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Shariʿah / شريعة

La struttura che si fa chiamare Isis o Daesh ha pubblicato un opuscolo in italiano. 64 pagine di citazioni dal Corano, di immagini della vita nel califfato, di affermazioni nette, fideistiche, inneggianti all’unico Dio e sicure della vittoria della Shariʿah, la Legge Islamica. Al confronto, le pubblicazioni dei Testimoni di Geova costituiscono un esempio di libero pensiero.
Qualunque realtà, struttura, finanziamento, stato, servizio segreto ci sia dietro la sigla Isis/Daesh e i suoi militanti, ciò che si legge a pagina 13 di questo opuscolo è affermato nel Corano -Sura II, versetto 193- e nella sua versione completa suona: «Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia [reso solo] ad Allah. Se desistono, non ci sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano».
Nel nome di Dio si massacrano coloro che non lo adorano, si distruggono le testimonianze di millenarie civiltà politeistiche, si esaltano la guerra e la violenza come strumento di salvezza eterna -جهاد, Jihād  appunto-, si disprezza ogni libertà, prima di tutto quella della parola, giudicata forma della blasfemia.
Ecco: questo è il monoteismo, questo è il nemico assoluto della differenza, questo è l’abominio.

 

Isis_monoteismo

Vrai / Faux

Io sto con la sposa
di Antonio Agugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry
Italia-Palestina, 2014
Trailer del film

Io_sto_con_la_sposaIo sto con la sposa è un documentario che narra la vicenda di cinque profughi siriani arrivati in Italia -rischiando ovviamente la vita in mare- e da qui aiutati a raggiungere la Svezia, Paese a quanto sembra più generoso nel concedere asilo politico. Ad aiutarli ci sono degli italiani, compreso un palestinese che da poco ha ottenuto la nostra cittadinanza. Per attraversare l’Europa da Milano a Malmö -passando per Marsiglia, Lussemburgo, Bochum, Copenaghen- la comitiva finge un matrimonio. Ospitati da vari amici, tutti arrivano a destinazione. Lungo il tragitto i migranti narrano le loro vite, la tragedia, i progetti.
Un film come questo -al di là del suo specifico argomento- dice molto sui meccanismi della comunicazione contemporanea. Anzitutto la questione della sposa; in realtà la vicenda avrebbe potuto farne a meno e non sarebbe cambiato nulla. Non vediamo infatti mai la carovana del ‘matrimonio’ giustificare il proprio viaggio davanti a qualche polizia con la motivazione della sposa. Si è dunque trattato di un’idea funzionale non allo scopo del viaggio ma alla realizzazione del film.
Poi: tutte le frontiere vengono attraversate senza controlli poiché il Trattato di Schengen non li prevede. E però nel passaggio dall’Italia alla Francia invece di utilizzare l’automobile -come accade sempre nelle successive tappe-, si vedono la sposa -con il suo abito bianco- lo sposo e tutti gli altri inerpicarsi lungo i sentieri dei vecchi contrabbandieri, molto scomodi naturalmente. Anche questa sembra una scelta funzionale al film e non all’obiettivo di raggiungere la Svezia.
Infine: il film si concentra -legittimamente- sulle vicende personali dei profughi e delle loro famiglie rimaste in Siria. Non si entra quasi mai nelle questioni politiche che hanno generato quella guerra. E tuttavia parlare degli effetti misconoscendone le cause lascia l’impressione che in Siria ci sia una guerra condotta da dei resistenti contro un dittatore. Gli amici della sposa che combattono in Siria vengono infatti da lei definiti con l’espressione Esercito libero. Si tace completamente sul fatto che la tragedia siriana è analoga a quella irachena, libica e ucraina. Paesi la cui società multietnica e multireligiosa è stata distrutta dall’intervento della Nato e degli USA per ragioni geostrategiche ed economiche. Il risultato è stato guerra civile, massacri, ferocia, distruzione. Ed è stato la nascita dell’ISIS, del ‘califfato’ islamista ultrafanatico e armato da quegli stessi Paesi -Stati Uniti e loro alleati- in funzione antisiriana. Assad è certamente un dittatore, come lo erano Saddam Hussein e Gheddafi. Ma dittature sono anche quelle dei Paesi arabi alleati degli USA, a cominciare  dall’Arabia Saudita, una monarchia feudale-petrolifera dove non esistono libertà politiche e civili; dove non vi è alcun diritto per le donne, per gli omosessuali, per i dissidenti, per i credenti di religioni diverse da quella musulmana; dove è prevista la pena di morte per apostasia dall’Islam. Ma sono buoni amici degli americani.
Lodevole nella testimonianza personale, un po’ ripetitivo nei risultati, Io sto con la sposa è dunque soprattutto un’operazione di mascheramento, che narrando la tragedia di alcune persone sostiene coloro che a quella tragedia hanno dato inizio. In questo film la realtà si fa finzione e la finzione diventa realtà: «Dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux» (Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 9).

