Skip to content


La Valle del Caos

Friedrich Dürrenmatt
La Valle del Caos
(Durcheinandertal, 1989)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Giovanna Agabio
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 587-681

Sfrenata, imprevedibile, feconda, allucinata, implacabile è la fantasia che in questo libro si scatena. Credo di non aver mai letto un testo nel quale a ogni pagina, in qualunque momento, a ogni riga può succedere di tutto come in questo romanzo dove accade veramente qualsiasi cosa. Ne vengono coinvolti, descritti e travolti i contadini di una irraggiungibile vallata svizzera, la Valle del Caos appunto il cui titolo originale potrebbe essere più letteralmente tradotto come valle del guazzabuglio, del disordine, della confusione.
E la confusione regna infatti dappertutto. Confusione tra gli ambienti, che passano dalla costa atlantica degli Stati Uniti d’America – con i suoi gangster più famosi, più gelidi e più rozzi – alle crociere sul Nilo; dalle sedi senza patria delle grandi multinazionali alla Svizzera, «il paese più impenetrabile della terra. Nessuno sa chi è padrone di qualcosa, chi gioca con chi, chi ha le carte in tavola e chi le ha mescolate» (p. 635).
Confusione tra i personaggi, che cambiano volto, alla lettera, attraverso la chirurgia estetica ma anche e specialmente nella sostanza delle loro identità, del loro numero, della loro funzione.
Confusione tra quadri perfettamente falsi venduti come autentici e dipinti autentici spacciati per falsi.
Confusione tra le forze dell’ordine – vigili urbani, polizia, esercito – che dispiegano un enorme apparato di repressione con il solo intento di giustiziare un cane.
Confusione tra la morale e il crimine che appaiono quali sono, vale a dire due aspetti della stessa ferocia, com’è evidente nella Boston Society for Morality che dà vita alla Swiss Society for Morality, entrambe «qualcosa di vago, esattamente come la maggior parte delle associazioni con nobili scopi» (603). Associazioni che edificano in uno sperduto villaggio svizzero una casa di riposo stagionale chiamata Casa della povertà, riservata a gente ricchissima che per alcuni mesi vive in estrema povertà, salvo poi tornare al proprio lusso: «Una vera e propria fissazione di vivere poveramente colse i milionari e le vedove dei milionari, c’erano direttori generali che facevano i letti, banchieri privati che passavano l’aspirapolvere, grossi industriali che apparecchiavano i tavoli in sala da pranzo, manager di prim’ordine che pelavano patate, vedove di multimilionari che cucinavano e si occupavano della lavanderia, sceicchi e magnati del petrolio che falciavano l’erba, sarchiavano, vangavano, segavano, martellavano, piallavano, verniciavano e per questo pagavano prezzi favolosi» (618).

A dare redenzione e conforto a tali milionari è un pastore di nome Moses Melker, uomo di rara bruttezza, «uno schiavo negro fuggiasco grasso e di pelle bianca, con un abito da cresimando e una valigetta in mano»  (664), una specie di parente dei neandertaliani e anche assassino seriale delle sue mogli, ma ora dedito alla missione di convertire i ricchi e che per questo elabora una teologia il cui testo fondatore (in fieri) ha per titolo Prezzo della grazia (Preis der Gnade). Melker costruisce una teologia per la quale i poveri sono di per sé meritevoli della salvezza mentre i ricchi devono tutto alla misericordia del «Grande Vecchio» e per questo i ricchi sono i veri destinatari del perdono e della Grazia. E non soltanto i ricchi ma anche gli umani più crudeli, i delinquenti più accaniti, i farabutti, i sadici, i criminali. In loro e soltanto in loro splende la potenza del Signore.

Infatti, se la grazia fosse meritata non sarebbe più grazia bensì ricompensa. La grazia era la cruna dell’ago attraverso la quale non soltanto un cammello, bensì tutti loro potevano passare, loro che erano riuniti lì a lamentarsi della maledizione della ricchezza. Davanti al Grande Vecchio gli ultimi erano i primi e i poveri erano i ricchi, i poveri erano in possesso della grazia e i ricchi maledetti. Ma chi possedeva la grazia non ne aveva bisogno poiché la grazia era già in lui, e quindi la grazia era riservata a loro, i ricchi, i maledetti, i sazi, la grazia con cui venivano incoronati come la sola feccia dell’umanità che ne aveva bisogno (617).

