Lunedì 20 marzo 2023 alle 12.00 nell’aula A7 del Dipartimento di Scienze Umanistiche (Disum) dell’Università di Catania Simona Venezia – professore associato di Filosofia teoretica nell’Università Federico II di Napoli – terrà una lezione per gli studenti del corso magistrale di Scienze filosofiche (ma aperta a tutti) dedicata al Nietzsche di Eugenio Mazzarella. La Prof. Venezia presenterà e discuterà il volume Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita. L’evento è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU).
Lo stesso giorno si terrà un altro evento organizzato dall’ASFU: il primo incontro di un ciclo dedicato a Guerre ed Europa. L’argomento è il pólemos nel mondo greco e romano e a parlarne saranno Margherita Cassia (Professore Associato di Storia Romana), Monica Centanni (Professore Ordinario di Lingua e Letteratura Greca) e Domenico Tempio (Ricercatore di Storia Greca).
Il resiliente è il cittadino che non si ribella. Mai. Che si ritiene abbastanza forte da vivere libero nonostante l’autonascondimento della propria schiavitù. Che introietta il trauma vedendo in esso un fattore di miglioramento e di serena rassegnazione. Che cerca di resistere al dominio iniquo non ribellandosi a esso ma aspettando che passi. Il transito di questa parola dall’ingegneria e dalla scienza dei materiali all’ingegneria del materiale umano è stato promosso dal libro di uno psichiatra – Boris Cyrulnik – il cui non casuale titolo è Un merveilleux malheur (Editions Odile Jacob 1999), Il dolore meraviglioso, nella traduzione Frassinelli del 2000, ma che si potrebbe anche tradurre come una meravigliosa disgrazia.
Ma anche qui niente di particolarmente nuovo. Come siciliani conosciamo da secoli il resiliente invito racchiuso nelle parole «Calati junco ca passa la china», piegati o giunco, sino a che non sarà trascorsa la piena. Il rischio però è che la piena trascini con sé tutti noi.
Robert Capa. Nella storia
Museo della Culture (Mudec) – Milano
A cura diSara Rizzo, in collaborazione con Magnum Photo
Sino al 19 marzo 2023
«Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino». A dirlo è Endre Ernő Friedmann, che da fotografo prese il nome di Robert Capa. E infatti finì la sua breve vita (era nato a Budapest nel 1913), durante l’ennesimo reportage di guerra, nel 1954, in Indocina/Vietnam, saltando su una mina antiuomo.
La guerra è il tema principe della sua arte, ma non è l’unico. E soprattutto la guerra non sono i morti e le distruzioni ma l’umanità viva davanti ai morti, immersa nella distruzione, nel tentativo di scampare, nella festa per la guerra che si conclude. La guerra non è decisa da nessuno ma sono gli umani – e tra loro soprattutto i potenti – a essere decisi da essa.
La guerra è una passione mortale, la cui natura suggerì ai Greci di trasformare in amanti Ares e Afrodite. La costanza della guerra nonostante la sua devastante irrazionalità è essa stessa prova e indizio di una razionalità ben espressa dall’ironia di Euripide. In Ὀρέστης, infatti, Apollo spiega la ragione antropodecentrica per la quale gli dèi permettono, organizzano, assistono, vogliono la guerra tra gli umani: «θανάτους τ᾽ ἔθηκαν, ὡς ἀπαντλοῖεν χθονὸς / ὕβρισμα θνητῶν ἀφθόνου πληρώματος», «tante morti vollero, per sgravare la terra dall’insolenza d’una ciurma d’uomini sterminata» (vv. 1641-1642). Comprendere dunque «la fusione tra bellezza e violenza, tra terrore e amore – il terribile amore per la guerra» (Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi 2005, p. 133) significa riconoscere la ferocia della guerra riuscendo tuttavia a spiegare perché essa sia così costante e così coinvolgente.
Questo terribile amore per la guerra percorre le opere di Capa.
I profughi tedeschi che il 24 marzo 1945 lasciano le loro case e i campi ridotti in cenere.
I bambini cinesi di Hankou che giocano nella neve durante la guerra Cino-giapponese nel 1938.
