«Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico» (Guy Debord, La società dello spettacolo, § 18). Una droga infinita sparge ormai la propria potenza tra le menti, dentro gli occhi. Diventa gridolino estasiato da parte di miserabili giornalisti gossippari che per ore -seguiti da miliardi di telespettatori- commentano il matrimonio di due ragazzotti inglesi. Diventa acritica e rivoltante adorazione verso il papa più televisivo della storia, distruttore della libertà teologica, protettore di sacerdoti pedofili, accanito sostenitore della morale sessuale repressiva, amico di dittatori di ogni risma. Diventa suprema propaganda dell’Impero, sventolio di bandiere a stelle e strisce che esultano per una vendetta da stadio, una vera e propria esecuzione. L’ipnosi televisiva è diventata in questi giorni un planetario trionfo della morte. Nella dolciastra favoletta degli eredi di una delle monarchie più ingessate del mondo, nella macabra festa del cadavere romano, nella scenografica finzione dell’assassinio di un antico amico della CIA, è l’intelligenza che muore.

«Silvio Berlusconi ha chiamato il presidente americano Barack Obama per comunicargli il suo sì ad azioni aeree mirate in Libia» (la Repubblica, 25.4.2011). Che uomo è uno che prima bacia la mano a Gheddafi e poi lo bombarda?
«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (Costituzione della Repubblica italiana, art. 11). Che opposizione “di sinistra” è quella che probabilmente voterà con il partito di Berlusconi a favore di una guerra di aggressione? Salvando in questo modo un governo immondo e calpestando la Costituzione?
Le motivazioni della guerra anglo-francese e statunitense contro la Libia sono il petrolio e «200 miliardi di dollari di fondi sovrani». Partecipando a tale aggressione, l’Italia conferma la propria miseria politica, diplomatica, economica. La menzogna della “guerra umanitaria” dà ancora una volta ragione a George Orwell, ai princìpi del Grande Fratello: «La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza» (1984, Mondadori 1998, p. 8).

Sulla propria pagina di Facebook Giusy Randazzo ha pubblicato una riflessione che condivido pienamente:
«…La brutalità di Gheddafi deve essere fermata. L’attacco è necessario per difendere i civili… Lo dicono i buoni che agiscono con sottomarini e navi che sparano fiori. Il portavoce del governo libico sostiene che il regime ha accettato la Risoluzione del ’73 e ha rispettato il cessate il fuoco ma le nazioni unite e la società internazionale anziché inviare degli osservatori per verificare i fatti hanno cominciato ad attaccare il paese con grave danno anche per la popolazione civile. Sicuramente mente. Ci conviene pensarlo.
Comunque –tranquilli- sb ha detto che noi non abbiamo nulla da temere perché la Libia non possiede armamenti in grado di raggiungere l’Italia. A Lockerbie infatti Gheddafi, non avendo missili, aveva lanciato un aereo di linea esploso in volo grazie alle bombe piazzate dal dittatore (1988- 270 morti). Lo stesso dittatore a cui l’anno scorso sb aveva baciato le mani, dichiarando amicizia e alleanza».
Un secondo testo assai lucido che invito a leggere è di Massimo Fini, il quale ha proposto insieme ad altri una petizione contro questo ennesimo, ipocrita e pericolosissimo vulnus inferto al diritto internazionale e alla pace, per ragioni ancora una volta economiche e colonialiste.
La Germania dà una lezione di autonomia dal potere anglosassone (il vero male della contemporaneità, come Carl Schmitt ha dimostrato) rifiutandosi di esser complice di un’impresa che il suo ministro degli esteri Westerwelle ha giustamente definito «avventurista». L’Italia dà invece ancora una volta prova della propria viltà e subordinazione all’imperialismo statunitense e ai suoi interessi, calpestando l’articolo 11 della Costituzione -«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Gli italiani confermano la loro stoltezza, applaudendo quasi tutti -Pdl e Pd a braccetto- a un vero e proprio suicidio politico e diplomatico. Non è da escludere che qualche missile libico arrivi in Sicilia, la prima terra europea a portata di mano di Gheddafi, l’uomo che lo scorso anno Berlusconi ha ospitato trattandolo da re e al quale, come ricordato da GR, ha persino baciato le mani. Almeno questo Giolitti -nella I guerra di Libia- non lo aveva fatto.
[Aggiungo -26 marzo 2011- il pdf, inviatomi da Dario Sammartino, di una pagina dedicata alla I guerra di Libia da Carlo Fruttero e Massimo Gramellini nel loro libro La Patria, bene o male, Mondadori 2010, pp. 119-120. Invito i lettori a cogliere le analogie con gli eventi accaduti un secolo fa].