La Grazia essendo del tutto arbitraria, il cuore della teologia di Melker consiste pertanto «nel riconoscimento che nulla potesse giustificare la grazia» (595-596).
Come si vede, si tratta di una teologia anch’essa sfrenata; insieme evangelica e machiavellica, gesuitica e luterana. Teologia di un Dio talmente onnipotente e universale da includere nella propria stessa identità la miseria e il male, un Dio del tutto volontaristico (al modo di Ockham e oltre Ockham), che «avrebbe saputo creare una pietra che non riusciva a sollevare, oppure ritrasformare le cose accadute in non accadute» (590), che poteva fabbricare orologi «con quindici ore, in cui ogni ora durava trecento minuti e ogni minuto quarantacinque secondi, ma anche i secondi non erano uguali; alcuni secondi duravano tre quarti di secondo, altri sette minuti» (608). Un Dio il quale riusciva dunque certamente anche a conciliare la propria essenza di Grazia con quella di «Dio senza barba» vale a dire del più infame tra i malviventi.
Se chiediamo infatti «perché il buon Dio è così ingiusto, se appunto è un buon Dio […] se tutto è così ingiusto con gli uomini e con la natura» (656) è perché «il Grande Vecchio è pensabile solo come criminale» (676), il quale nella sua versione cristiana è «ancora più astratto del padre, ma anche qualcosa di lezioso, un redentore di marzapane sulla croce. […] Un Dio che si lascia crocifiggere fa la commedia» (679).
Un romanzo teologico e grottesco, un romanzo dunque barocco e gaddiano nei contenuti anche se non nella lingua, che è sempre classica e ironicamente perfetta. Il finale è epico; davvero ‘una risata vi estinguerà’ sembra dire il Grande Vecchio alla nostra specie.

Goya

Goya
La ribellione della ragione

Palazzo Reale – Milano
A cura di Victor Nieto Alcaide
Sino al 3 marzo 2024

A Francisco Goya Milano aveva dedicato nel 2010 un’ampia mostra. Questa nuova occasione di incontro con uno dei massimi artisti europei conferma tutto ciò che allora ne pensai, in particolare questa frase: «Goethe scrisse che, se visti dall’altezza della ragione, la vita appare una malattia e il mondo un manicomio. E sono esattamente questa vita e questo mondo che Goya disvela nella loro chiara e dolente assurdità» (Goya y Lucientes).
Si tratta infatti di un’opera che a ogni contatto mostra di essere nuova e diversa, di aprire corridoi nella comprensione del mondo, di attirare come un magnete lo sguardo. E di essere l’incunabolo di tutta la pittura moderna, a partire dalla sua stessa varietà e dalla tecnica davvero perfetta. Scrive infatti il curatore della mostra: «L’espressività tracima oltre la rappresentazione, mentre il colore è del tutto arbitrario. Dipingere tenendo conto del disegno presupponeva fedeltà al tema e alle norme stabilite. La rinuncia al disegno, il protagonismo della pittura, l’autonomia del colore, il valore in sé e per sé della materia pittorica e di una pennellata libera ed espressiva, l’originalità di soggetti che sorgono dall’immaginazione dell’artista e non da un’iconografia costituita fanno di Goya l’autore del primo capitolo della storia della pittura moderna». L’artista è del tutto consapevole di tale autonomia della forma, tanto è vero che in occasione di una relazione tenuta il 14 ottobre 1792 in un’Accademia di Belle Arti affermò che «non ci sono regole in pittura […], l’obbligo servile di far studiare o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima, che più di ogni altra si avvicina al divino».