Immagine / Abbandono

Views on the PhotoBiennale-Logos
Museum of Photography – Thessaloníki
Sino al 28 febbraio 2015

La dimensione multietnica di Thessaloníki emerge con forza dalle immagini ospitate nel funzionale Museo della Fotografia, che ha sede in un vecchio magazzino del porto. Fotografi di tutta Europa descrivono in modo diverso ma singolarmente convergente persone e luoghi abbandonati, intrisi di silenzio, attraversati dalla morte.
Più di tutto mi hanno coinvolto le cinque grandi fotografie che Andros Efstathiuou dedica al Nicosia International Airport, un luogo che fu di vita, di transito, di scambio e che da decenni, dalla guerra turco-cipriota, è degradato, fatiscente, in rovina. Efstathiuou ha fotografato piloti e steward vestiti di tutto punto e pronti a partire dal nulla.
Theodoros Zafeiropoulos in Please partecipate me ha compiuto una complessa operazione nella quale ha mescolato in alcuni grandi pannelli frammenti di immagini di tante persone che svolgono la stessa azione e delle stesse persone che lo fanno in momenti diversi. L’effetto è ironico, molteplice, babelico.
Gli altri artisti presenti in mostra descrivono con maggiore partecipazione emotiva -e dunque con tristezza- gli effetti sugli umani e sugli spazi della guerra, del conflitto, della povertà, della fine. Tutti testimoniano ancora una volta la potenza dell’immagine, la quale in un solo frammento, in un istante dato, dischiude allo sguardo il senso che le cose hanno o di cui sono prive.

Οι Βάρβαροι

American Sniper
di Clint Eastwood
Con: Bradley Cooper (Chris Kyle), Sienna Miller (Taya Renae Kyle)
Usa, 2014
Trailer del film

kylefuneralChris Kyle è esistito davvero. Un texano ammaestrato dal padre a uccidere cervi, a ‘proteggere i suoi cari’ e a rimanere sempre fedele agli United States of America, qualunque ne sia la conseguenza, poiché «Our country! In her intercourse with foreign nations, may she always be in the right; but our country, right or wrong» (Stephen Decatur). Chissà perché questo principio sarebbe onorevole per gli statunitensi e per tanti altri e disonorevole invece per i nazionalsocialisti tedeschi, per i quali -appunto- la fedeltà alla Patria doveva rimanere il faro della propria vita, giusta o sbagliata che fosse l’azione della Germania e qualunque azione la Germania chiedesse ai suoi cittadini.
Amante della birra e dei rodei, a un certo punto Kyle decide che non soltanto la sua famiglia ma l’intera Nazione ha bisogno della sua protezione. Si arruola quindi nel temibile corpo dei cecchini professionisti e in Irak miete centinaia di successi (scilicet: morti ammazzati) in ogni strato della popolazione locale. Diventa così The Legend.
Di tale leggenda il film mette in scena le opere e i giorni, con il sentimento di chi -certo- sta facendo qualcosa di brutto ma lo sta facendo per un ideale necessario. Immagino che se la Germania avesse vinto la II Guerra mondiale avremmo visto qualche Eastwood tedesco mettere in scena le opere e i giorni di un Kyle teutonico. Clint Eastwood è naturalmente sempre bravo a raccontare; la sua adesione ai personaggi e alle situazioni è tale che -voglia o non voglia- l’orrore emerge anche da un film così decisamente patriottico, che si conclude con le immagini (reali) delle strade texane parate e lutto per i funerali dell’eroe.
Ucciso in guerra? Morto per salvare le genti irachene e americane? No, fatto fuori il 2 febbraio 2013 da un suo collega, un reduce che soffriva di disturbi da stress postbellico. Una morte ingloriosa e pienamente meritata per questo boia, degno rappresentante di una terra che il neurobiologo Ramachandran così descrive: «Come una singola cellula non può esistere senza i mitocondri simbionti, se fossimo allevati in una caverna dai lupi o in un ambiente del tutto privo di cultura (come il Texas) saremmo a malapena umani» (Che cosa sappiamo della mente, Mondadori 2004, p. 108). La fine disonorevole di questo personaggio mi ha fatto venire in mente un’espressione di Renzo Tramaglino: «A questo mondo c’è giustizia, finalmente!» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. III).

