi sodali nella UE, hanno rilanciato in modo drastico facendo risalire la tensione ai livelli più alti.

Ammesso che Francia, Germania e Italia tentino convintamente di giocare una carta parzialmente autonoma negli scenari di guerra, essa è tardiva e contraddetta dai fatti. Sarebbe peraltro strano che due paesi che ospitano le più grandi basi Nato in Europa e nel mondo (e una in chiaro declino) possano essere in grado di mutare in extremis un’agenda euroatlantica alla quale si lavora da oltre un decennio.

Le redini dello scontro sono saldamente in mano a Usa/Uk e Russia. Entrambi giocano il loro gioco sul campo ucraino e allo stesso tempo in Europa, che costituiscono un unico anche se diversificato obiettivo: per la Russia si tratta di capire se l’Europa o parte di essa può tornare a costituire in tempi medi, un partner, dopo l’imposizione della chiusura del Nord Stream-2. Per gli anglosassoni si tratta di evitare definitivamente e per un tempo molto lungo che ciò possa accadere, pena la loro crescente marginalizzazione e perdita di influenza nello scenario globale.

La compenetrazione e il comando delle elìtes neoliberiste delle economie euroatlantiche non lascia molto spazio a dubbi: per Francia, Germania e Italia non c’è, dentro il quadro istituzionale e politico attuale, nessuna convincente opportunità; chi ha provato a perseguire questo disegno sembra esserne uscito sconfitto. La narrazione mediatica della immaginaria mediazione di Draghi appare in questo contesto, financo ridicola: essa si sarebbe dispiegata a partire dall’incontro con Biden fino al viaggio in treno a Kiev; ma Draghi ha dovuto ricordare e ricorda in ogni occasione che la decisione finale su quale pace sia possibile, spetta a Kiev, cioè a Biden e Johnson.

Dunque, a parte l’escamotage di un attivismo di propaganda, le porte sono chiuse e tutti lo sanno. A Di Maio deve essere stato chiarito in diversi briefing sollecitando una sua opzione esplicita a garanzia di un suo futuro politico.

Gli eventi vanno inesorabilmente verso il diretto coinvolgimento dell’Europa nel conflitto, via Lituania, Polonia, Nato; questa è la sola condizione, per gli angloamericani, di poter saggiare, da lontano e senza gravi rischi, se la Russia può essere messa in ginocchio o fortemente indebolita e, insieme, l’occasione di uno stress-test sul progetto Brics di ricomposizione multipolare dell’ordine mondiale, prima di avventurarsi nello scontro diretto con la Cina.

Gli altri attori non resteranno certamente con le mani in mano, aspettando che si concluda definitivamente quel nuovo secolo americano inaugurato nel 2001.

Per evitare la fine dell’Europa (o quella anticipata del mondo), non abbiamo altre opportunità che non siano quelli della caduta dei gran consigli nel continente. Uno di questi, niente affatto secondario, è quello italiano.

Sulla Russia

Che cosa ha fatto?
Aldous, 14 maggio 2022

In questo breve articolo ho cercato di sintetizzare ciò che penso del conflitto tra Russia e Ucraina all’interno del più ampio contesto geopolitico contemporaneo. Un contesto che mi sembra pericolosamente simile al clima di esaltazione e di propaganda che portò l’Europa al suicidio nell’estate del 1914.

Segnalo inoltre il miglior articolo che abbia letto sinora sul conflitto in Ucraina, il suo significato, le modalità, la funzione:
Lo spettacolo della guerra
di Giovanna Cracco, paginauno, n. 77, aprile-maggio 2022.