A volte le figure si dissolvono, frastagliate nei confini delle loro forme diventate ciò che poi si chiamerà impressionismo, ad esempio ne La cattura di Cristo (1797-98)

Altre volte invece i confini degli enti e dell’accadere sono netti e potenti, come in tutta l’arte rinascimentale. E ovunque pulsa una forza lucida e disperata che è l’essenza stessa di ogni espressionismo. Le due serie di incisioni dal titolo Disastri della guerra e Capricci costituiscono le manifestazioni più note e conturbanti di tale espressionismo. I Disastri sono infatti quasi una cronaca senza infingimenti e insieme onirica dell’orrore che ogni guerra è e produce. I Capricci dispiegano gli incubi, il grottesco, l’insensato che abita nelle cose e negli eventi, dispiegano gli archetipi stessi del male e del dolore, della ὕβρις che abita i fatti umani.

Un’impresa eroica! Con_morti!

Nei Ritratti l’arte di Goya si fa limpida, inquietante e profonda. Sono ritratti che colgono una sostanza stranamente e impossibilmente immortale dei corpi. In queste opere Goya conferma il suo sguardo oggettivo e insieme partecipe e tragico alla vicenda umana.

Marianito (1813)

Tragicità, inquietudine e grottesco rendono questo artista assai vicino, pur in ogni differenza, a uno dei vertici del delirio e del genio, a Hieronymus Bosch. Lo avvicinano certamente nei Capricci e nei Disastri ma anche in alcune opere emblematiche e fondanti come la Processione di flagellanti (1808-812, immagine di apertura) e Il Colosso (1808), nel quale la dismisura della figura che sta al centro emerge su una pianura di attività minute, frenetiche e oscure, attraversate come dal lampo di un sogno.

Lampo, fulmine, bagliore e sfolgorio si distendono spesso nella luce pacata e diffusa che Goya assorbì da Rembrandt e che lo rendono, non soltanto per il tempo nel quale visse ma per la declinazione che di questo tempo diede, uno dei massimi artisti dell’Illuminismo, di una ragione che si ribella, sì, perché da se stessa ha compreso i limiti di ogni sogno razionalista sull’irrazionalismo costitutivo della vicenda umana.

Autoritratto al cavalletto (1785)

Umani e alieni

Asteroid City
di Wes Anderson
USA, 2023
Con: Jason Schwartzman (Augie Steenbeck), Scarlett Johansson (Midge Campbell),  Jake Ryan (Woodrow), Tom Hamks (Stanley Zak), Edward Norton (Conrad Earp), Maya Hawke (II) (June)
Trailer del film

I colori accesi di Grand Budapest Hotel diventano quelli di un cartone animato. E questo consapevolmente. L’autore del testo teatrale, intorno al quale il film ruota, compare all’inizio del film, riappare nei suoi momenti chiave e dichiara in modo esplicito che le luci dovranno essere intense, come calate dall’alto e «spietate». Non solo le luci. I costumi sono sempre perfetti e puliti (anche quelli del meccanico e dei soldati). Gli ambienti sono coloratissimi e geometrici. Il cielo sempre azzurro, il deserto sempre giallo e senza vento che alzi la sabbia, i cactus sempre uguali, i bambini sempre lindi, l’alieno che per due volte scende dalla sua astronave nel bel mezzo di un antico cratere (dal quale il luogo prende nome) è esattamente come ci aspetteremmo un alieno.
Tutto quindi appare per quello che il cinema è: finzione, pura, sognante, inquietante finzione. Che si moltiplica nel dispositivo pirandelliano del film: nella prima scena un narratore racconta di Conrad Earp, che appare mentre sta scrivendo il testo teatrale che poi intitolerà Asteroid City; Earp immagina anche quali attori potranno incarnare i personaggi che sta inventando; questi personaggi cominciano ad apparire e a entrare in scena negli studi teatrali dove la pièce viene messa in scena. Prima che tutto cominci, Earp comunica la scansione del testo teatrale e dunque del film che racconta la messa in scena del testo stesso. Scansione classica in tre atti e con al loro interno varie scene. Dei cartelli segnalano allo spettatore in quale atto e scena ci troviamo. E poi comincia il film, nel quale si alterano il testo recitato, gli attori che commentano il testo che stanno recitando, l’autore che interagisce con gli attori, il narratore che racconta tutto questo.
Abbastanza confuso, vero? E invece no. Il film fluisce come una favola che racconta di fotografi di guerra vedovi, di attrici bellissime e fatali, della moglie defunta del fotografo le cui ceneri vengono provvisoriamente seppellite sotto un anonimo cactus, delle tre figlie del fotografo che si credono streghe e cercano di resuscitare la madre, del quarto figlio – il maggiore – che è uno dei ragazzi geniali premiati durante il raduno di giovani astrofili che è l’occasione del film, degli altri giovani intelligentissimi, di una classe di scuola elementare alla quale la maestra fa recitare delle preghiere prima di ogni lezione di astronomia, di generali e presidenti che mettono tutti in quarantena dopo lo sbarco di un alieno che ruba l’asteroide precipitato 5000 anni prima…e tanto altro. Tutto questo nel vuoto di un deserto che si riempie di memoria, di relazioni, di parole e poi si svuota di nuovo mentre dietro le quinte accadono altri fatti tutti comunque rigorosamente finti.
La tonalità grottesca e iperrealistica di Asteroid City fa emergere la ripetitività, il nuovo e la simulazione che le nostre vite ogni giorno sono. La loro immaginazione.