CHINA. Hankou. March, 1938. Children playing in the snow
Le donne di Mosca che ballano tra di loro nel 1947 anche perché molti uomini sono morti al fronte (immagine di apertura)
Lev Trotsky che a Copenhagen il 27 novembre 1932 esercita tutto il proprio fascino e forza retorica per sostenere «la rivoluzione permanente», vale a dire la guerra permanente. DENMARK. Copenhagen. November 27th, 1932. Leon Trotsky lecturing
Come si vede, non ci sono cadaveri qui. C’è la vita umana prima, durante e dopo la guerra. La vita umana sempre.
Il caso Collini (Der Fall Collini)
di Marco Kreuzpaintner Germania, 2019
Con: Elyas M’Barek (Caspar Leinen), Franco Nero (Fabrizio Collini), Alexandra Maria Lara (Johanna Meyer), Manfred Zapatka (Hans Meyer), Sandro Di Stefano (II) (Claudio Lucchesi) Trailer del film
Un anziano magnate dell’industria tedesca, Hans Meyer, viene ucciso a sangue freddo e con violenza in un albergo di Berlino. L’assassino si fa arrestare senza opporre alcuna resistenza. È un uomo di origine italiana che si chiude in un mutismo ostinato e completo. Gli viene assegnato un giovane avvocato d’ufficio che è stato amico della vittima e della sua famiglia. Anche se titubante, l’avvocato Caspar Leinen accetta l’incarico e ha come controparte quello che in Italia si definirebbe «un principe del Foro», che è stato anche suo professore. E tuttavia la determinazione e l’intelligenza dell’avvocato Leinen conducono alla scoperta e alla messa in pubblico di una parte della vita di Meyer che era stata accuratamente nascosta. A Fabrizio Collini, l’assassino, basta questo per riscattare la morte di suo padre, vittima senza ragione di una rappresaglia delle SS nel 1944 in Toscana, ordinata ed eseguita dall’allora SS Meyer. Mῆνις – il rancore, la vendetta, l’ira – non va infatti mai in prescrizione.
Come viene difesa la memoria di Hans Meyer dal suo avvocato, dalla nipote, persino dalla legge? In che modo viene giustificata la fucilazione di venti civili come rappresaglia per la morte di due soldati tedeschi? Con la formula: «Ha eseguito gli ordini». La stessa formula di tanti ufficiali delle SS, la stessa formula di Adolf Eichmann, la stessa formula dei burocrati che ovunque e sempre si fanno portatori «innocenti e neutri» di ingiustizia.
Allo stesso modo, infatti, si giustificano in questo nostro tempo i tanti burocrati che «obbedendo» alle norme sull’epidemia hanno privato altri cittadini del posto di lavoro, dello stipendio, dell’integrità sociale; allo stesso modo si giustificano i tanti funzionari che hanno firmato dei vergognosi decreti di sospensione. La differenza con i burocrati nazionalsocialisti è quantitativa, è di grado, non è di sostanza. È facile infatti intuire che in altre circostanze i nostri contemporanei si sarebbero comportati allo stesso modo, da buoni funzionari, obbedendo sempre alla legge. Ma la formula universale «è la legge che lo stabilisce» non legittima l’iniquità della legge e di chi a essa obbedisce, facendosene complice, assumendosi responsabilità molto gravi. Come, appunto, Eichmann, Meyer e tanti altri «esecutori» del passato e del presente.
Che cosa autorizza un Paese come gli Stati Uniti d’America a intromettersi nelle decisioni, nella vita, nelle libertà di altri Paesi? In nome di che che cosa gli USA sono giudici dei destini di ciò che avviene nel continente asiatico, in America Latina, in Europa, ovunque? Da dove proviene questo privilegio assoluto di decidere per tutti che cosa sia il bene e che cosa il male? Che cosa legittima la pretesa che gli altri popoli, stati, nazioni debbano obbedire ai giudizi, alle decisioni, alle azioni degli Stati Uniti?
Non vedo porre tali domande, che pure sono essenziali di fronte a un’ingerenza sempre più pervasiva, totale, assai rischiosa, da parte dello stato nordamericano in tutti gli eventi del pianeta.