Essere politeisti

L’immensa violenza scatenata da alcune sette islamiche che utilizzano anche e soprattutto le armi date loro dagli Stati Uniti d’America in funzione antisiriana; il razzismo teocratico di Israele; la millenaria pretesa di verità assoluta della dottrina cristiana e il tentativo di imporla con guerre, inquisizioni, crociate, torture, stermini, sono tutte manifestazioni e conseguenze del principio biblico di esclusione:

Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sopra la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso. […] Guàrdati bene dal fare alleanza con gli abitanti della terra nella quale stai per entrare, perché ciò non diventi una trappola in mezzo a te. Anzi distruggerete i loro altari, farete a pezzi  le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso.
(Esodo, 20, 1-6 e 34, 11-14, traduzione Cei)

Bettini_politeismo

Da qui parte un vivace Elogio del politeismo proposto da Maurizio Bettini e del quale discuto in un articolo pubblicato oggi su Sicilia Journal: Contro ogni fondamentalismo, essere politeisti.

«que plus rien existe…»

Rigodon
di Louis-Ferdinand Céline
(1961)
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
Introduzione di Massimo Raffaeli
Terzo volume della Trilogia del Nord
Einaudi, Torino 2007
Pagine XIV-271

rigodonCéline, la moglie Lili, il gatto Bébert attraversano nella primavera del 1945 l’Europa in guerra, sondano le rovine, si immergono nella «Germania in furia nichilista» (pag. 61), con le sue città in fiamme, colpite dalle bombe al fosforo lanciate sempre dalle stesse potenze, ad Amburgo allora come nel Vicino Oriente oggi, scagliate da «gente ricca…ricca senza fondo…uuuh! …che questo li diverte…e che illuminazione!» (142), come a «Hannover…dei fuochi di resti di case…bisogna avere visto…ogni casa giusto nel mezzo…tra ciò che erano i suoi quattro muri, una fiamma che ruota, gialla…viola…turbina…fugge!…alle nuvole!… danza … scompare… riprende… l’anima di ogni casa…una farandola di colori, dalla prime macerie a tutto là in fondo…» (136). Un mondo finito, dove «c’è mica speranza, disgraziati!» (6) ma la speranza è la scrittura, è saper guardare e dire senza esitazioni e consolazioni tutto l’orrore delle cose. L’orrore dell’uomo che è «un degenerato un mostro tra gli altri, che per fortuna si riproduce sempre più di rado» (186), l’orrore del Cosmo, che è anch’esso menzogna, è la bugia delle «stelle che brillano, miliardi pieno il firmamento, falsarie…che sono morte da miliardi di anni! …evaporate!» (96).
E in questa menzogna universale che è l’esserci, rimangono soltanto due elementi nella loro potenza primigenia e costante: «Solo la biologia esiste, il resto è blablà…» (109), solo la forza della vita che vuole vivere ancora, cieca e insensata, l’energia dei corpi che pur affamati malati stanchi storpiati feriti si trascinano per regioni e città, alla ricerca di una salvezza purchessia; l’altro elemento è la scrittura, è la petite musique, è lo stile sincopato, estremo, vivo, jazzistico, con i suoi «tre puntini…da farmi perdonare» (171), con il rifiuto del «“solido buon senso”» anche nella scrittura, poiché esso è «la morte del ritmo!» (269), con la certezza visionaria e insieme lucida di essere «pieno di stile […] che li renderò tutti illeggibili! …tutti gli altri! […] l’epoca è mia! io sono il benedetto delle Lettere!» (181). Uno stile che somiglia, appunto, al rigodon, la danza arcaica, immobile e tuttavia frenetica nel suo «delirio di immobilità» (M. Raffaeli, pag. VIII), «…il ballo al bersaglio, il rigodon che è tutto! per la madonna che si salta!» (268).