Immagine / Stasi

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
(En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron)
di Roy Anderson
Svezia, 2014
Con: Holger Andersson (Jonathan), Nisse Vestblom (Sam), Lotti Törnros (L’insegnante di flamenco), Charlotta Larsson (Lotta, la Zoppa), Viktor Gyllenberg (Carlo XII), Jonas Gerholm (Il colonnello solitario), Ola Stensson (Il capitano-Il barbiere), Oscar Salomonsson (Il ballerino), Roger Olsen Likvern (Il custode)
Trailer del film

Un piccione seduto su un ramoLa cinepresa è immobile. Ritrae 39 storie legate tra di loro da due figure il cui mestiere consiste nell’«aiutare la gente a divertirsi». Vendono denti di vampiro, bombolette-risate e maschere di Zio Dentone. Lo fanno in maniera lugubre e metodica. I piani sequenza si alternano in una perfezione formale che stride con la miseria degli ambienti.
Roy Anderson compone dei veri e propri quadri-immagine, la cui grana visiva è quella delle fotografie degli anni Sessanta, il cui stile è una mescolanza di Hopper, Bosch e realismo magico, il cui tessuto è onirico, la cui antropologia è devastante. Ambienti, abiti, oggetti appartengono alla metà del Novecento ma i personaggi utilizzano dei cellulari. In due delle scene ambientate in un bar di periferia irrompe il giovane sovrano di Svezia Carlo XII che va in guerra contro i russi e ne ritorna sconfitto nella sua arroganza di ragazzo.
Il film si apre con tre momenti i cui personaggi muoiono all’improvviso nella solitudine o nel gelo degli astanti. Si conclude con la sezione Homo sapiens, feroce e plastica descrizione delle torture che gli umani infliggono ai loro simili e agli altri animali.
In molte delle scene i protagonisti parlano al telefono e ripetono quasi la stessa, unica frase: «Sono contento che stiate tutti bene».
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è un’opera che innesta sulla cupezza luterana del cinema svedese il surrealismo mediterraneo e la poetica beckettiana; fa emergere i fantasmi dell’angoscia umana riconducendoli alla loro reale misura di nullità; fa del cinema uno smagliante movimento della mente. E di nient’altro.

Volare

Birdman o
(l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)
[Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance)]
di Alejandro González Iñárritu
USA, 2014
Con: Michael Keaton (Riggan Thompson), Edward Norton (Mike Shiner), Emma Stone (Sam), Zach Galifianakis (Jake), Andrea Riseborough (Laura), Naomi Watts (Lesley), Amy Ryan (Sylvia)
Trailer del film