Ai difensori dell’imperialismo statunitense (così si chiama tecnicamente nella scienza della politica) pongo tali domande, che non sono retoriche. Vorrei proprio saperlo, infatti. Perché e da dove nasce il privilegio assoluto degli USA di decidere sulla Siria, sull’Iran, sui rapporti tra la Cina e la Russia, sui governi italiani, sulla politica monetaria cilena, solo per fare qualche esempio di una presenza totale? Da dove proviene? Che cosa lo motiva? Su quali elementi normativi o etici del Diritto internazionale si fonda?
Sin quando queste e analoghe domande non riceveranno risposte razionali e plausibili, l’ingerenza planetaria degli Stati Uniti d’America sarà una forma della volontà di potenza, la più pericolosa mai attuata nella storia della nostra specie.
Nulla di nuovo naturalmente, anche se nuove sono le potenzialità distruttive che una simile politica comporta, ma allora bisognerebbe dirlo in modo esplicito, senza infingimenti: nelle guerre che gli USA iniziano ovunque o alle quali partecipano domina la legge del più forte, vigono principi di natura geopolitica, sono in gioco le ambizioni di dominio economico e strategico della potenza più armata del pianeta. Di questo si tratta. E non di ‘valori’, ‘democrazia’, ‘libertà’. Ripulire il campo dall’ipocrisia moralistica e semantica sarebbe già un passo avanti.
È soltanto in questo quadro che si può comprendere la questione Ucraina.
Oskar Lafontaine, ex ministro delle Finanze tedesco ed ex presidente del partito socialdemocratico (SPD) ha dichiarato apertamente che «la guerra in Ucraina non è una guerra della Russia contro l’Ucraina o viceversa, ma una guerra degli Stati Uniti contro la Russia» (Contropiano. Giornale comunista on line, 16.2.2012). È infatti una guerra anche vigliacca quella combattuta dagli Stati Uniti d’America per procura contro la Russia in Ucraina, «senza rischiare la vita di un solo soldato sul terreno, limitandosi a fornire strumenti di morte e informazioni spionistiche per rendere l’impatto più efficace» (Marco Tarchi, Diorama Letterario 371, p. 1).
Una guerra che invera e prosegue la svolta rovinosa che a partire dalle Paci di Versailles del 1918-1919 ha trasformato la guerra in una questione assoluta, nella quale il nemico non è più un semplice nemico ma è diventato un subumano che non merita alcun rispetto. Una disumanizzazione, anche rispetto al mondo antico, che ha la sua plastica testimonianza nella richiesta del presidente ucraino di vietare a tutti gli atleti russi di partecipare alle Olimpiadi di Parigi del 2024, quando invece per i Greci le Olimpiadi erano ragione di tregua nei conflitti in corso.
La marionetta che governa Kiev (e che si crede un burattinaio) oltrepassa ogni misura, razionalità, responsabilità, chiedendo «armi, più armi» alla NATO. Tanto che i Paesi che compongono l’alleanza militare si stanno dissanguando per finanziare la guerra, togliendo pane, sanità, scuola, lavoro, ai propri cittadini allo scopo di armare all’inverosimile la dittatura ucraina. E che si tratti di una dittatura è confermato dal Partito Unico al potere, dalla persecuzione dei russofoni e della Chiesa ortodossa non nazionalista, dalle ‘punizioni’ erogate in pubblico e senza alcun processo per chiunque sia giudicato ribelle dalla polizia, dal tentativo di sterminio degli abitanti delle regioni autonome, dal dominio totale sui media ucraini. Anche Amnesty International conferma che l’esercito dell’Ucraina ha come obiettivo la morte e il danno dei cittadini ucraini. L’Ucraina è in realtà uno dei Paesi più corrotti d’Europa e fiumi di denaro dei cittadini e contribuenti italiani ed europei vanno a ingrossare i conti correnti di politici e oligarchi ucraini.