Clangore

Lancillotto e Ginevra
(Lancelot du Lac)
di Robert Bresson
Francia, 1974
Con: Luc Simon (Lancillotto), Laura Duke Condominas (Ginevra), Vladimir Antolek-Oresek (Re Artù)
Trailer del film

Inizia con scene di violenza. I cavalieri della Tavola Rotonda sono infatti delusi, amareggiati e impauriti per il fatto di non aver trovato il Santo Graal, il calice nel quale venne conservato il sangue di Cristo, e per questo saccheggiano e distruggono. Anche Re Artù è preoccupato per il fallimento e per la maledizione divina.
La Regina Ginevra accoglie il ritorno di Lancillotto con la gioia e l’inquietudine dell’amante. Il cavaliere le dice che la loro storia non può continuare ma Ginevra lo desidera ancora. Quando le sorti e i sentimenti si capovolgono ed è lei a non volergli far correre dei rischi, lui invece la vuole.
I tornei ‘pacifici’ tra i cavalieri diventano occasioni di vendetta, sino alla guerra e alla distruzione di un microcosmo leggendario che Bresson racconta con insolita crudezza, con una recitazione distaccata come se fossero i poemi a parlare, con delle riprese assai singolari che in molte scene partono dal basso, dalle superfici, dalla terra, e descrivono i personaggi -cavalli e cavalieri- nella espressività dei corpi e delle azioni ma non dei volti e degli sguardi. E su tutto dominano i suoni: quelli cadenzati a intervalli pressoché regolari del nitrito dei cavalli, quelli continui e pervasivi delle armature dalle quali i cavalieri sono sempre coperti. Un clangore di ferraglia che costituisce la cifra del film, che esprime con forza l’inquietudine della leggenda, le percussioni della morte.

Anarchia vs. umanitarismo

Morale e società: un punto di vista anarchico
in «Il pensiero e l’orizzonte. Studi in onore di Pio Colonnello»
Mimesis, Milano-Udine 2021 [ma pubblicato nel 2022]
pagine 87-96

  • Indice del saggio
    1 La guerra giusta
    2 Umanitarismo vs. emancipazione
    3 Oltre l’umanitarismo: la prospettiva anarchica
    Conclusione, Orwell-Schmitt

In questo saggio, scritto per un volume in onore dell’amico Prof. Pio Colonnello, ho cercato di indicare alcune delle ragioni per le quali il venir meno del sistema stabilito nel 1648 con le paci di Westfalia, vale a dire l’esclusione dei civili dai conflitti e la non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi, sia stato e continui a essere una delle ragioni della ferocia contemporanea, con le sue guerre scatenate in nome dei diritti e della democrazia così come in passato l’Europa subì le guerre condotte in nome delle religioni e della verità, guerre alla quali appunto Westfalia aveva posto fine.
La «guerra giusta» è una delle espressioni più esiziali e pericolose del paradigma umanitario, paradigma al quale contrappongo una prospettiva anarchica matura, vale a dire disincantata ma proprio per questo capace di difendere la democrazia, che significa non l’andare al voto ogni certo numero di anni -voto il cui esito viene regolarmente disatteso se diverso rispetto a quello voluto dai mercati- ma significa «effettiva divisione dei poteri, che oggi sono invece subordinati a quello finanziario; significa la libertà di scrivere e manifestare il proprio pensiero, sempre più limitata da censure ideologico-governative e dal flagello del politicamente corretto che sottomette al diritto penale persino le opinioni storiche e filosofiche».