birdman-1Ha ottenuto fama e danaro interpretando l’uomo uccello. Ma Riggan Thompson vuole chiudere con il personaggio e con la saga di Birdman e dimostrare di essere un vero attore, un attore di cose serie, di teatro. Adatta, interpreta e dirige What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver. Durante le prove e le anteprime succede veramente di tutto, compreso lo scontro fisico con l’attore coprotagonista, un convinto narciso. La critica è pronta a stroncare spettacolo e ambizione artistica di Thompson che però ha un colpo d’ala (è il caso di dire) inventando un nuovo genere teatrale, il super realismo.
Birdman è una descrizione onirica e grottesca non soltanto della psiche dell’attore -egocentrico, egoista, ego-, ma anche e soprattutto della società dello spettacolo. Non quella di Carver, non quella di Birdman o di Batman -che è stato davvero interpretato con grande successo (e incassi) da Michael Keaton- ma la società della Rete, di twitter, di facebook, di youtube. Una società dove si esiste soltanto se si abita in questi spazi virtuali. La figlia Sam rimprovera a Riggan di essere nessuno -alla lettera, di non esserci- perché, appunto, non possiede nessuna identità sui Social Network. La vocazione dell’attore, vale a dire la vocazione di noi tutti quando entriamo in contatto con gli altri, la vocazione ad apparire, è diventata lo spettacolo di massa, è diventata il fluire senza fine di messaggi, testi, frammenti, video, inseriti a miliardi e senza interruzione sulla Rete, compreso questo stesso testo che state leggendo.
«Smantellando le percezioni spazio-temporali e le esperienze sensibili e sostituendole con immagini prive di alcuna aderenza con il reale, i soggetti si trovano nella condizione di essere continuamente investiti e infarciti di nulla, sentendosi però paradossalmente appagati dalla fagocitazione continua di simulacri. […] Lo spettacolo promette felicità e notorietà solo a chi si lascia ubriacare e ripiega docilmente verso la passività, così il vuoto lasciato dalle azioni-non-agite e dai pensieri-non-pensati viene immediatamente riempito dallo svago e dal di-vertimento: ossia dal vuoto stesso». (Alessia Vacante, La vita offesa: Adorno, Debord e la società postmoderna, tesi di laurea magistrale in corso di redazione). Se questo vale per tutti, giunge all’acme nella persona e nella presenza dell’attore, che dell’apparire è un professionista. Il film è dunque anche una radicale fenomenologia dell’apparenza, come viene esplicitamente teorizzata da Mike, il quale dichiara di «fingere sempre, tranne quando sono sulla scena».
Ma Birdman è soprattutto un radicale esercizio formale. Si tratta infatti di due ore di film frutto di quattro soli piani sequenza. Certamente ci sono delle cesure secondarie che sono state ben nascoste ma il risultato visuale è una raffinatissima e vorticosa successione di azioni e movimenti che non sembrano aver subìto montaggio ma essere scaturite dal ritmo spaziotemporale della vita.
Un modello è il cinema di Altman, un altro è la straordinaria scena iniziale del Falò delle vanità di Brian de Palma, un lungo piano sequenza che qui viene ripetuto di continuo, con il risultato di far diventare il cinema ciò che è: una pura costruzione della mente individuale e collettiva.
Riggan Thompson siede sull’aria, sposta gli oggetti senza toccarli, vola sulla città. Tutto questo accade realmente o nella sua fantasia? Una domanda priva di senso. Ciò che conta è che dalle sue azioni, intenzioni, allucinazioni scaturisca uno spettacolo barocco e visionario, scaturisca il cinema. Un desiderio di volare verso la propria solitudine, quella nella quale si è felici non perché altri riconoscono il nostro valore, il nostro significato, la nostra esistenza, ma perché stiamo volando. E basta. Birdman.