Questo stile si scaglia contro coloro che andranno a occupare le terre di Palestina, «tutti così perseguitati, ansanti, eroi del lavoro e del dissodamento, della falce, della banca e del martello…» (255); contro le masse e i politicanti sempre pronti a correre in soccorso del vincitore, come disse una volta Flaiano: «Ci fosse stato qui per esempio l’Hitler a vincere, c’è mancato un pelo, vedreste ve lo dico io l’ora attuale, che sarebbero tutti per lui…a chi che avrebbe impiccato il più di ebrei, chi che sarebbe stato il più nazi…tirato fuori l’entragna a Churchill, portato in giro il cuore strappato a Roosevelt, fatto il più di tutti l’amore con Goering…» (268); contro una delle più radicali espressioni della spietatezza e dell’intolleranza: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (14). Tutto questo è frutto dell’umano. E perciò il libro ha una splendida dedica «Agli animali».
Ancora una volta -e sino all’ultima parola che chiude il romanzo e la vita di Céline- questa lingua feroce e dolente è una «luce così cruda così violenta quasi da straziare le facce…» (183), una luce assoluta, «di quelle profondità spumose che più niente esiste…» (271).

Salgado / Differenza

Il sale della Terra
di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado
Brasile-Italia-Francia, 2014
Con: Sebastião Salgado, Lélia Wanick Salgado
Trailer del film

salgado_wendersDifferenze tra i popoli, differenze tra i luoghi, differenze tra i climi. La Terra è il luogo delle differenze, come accade a tutto ciò che esiste nella complessità e non sia ricondotto e ridotto all’unità sempre uguale del conforme, dell’omologato, del «tutti siano uno». Sebastião Salgado ha fotografato questa differenza. E l’ha resa arte e documento. Documento anche della costante tendenza a cancellare la differenza, a uniformare le collettività e gli spazi sotto un dominio unitario. Per decenni Salgado ha visto dunque orrori, genocidi, sterminio, morti. Morti per fame e colera nel Sahel e in Etiopia, morti per machete e carri armati in Rwanda, morti per cecchini e soldati in Jugoslavia. Morti dappertutto, morti a centinaia di migliaia, che lo hanno fatto piangere e lo inducono ad affermare che «quella umana è la specie più feroce, siamo animali terribili, la nostra è una storia di guerre, storia senza fine, una storia folle. Di fronte a tutto questo ho pensato che nessuno è degno di sopravvivere, nessuno».
Ma Salgado ha fotografato anche la differenza nel mondo animale, nei fiumi, negli oceani, nelle piante, nei gruppi umani non raggiunti dall’uniformità del danaro, come in Papuasia e in Amazzonia, con l’etnia Zo’é. È il grande progetto di Genesi e della riforestazione di una vasta tenuta in Brasile. È la differenza della Terra rispetto alla ὕβρις di una delle specie che la abita e che la violenta.
Questo film-documento di una vita sempre in cammino testimonia anche la differenza tra il cinema -immagine in movimento- e la fotografia, scrittura di luce. È nella fotografia che l’istante diventa il già e il non ancora, è nella fotografia che χρόνος si fa καιρός.

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