La pelle

Curzio Malaparte 
La pelle
Garzanti, 1967 (1949)
Pagine 334

I fatti. Anzitutto i fatti. Quelli che tutti conoscono ma che è bene tacere. I fatti dei quali molti europei erano stati testimoni e conservavano memoria ma che era bene trattare come se non fossero accaduti. I fatti dell’Italia e dell’Europa liberata dagli eserciti alleati. Fatti che aiutano a comprendere in modo più ampio che cosa quella liberazione fu, quale costo ebbe per i popoli del nostro continente.
I fatti.
Bambini e bambine venduti ai soldati vincitori da parte dei loro stessi familiari.
L’amicizia e i ‘fidanzamenti’ dei soldati americani, in particolare i soldati neri, come grandi affari necessari alla sopravvivenza: «Il negro non sospettava di nulla. Non si avvedeva di esser comprato e rivenduto ogni quarto d’ora e camminava innocente e felice […] Non sospettava neppure di esser venduto e comprato come uno schiavo. […] Un negro americano era una miniera d’oro» (p. 25).
Una ragazza vergine mostrata come cosa rara e con la possibilità di infilare un dito nella sua vagina in modo da verificare che vergine fosse realmente: «Per sentirsi eroi, tutti i vincitori hanno bisogno di veder queste cose. Hanno bisogno di ficcare il dito dentro una povera ragazza vinta» (50).
Un rito iniziatico della ‘Internazionale degli invertiti’, denominato ‘la Figliata’.
Degli ebrei crocifissi dai nazisti in Ucraina.
Le bombe al fosforo su Amburgo: «Il fosforo è tale che si appiccica alla pelle come una viscida lebbra, e brucia solo al contatto dell’aria. Non appena quei disgraziati sporgevano un braccio fuor della terra o dell’acqua, il braccio si accendeva come una torcia. Per ripararsi dal flagello, quegli sciagurati erano costretti a rimanere immersi nell’acqua o sepolti nella terra come dannati nell’Inferno di Dante. […] E nulla valeva ad arrestare il morso di quella terribile lebbra ardente» (104).
L’amatissimo cane di Malaparte -di nome Febo- rubato a Pisa, venduto per pochi soldi alla Clinica Veterinaria dell’Università, torturato con la vivisezione: «Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieni di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un fremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto» (159).
A un pranzo del Generale Cork viene portato in tavola l’ultimo rarissimo pesce rimasto nell’acquario di Napoli (gli Alleati avevano proibito la pesca per ragioni militari); un pesce-sirena che sembra pari pari una bambina bollita e che come tale viene accolto con orrore dai commensali: «Io guardavo quella povera bambina bollita, e tremavo di pietà e di orgoglio dentro di me. Meraviglioso paese, l’Italia ! pensavo. Quale altro popolo al mondo si può permettere il lusso di offrire a un esercito straniero, che ha distrutto e invaso la sua patria, una Sirena alla maionese con contorno di coralli? Ah ! Metteva conto di perder la guerra, sol per vedere quegli ufficiali americani, quell’orgogliosa donna americana, sedere pallidi e sbigottiti d’orrore intorno a una Sirena, a una deità marina distesa morta in un vassoio d’argento, sulla tavola di un generale americano!» (218).

Questo fu la Seconda guerra mondiale a Napoli, in Italia, in Europa, ovunque. Compresa la guerra di resistenza al nazifascismo. Quest’ultima fu «un’atroce guerra civile» (302) e la guerra universale fu una «guerra non contro gli uomini, ma contro Cristo» (301), nome che compare lungo tutto il romanzo -anche il cane Febo è un Cristo crocifisso- a indicare probabilmente per contrasto l’impossibile purezza dell’umanità. Una guerra che sarebbe stato vergogna vincere (così la chiusa, p. 328). Una guerra che vide le popolazioni sottomettersi con gioia ai nuovi padroni e alla loro sorridente e ottimistica depravazione. Una guerra i cui luoghi italiani stupiscono i militari americani, che mostrano tutta la loro ignoranza su Roma e sull’Italia. Una guerra dove, a Napoli, nobiltà e plebe confermano ancora una volta la loro complicità, la loro reciproca fedeltà, la loro familiarità. Una guerra alla fine della quale uscirono dalle loro tane coloro che in esse si erano rifugiati -tane letterali, tane metaforiche- e che poi, «un giorno, morto il tiranno, faran gli eroi della libertà» (161). Una guerra che diventa piccola cosa al cospetto della potenza di due vulcani: l’«Etna, Olimpo di Sicilia» (161) e soprattutto il Vesuvio, la cui eruzione del 1944 viene descritta da Malaparte nel modo epico che quell’evento merita e che vide punite l’arroganza e il sentimento di superiorità dei soldati alleati, diventati anch’essi dei pezzenti del terrore, straccioni in fuga di fronte alla potenza del fuoco.