Brazil. Terrorismo e burocrazia

Brazil
di Terry Gilliam
USA, 1985
Con: Jonathan Pryce (Sam Lory), Kim Greist (Jill Ayton), Michael Palin (Jack Lint), Ian Holm (Kurtzmann), Robert De Niro (Archibald Tuttle), Katherine Helmond (Ida Lowry). Bob Hoskins (Spoor), Ian Richardson (Warren), Jim Broadbent (Il Dottor Jaff)

Uno degli oppositori -definito naturalmente terrorista viene investito da fogli su fogli che mulinano al vento e che lo coprono interamente. Forse viene proprio ucciso dalle carte. Moduli su moduli, uffici su uffici, commi su commi, code su code. Un delirio burocratico minuzioso e bizzarro cerca di rendere razionale, organizzato ed efficiente l’arbitrio più feroce e la violenza più cruda del sistema totalitario, vale a dire del potere finalmente svelato a se stesso, nella sua effigie, sostanza, scopo ed essenza. Il potere di 1984, al quale il film molto liberamente si ispira.
La burocrazia come lifting, dunque. Lo stesso lifting che cerca di nascondere la decadenza di alcune vecchie signore amiche del regime e che invece le riduce alla fine a maschere orrende e a cadaveri liquefatti. Ma a loro si dice che devono stare tranquille, il problema avrà presto soluzione. Il Natale disneyano nel quale il film è immerso è la conferma delle tesi di Adorno sulla complicità tra ottimismo e barbarie. La citazione della scena/scalinata della Corazzata Potëmkin è un altro tassello ancora di questo doloroso itinerario nell’assurdo della iperrazionalizzazione.
Grottesco, postmoderno e visionario, Brazil è un incubo. Alla lettera.

Potere / Grottesco

Teatro Stabile –  Torino
L’ispettore generale
(1836)
di Nikolaj Vasil’evič Gogol’
Con: Alessandro Albertin (il sindaco), Luca Altavilla (Pëtr Ivanovic Dobcinski 1), Alberto Fasoli (il giudice), Emanuele Fortunati (Pëtr Ivanovic Dobcinski 2), Michele Maccagno (sovrintendente alle opere pie), Fabrizio Matteini (ispettore scolastico-commissario di polizia), Eleonora Panizzo (la figlia del sindaco), Silvia Paoli (la moglie del sindaco), Pietro Pilla (Osip), Alessandro Riccio (ufficiale postale), Stefano Scandaletti (Ivan Aleksandrovic Chlestakov)
Scene di Paolo Fantin
Costumi di Carla Teti
Regia di Damiano Michieletto
Sino al 9 marzo 2014

Un bar sporco e decadente in una cittadina sperduta da qualche parte nel mondo. Il televisore sempre acceso sul vaniloquio dello spettacolo. Il locale è abitato dal sindaco affarista e cialtrone, ben coadiuvato dal direttore ospedaliero, dal giudice, dal provveditore agli studi, dall’ufficiale delle poste. Se la vivono e se la spassano con i soldi pubblici, che si dividono con commercianti e appaltatori, intascando tangenti e scambiandosi favori.
Finché non si diffonde la notizia dell’arrivo dalla Capitale di un ispettore generale in incognito. Panico. Smarrimento. Organizzazione di piani per neutralizzare il funzionario. Prima di tutto il danaro, è ovvio. Si cercano i segni della presenza dell’ispettore e lo si identifica in un giovane squattrinato che da giorni è ospite in uno degli alberghi della città. Tutti si convincono che l’ispettore sia lui e lo riempiono di lusinghe, di soldi, di compiacenza, compresa quella della moglie del sindaco. Il fortunato soggetto sta naturalmente al gioco. Intasca tutto quello che può, promette di sposare la figlia del sindaco e se ne va con i soldi che ha racimolato. Sicuri di imparentarsi con un simile potentato, si fa una grande festa in discoteca, si beve e si sogna a più non posso. Sin quando un piccolo particolare fa emergere la verità. A questo punto la figlia del sindaco (che sino ad allora aveva subìto tutto con umiliazione) comincia a ridere e a impacchettare nel cellophane l’intera combriccola, immobilizzata nell’istante in cui dalla bocca di ciascuno vengono fuori delle banconote.
Il testo di Gogol’ è un’immagine immortale dell’umano infetto e complice. Questa magnifica messinscena ne esalta ogni fibra, ogni parola, ogni intenzione e ogni divertimento. Una spettacolare rappresentazione del potere nella sua essenza sempre grottesca, miserabile e corrotta.

Vai alla barra degli strumenti