L’eterogenesi dei fini è una delle forme più ironiche e più amare delle vicende umane. In questo caso, essa fa sì che i “democratici” italiani ed europei sostengano anche i movimenti neonazisti al potere in Ucraina. E lo fanno mettendo a rischio i propri concittadini in nome degli interessi e della propaganda degli Stati Uniti d’America. Di fronte alla rovina dell’Italia e dell’Europa, a vantaggio degli USA e per difendere il governo fantoccio dell’Ucraina, ci sarebbero le condizioni per processare i governi in quanto colpevoli di «alto tradimento» degli interessi e della sicurezza dei cittadini. La miseria economica, il disagio sociale, la crisi della sanità, dei servizi, della formazione sempre più diffuse in Italia e in Europa per difendere e finanziare i Quisling dell’Ucraina costituiscono una prova assai chiara della inadeguatezza, della corruzione, della menzogna che guidano le classi dirigenti del Continente, compreso il governo Meloni. Perché, ad esempio, non ci sono soldi per il bonus edilizio, per l’assunzione di medici negli ospedali, per la ricerca universitaria, per gli edifici scolastici, e invece ci sono (molti) danari per inviare armi e ogni altro strumento di guerra all’Ucraina?
Gli inventori di una Ucraina «democratica» – si tratta in realtà di uno degli stati europei più autoritari e corrotti, con radici e simpatie nazionalsocialiste – si affannano a riempirla di armi e di denaro con il rischio di portare a distruzione l’Europa. Se l’aggressore operativo è la Russia, il vero aggressore strategico è la NATO, che venendo meno agli accordi di Minsk ha ampliato il proprio controllo sull’Europa sino ai confini della Russia. È come se quest’ultima ponesse le sue basi nucleari in Canada o nel Messico. Inaccettabile.
[L’espansione della NATO dal 1998 al 2022]
Gli Stati Uniti vogliono controllare ogni azione politica che accade nel mondo, non accettano neppure come ipotesi un pluriversalismo che limiti il globalismo unipolare che tendono a imporre all’intera umanità. Una prova linguistica e semantica di tale pretesa è l’affermazione che «la comunità internazionale» stia condannando e sanzionando la Russia. In realtà, i Paesi che si sono rifiutati di sanzionare la Russia rappresentano invece l’82% della popolazione mondiale.
E tutto questo per difendere «la libertà», la «democrazia»? No, tutto questo serve a organizzare, imporre e difendere un principio e un germe totalitario che consiste nella Gleichschaltung, nell’allineamento a una sola prospettiva, nella «soppressione dei modi di pensare dissidenti, l’eradicazione di ogni pensiero non coincidente con l’ideologia dominante» (Alain de Benoist, DL 371, p. 13).
Il totalitarismo non consisteinfatti soltanto e principalmente nei mezzi che si usano ma sta nello scopo per il quale si usano. Gli strumenti possono essere assai più leggeri rispetto a quelli utilizzati dai regimi totalitari del Novecento, «mezzi meno brutali, addirittura fatti per piacere e sedurre, che vanno di pari passo con l’adozione e un apparato di sorveglianza di un’ampiezza (e di un’efficacia) mai vista. Questo si chiama pensiero unico, e ogni progetto che punta ad imporre un pensiero unico è totalitario» (Ibidem).
Gli Stati Uniti d’America costituiscono una nazione nata dal peggio dell’Europa, prosperata con il genocidio e le guerre in tutto il pianeta. Una nazione distrutta dall’illusione multiculturalista e spenta dal Politically correct. Gli USA sono una democrazia apparente, sono una società iniqua e feroce. La corsa a essere e a mostrarsi servi degli USA e della NATO, contro gli interessi dell’Europa e dell’Italia, è una delle massime espressioni della tragedia che l’Europa vive in questo nostro tempo. I decisori politici europei sono dei veri e propri traditori al servizio di una potenza straniera e nemica, che sta muovendo guerra all’Europa. La Russia è stata sempre amica dell’Italia. L’ingratitudine spinta sino a fornire armi ai suoi nemici è una responsabilità inaudita del governo Draghi prima e di quello Meloni dopo. Tutto questo si spiega anche con l’idolatria televisiva, con la rinuncia al pensiero, con la Società dello Spettacolo. Una società stordita, inebetita, che scatta come un burattino alle parole d’ordine e alle menzogne dei media, primo dei quali la televisione. Nonostante tale controllo mediatico, il rifiuto della guerra è netto da parte della maggioranza dei popoli e dei cittadini europei. E questo ricorda il 1914. Governi e ceti dirigenti sono oggi come allora accecati da calcoli e fanatismi che portarono alla catastrofe l’Europa.