La lingua di Malaparte sembra davvero la pittura di Brueghel o di Bosch (esplicitamente ricordati a p. 29). La follia di Brueghel e di Bosch ricondotta e trasformata nella follia della Napoli e dell’Europa contemporanee.
Napoli, «la più misteriosa città d’Europa» (40); Napoli vittima di una peste, di un «nuovissimo morbo […] che non corrompeva il corpo, ma l’anima» (33), simile in questo al morbo contemporaneo denominato Covid19; Napoli, l’antica cui «nobile voce della fame, della pietà, del dolore, della gioia, dell’amore, l’alta rauca, sonora, allegra, trionfante voce era spenta» (322) ma con la dignità del suo popolo intatta, nonostante tutte le azioni turpi e infami delle quali diventa complice a favore dei ‘liberatori’; Napoli della quale Malaparte disegna come a nessun altro ho visto fare «il sapore e l’odore della luce» (120).
Al di là di Napoli, tutta l’Europa «è un paese misterioso, pieno di segreti inviolabili» (21); è una terra nobile, saggia ed estrema. E tale rimane anche quando non viene «purificata ma corrotta dalla sofferenza», anche quando non viene «esaltata ma umiliata dalla raggiunta libertà» (123). Durante la catastrofe delle due guerre nelle quali e con le quali l’Europa si è uccisa, dopo e di fronte agli effetti di tale autodistruzione, pur in mezzo alla «sottile, cinica, perversa propaganda condotta di lontano, e mirante a dissolvere il tessuto sociale europeo, in previsione di ciò che gli spiriti deboli del nostro tempo salutano come la grande rivoluzione dell’età moderna» (130), l’Europa è ancora la culla della luce pur rischiando d’essere la sua tomba.
E questo anche per merito dei suoi scrittori, filosofi e artisti, come lo stesso Curzio Malaparte, perseguitato dal fascismo e ostracizzato dall’antifascismo, avendo «sofferto la galera per la libertà dell’arte» (99) e l’emarginazione e delle bizzarre accuse per la stessa ragione. Come altri scrittori, filosofi e artisti, Malaparte può dire con chiarezza in mezzo alla devastazione, «io ero l’Europa. Ero la storia d’Europa, la civiltà d’Europa» (199).
I morti di Napoli e i morti universali; «hanno una forza terribile, i morti, e potrebbero spezzare i ferri, romper la cassa, buttarsi fuori a mordere» (70). Morti i quali, e qui l’intuizione antropologica è profonda, «eran stranieri, appartenevano a un’altra razza, alla razza degli uomini morti, a un’altra patria, la morte» (308). È infatti un libro di antropologia La pelle. Un’antropologia disincantata e dagli accenti gnostici. Di fronte all’intera vicenda di macello e di dissoluzione che è la storia umana, infatti, si deve constatare che «gli uomini son capaci di qualunque vigliaccheria per vivere : di tutte le infamie, di tutti i delitti, per vivere» (44). Realisticamente ed empiricamente, «l’uomo è cosa ignobile. […] L’uomo è una cosa orrenda» (319-320), tanto che disprezzare in sé e negli altri questa umanità «è la prima condizione della serenità e della saggezza nella vita umana» (159-160).

«Il male è inguaribile» (60) e la sua bandiera politica, il suo simbolo antropologico, il suo stendardo esistenziale è un uomo schiacciato da un carro armato alleato mentre correva per le strade di Roma ad accogliere festante i vincitori. Ridotto a una sottile striscia di carne e di pelle, quello che di lui rimase «è la bandiera della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle. […] E unitici al corteo dei becchini, ci avviammo dietro la bandiera. Era una bandiera di pelle umana, la bandiera della nostra patria, era la nostra stessa patria. E così andammo a vedere buttare la bandiera della nostra patria, la bandiera della patria di tutti i popoli, di tutti gli uomini, nell’immondezzaio della fossa comune» (288-290).
Un romanzo di guerra e di memorie, scritto come una poesia che si trasforma in studio antropologico e in danza macabra. E sopra ogni cosa l’intelligenza del mondo e della storia.

Odissea

Umanità irrequieta, nel mare e nel sole di un viaggio rapsodico
il manifesto
21 gennaio 2022
pagina 11

Il personaggio e la persona di Odisseo sono una delle incarnazioni più emblematiche dell’ermeneutica, del fatto che la vera storia di una figura letteraria, di un’opera, di un concetto sono i suoi effetti nel tempo. E questo conferma la potenza degli antichi canti dei Greci che vennero selezionati, messi per iscritto e ai quali si diede il titolo di Iliade, la guerra, e di Odissea, i viaggi e i ritorni. Vale a dire i due archetipi della letteratura universale perché modello e forma delle esistenze di tutti noi: i conflitti, la casa, gli affetti, lo spazio, l’inquietudine, la morte.

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