La donna che canta
(Incendies)
di Denis Villeneuve
Canada, 2010
Con: Lubna Azabal (Nawal Marwan), Mélissa Désormeaux-Poulin (Jeanne Marwan), Maxim Gaudette (Simon Marwan), Remy Girard (Jean Nebel).
Trailer del film
La recensione è uscita su Vita pensata, n. 9 – marzo 2011, alle pagine 41-42
È un film davvero molto bello.
Piccolo Teatro Studio – Milano
Prospettive sulla guerra civile
Liberamente ispirato a Prospettive sulla guerra civile e Il perdente radicale di Hans Magnus Enzensberger
Con Massimo De Francovich
Produzione: A.T.I.R e Thesis – Dedica Festival
Drammaturgia e regia di Serena Sinigaglia
Sino al 20 febbraio 2011
Tutto va compreso. Almeno dobbiamo fare questo tentativo, andando al di là della morale, al di là della consolazione religiosa, al di là della menzogna politica, al di là della rappresentazione televisiva, la più falsa in assoluto tra le forme ingannevoli.
Dalla fine del mondo bipolare le guerre civili si sono moltiplicate in tutto il globo. E non si limitano agli eserciti che per ragioni etniche, razziali, religiose, economiche, fanno strage di città, campagne, donne, bambini. La guerra civile è ovunque. Nelle scuole in cui gli studenti sparano ad altri studenti. Nella repressione delle polizie contro cittadini inermi, come al G8 di Genova del 2001. Nel suicidio dei kamikaze islamisti dentro le loro stesse città musulmane. Negli scontri razziali delle metropoli statunitensi. Che si generi dalle più flebili occasioni o nasca da fredde decisioni dei governi, la guerra civile è pervasiva anche perché ovunque va moltiplicandosi il perdente radicale, colui che imputa sempre ad altri, a lui più o meno vicini, i propri fallimenti. E ad essi non si rassegna.
La guerra civile è l’essenza del conflitto poiché è la guerra di tutti contro tutti.
Serena Sinigaglia e Massimo de Francovich mettono in scena due testi di Hans Magnus Enzensberger e lo fanno con passione e con misura. In un paesaggio di rovine urbane, scorrono su uno schermo le più efferate ma vere notizie su quanto accade nelle nostre città, su come si uccida per nulla, per divertimento, per noia. Poi entra un professore di filosofia e storia che inizia a raccontare la violenza, a spiegarla, a decostruirla. Lo aiutano tre giovani assistenti con le loro musiche, con le proprie testimonianze, con le immagini tratte da alcuni film, tra i quali 2001. Odissea nello spazio, Il Dottor Stranamore, Arancia meccanica. Emerge lentamente una non gradita verità, quella secondo cui «i civili innocenti non sono poi così innocenti» se tanti sono pronti a diventar carnefici dei loro vicini o a osannare i capi che procedono allo sterminio. Lo spettacolo si chiude con il racconto di Sisifo che riuscì per due volte a incatenare la morte. Dopo che Ares le restituì libertà e dominio sugli umani, Sisifo venne costretto dagli dèi a spingere verso la cima un masso che poi rotola ogni volta a valle. E ogni volta Sisifo deve ricominciare. «Il masso degli uomini è la pace».
[Una recensione più ampia si può leggere su Vita pensata, n.9 Marzo 2011, alle pagine 46-47]
Nel suo blog su Repubblica Alexander Stille parla di Una non-notizia importante: il mancato adeguamento della tassazione degli enormi profitti ottenuti dai «manager dei venticinque hedge funds di maggiore successo», i quali «hanno guadagnato un totale di 14 miliardi di dollari (circa 11 miliardi di euro), cioè più del PIL di un paese piccolo ma benestante come l’Islanda. Quindi quasi tutti i manager di questo gruppo hanno guadagnato oltre mille milioni di euro in un anno e hanno pagato meno della metà del normale livello di tassazione!»
Anche questo è la democrazia statunitense (oltre che fucili, stragi e fanatismo). E Barack Obama conferma di essere ciò che ho pensato di lui sin dall’inizio: un po’ di cosmetico su un volto disfatto, un uomo di paglia messo lì per ridare credito agli USA dopo i catastrofici otto anni di Bush figlio. L’assegnazione del Nobel per la pace a un politico che continua a finanziare due guerre illegittime e feroci è stata una decisione semplicemente grottesca.
L’esplosivo piano di Bazil
(Micmacs à Tire-larigot)
di Jean-Pierre Jeunet
Francia, 2009
Con Dany Boon (Bazil), André Dussolier (Nicolas Thibault De Fenouillet), Nicolas Marié (François Marconi), Jean-Pierre Marielle (Placard), Yolande Moreau (Tambouille), Julie Ferrier (La madre di plastica), Omar Sy (Remington), Dominique Pinon (Fracasse), Michel Cremades (Petit Pierre), Marie-Julie Baup (Calculette)
Trailer del film
Bazil è proprio sfortunato. Suo padre fa l’artificiere e salta in aria su una mina, la madre va in manicomio, lui viene colpito da una pallottola vagante. Sopravvissuto, perde lavoro e casa. Cerca di cavarsela diventando un artista ambulante, bravissimo nel mimare le voci di cantanti e attori. La svolta è l’incontro con Placard, un barbone che lo introduce in un mondo di personaggi che hanno fatto del riciclare, dell’inventare, dell’immaginare, uno strumento di difesa e una vera e propria arte. Insieme a loro, architetta progetti su progetti per vendicarsi delle aziende produttrici delle armi che gli hanno ucciso il padre e distrutto la vita.
I due mercanti di armi sono proprio dei loschi figuri: ricchissimi, incapaci di qualunque relazione umana, pieni di manie e di follie. Contro il male che essi rappresentano, Jean-Pierre Jeunet costruisce un film congegnato come un meccanismo inesorabile e ironico, ambientato in una Parigi da sogno infantile, un po’ modernissima e un po’ anni Cinquanta. La poetica è la stessa di Delicatessen e del Favoloso mondo di Amélie: un accumulo sempre più grottesco e potente di oggetti, ingranaggi, corpi, fantasie; una summa anche di citazioni cinefile, da Casablanca alle opere di Sergio Leone. Un film dove i buoni vincono, un sogno molto colorato e divertente. Un sorriso che fa esplodere i malvagi e li seppellisce insieme alle loro armi.