L’immagine sopra e quella qui sotto spiegano più di tante parole che cosa sia accaduto negli ultimi decenni., una proliferazione di basi statunitensi ovunque (800 sparse in tutto il mondo), che mette a rischio l’esistenza e l’autonomia della Russia e della Cina. Pensare che questo possa accadere senza che Russia e Cina si difendano è stoltezza politica.
[Le basi statunitensi in Asia e Oceania]
Gli Stati Uniti d’America e i loro alleati non hanno il diritto di parlare di pace, semplicemente.Non ne hanno diritto perché la politica estera degli USA dal 1945 al presente è consistita in una serie ininterrotta di guerre. Ecco un elenco delle tante guerre che gli USA hanno scatenato, per non parlare dei colpi di stato contro Paesi sovrani, come il Cile del 1973:
-Corea e Cina 1950-53 (Guerra in Corea)
– Guatemala (1954)
– Indonesia (1958)
– Cuba (1959-1961)
– Guatemala (1960)
– Congo (1964)
– Laos (1964-1973)
– Vietnam (1961-1973)
– Cambogia (1969-1970)
– Guatemala (1967-1969)
– Grenada (1983)
– Libano, Siria (1983, 1984)
– Libia (1986)
– El Salvador (1980)
– Nicaragua (1980)
– Iran (1987)
– Panama (1989)
– Iraq (1991) (Guerra del Golfo)
– Kuwait (1991)
– Somalia (1993)
– Bosnia (1994, 1995)
– Sudan (1998)
– Afghanistan (1998)
– Jugoslavia (1999)
– Yemen (2002)
– Iraq (1991-2003) (truppe Usa e UK insieme)
– Iraq (2003-2015)
– Afghanistan (2001-2015)
– Pakistan (2007-2015)
– Somalia (2007-2008, 2011)
– Yemen (2009, 2011)
– Libia (2011, 2015)
– Siria (2014-2015)
Per quanto riguarda l’Ucraina è ormai chiaro che il gasdotto che unisce la Germania alla Russia è stato distrutto da militari USA. Una gravissima azione di guerra attuata con modalità terroristiche.
E questo perché gli Stati Uniti d’America praticano la guerra contro l’Europa. Lo fanno da tanto tempo. Adesso l’hanno proprio dichiarata. La responsabilità maggiore è dell’Unione Europa, è dei ceti dirigenti europei di “destra” e di “sinistra” – compreso il governo italiano guidato da Giorgia Meloni – che non difendono i loro popoli da un nemico così implacabile, barbaro.
Tutto questo è espressione dell’Identità che tende a cancellare la Differenza. E invece l’essere, anche quello politico, è un gioco senza fine di Identità e Differenza, nel quale nessuno dei due poli cancella, può cancellare, l’altro. Pena la dissoluzione.
Indice
-Il mito
-La salute
-L’angoscia
-La guerra
-Pan
Il significato, la funzione, le strutture del mito affondano nella vita quotidiana degli umani, nelle loro speranze più intime, nelle angosce più fonde, nei pensieri del corpo. E dato che il corpo esiste sino a che siamo vivi, il mito è consustanziale all’esserci, diventa un archetipo la cui fecondità è perenne. Il mito greco è il luogo in cui l’immaginale costruisce la propria tela di significati, dove la caverna è sempre aperta, dove dell’orrore si dà conto.
Opposta alla salute ma sua costante compagna è l’angoscia, la quale non costituisce una semplice tonalità emotiva o uno stato temporaneo di alterazione. L’angoscia è ciò che intesse la vita degli umani poiché essa è l’espressione psicologica della Necessità e del Tempo. Mito, angoscia, salute si coniugano in due figure ambivalenti e ambigue, opposte ma penetranti l’una nell’altra: il Senex e il Puer.
Queste dinamiche contribuiscono a meglio comprendere e a spiegare un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde: la guerra. Il tentativo di Hillman è consistito anche nel coniugare guerra, mito e psiche; di penetrare dentro la guerra, la sua disumanità così umana, il suo fascino costante e sinistro, il suo dominio nella storia. Pensare la guerra per capirla e quindi in qualche modo fronteggiarla. Una vera scienza della guerra non può limitarsi alla storia, alla sociologia, alla psicologia, alla tattica e alla strategia, non può limitarsi all’apparente razionalità delle sue cause, delle forme e degli scopi ma deve cogliere la natura inumana del massacro, le forze profonde che spingono l’essere vivente e razionale a intraprendere la distruzione di ogni cosa e di se stesso.
Una via d’uscita dalla catastrofe è per Hillman il mito politeistico, con le sue figure. In particolare Pan, il quale tiene ancora unita l’identità molteplice del politeismo mentre l’imporsi dei tre grandi monoteismi ha impoverito il mondo della sua strepitosa e costitutiva varietà, ha fatto vincere la coscienza egoica di un soggetto monocorde e senza (apparenti) contraddizioni. Ma il riemergere inevitabile della differenza produce schizofrenie, isterismi, paranoie ben più gravi di quelle che pure il corpo panico di per sé possiede, delle quali è fatto.
La natura più fonda di Pan è costituita dall’al di là dell’Eros, poiché il panico – il terrore della fuga e del polemos – precede l’Eros in ogni sua forma: greca, cristiana, romantica. Con estrema chiarezza, Hillman mormora che «la lotta tra Eros e Pan, e la vittoria di Eros, continuano ad umiliare Pan ogni volta che diciamo che lo stupro è inferiore al rapporto, la masturbazione inferiore alla copula, l’amore migliore della paura, il capro più brutto della lepre» (Saggio su Pan).
E poiché il corpo è l’intrascendibile – nonostante ogni sforzo di negazione attuato dalle religioni ascetiche e dai progetti di un’Intelligenza Artificiale disincarnata –, alla fine esso vince. Sempre.
Poker Face di Russell Crowe USA, 2022
Con: Russell Crowe (Jake), Steve Bastoni (Paul), Liam Hemsworth (Michael), Aden Young (Alex), Rza (Drew), Paul Tassone (Victor) Trailer del film
Il poker è da sempre anche una metafora, come gli scacchi. Metafora delle relazioni, delle passioni, della freddezza, della finzione, dell’autocontrollo, del fatto che Πόλεμος rende alcuni servi e altri liberi, alcuni vincitori, altri vinti: «πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους» (Eraclito, DK, 53). Ma c’è qualcosa che domina e vince su ogni altro elemento, momento, esperienza, ambizione, potenza, struttura: la morte, espressione di Ἀνάγκη. Uno sciamano al quale il ricchissimo Jake si rivolge in un momento assai delicato della sua esistenza gli conferma che «la morte è inevitabile, tutto ciò che vive muore». Una banalità, un truismo, un’evidenza che tuttavia i viventi consapevoli, e tra questi soprattutto gli umani, non sembrano accogliere serenamente e che dunque rovina loro l’esistere. Ἀνάγκη colpisce anche Jake, regalandogli la perenne maschera di malinconia e saggezza che Russell Crowe sa incarnare lungo tutto il film. Volto che è il vero elemento unitario che attraversa Poker Face, opera che pur nel breve tempo del suo svolgersi sembra moltiplicarsi in tante direzioni: film d’architettura e paesaggistico (magnifiche le coste e i boschi australiani), meditazione filosofica, thriller nel quale si susseguono i colpi di scena, rivisitazione della memoria e dei rapporti tra cinque ragazzini diventati adulti e rimasti sempre uguali.
Un disordine narrativo che sposta di continuo l’orizzonte e l’attenzione ma che ha un altro centro ancora, oltre il volto di Jake: l’arte, i dipinti che quest’uomo colleziona, alcuni dei quali valgono cifre astronomiche; il Cézanne dei Joueurs de cartes ad esempio (acquistato di recente dalla famiglia reale del Qatar per 250 milioni di dollari). Alla fine (una fine che non è il superfluo e moralistico bilancio conclusivo, vero elemento di debolezza del film) saranno i quadri, e non le carte da gioco, al centro di una vicenda che coniuga φιλία/amicizia e μῆνις/rancore; saggezze ancestrali e avveniristiche tecnologie informatiche; veleni e antidoti. E, soprattutto come sempre, βίος e θάνατος.