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Greco cerca greca

Grieche sucht Griechin
Eine Prosakomödie
(1955)
di Friedrich Dürrenmatt
Traduzione di Mario Spagnol
Einaudi, 2006
Pagine 145

Arnolph Archilocos lavora come sottocontabile con l’incarico di preparare relazioni sulla vendita dei forcipi nel cantone Appenzell-Innerrhoden, abita in una vecchia mansarda che dà su dei cessi, mantiene la famiglia del fratello Bibi, ladro e scioperato, e pranza nella modesta trattoria “Chez Auguste”. «Il suo mondo era solido, puntuale, morale, gerarchico» (pag. 5). Al vertice di tutto stava il Presidente della Repubblica, poi il vescovo Moser -capo della Chiesa dei Neovecchi Presbiteriani dei Penultimi Cristiani-, al terzo posto l’industriale Petit-Paysan, produttore di mitragliatrici, cannoni atomici e forcipi. È la proprietaria della trattoria a consigliargli di sposarsi e dunque Arnolph inserisce su un quotidiano l’annuncio -semplice e diretto- “Greco cerca greca”. Pur essendo, infatti, la sua famiglia emigrata sin dai tempi di Carlo il Temerario, quest’uomo sente di appartenere ancora all’antica terra degli Elleni.Invece che un’attempata e grassa matrona, a rispondere all’annuncio è Cloe Saloniki, «una magica creatura, una favola pura di bellezza e di grazia, una piccola, autentica donna» (16). Lo splendore di Cloe trasfigura la vita, gli spazi, il tempo. In meno di quarantott’ore, quest’«esistenza tanto puntuale, precisa e sballata» (9), sempre compresa “secondo un canone, un precetto ed una disciplina” (Battisti-Panella, La voce del viso), viene travolta e sconvolta. Archilochos si ritrova amico del Presidente della Repubblica, Consigliere ecclesiastico del vescovo Moser, Direttore Generale della S.p.A di Petit-Paysan. E marito di Cloe. Ma, come prima del matrimonio gli ricorda il vescovo, «forse lei si trova di fronte a una strada molto difficile; la strada della fortuna che è negata alla maggior parte degli uomini perché la saprebbero percorrere ancor meno che la strada della sfortuna, sulla quale si cammina di regola quaggiù» (70). E infatti con altrettanta rapidità il solidissimo mondo morale, che quest’uomo insignificante si era costruito a difesa delle proprie paure, precipita nella Rivelazione che coincide con la Disperazione: «Il peso enorme del suo sistema morale era crollato e lo aveva schiacciato» (114). La squallida finzione delle gerarchie sociali, la moralità teatrale dei potenti, la feroce meschinità delle masse, si disvelano ad Arnolph in tutto il loro pervasivo furore. E tuttavia c’è qualcosa di decisivo che emerge da questa vicenda di sogni e di miserie, di «socialismo creativo» (53 e 56) e di costitutive ipocrisie, di sottomissione e di violenza, come se al di là delle parole stesse -«sempre più sublimi e più untuose» come quelle pronunciate dal vescovo durante la cerimonia nuziale (112)- si aprissero lo spazio e il senso di una speranza ultima, di quell’amore tra gli umani che è, in effetti, «un miracolo sempre possibile» mentre «il male è un fatto che esiste sempre. La giustizia condanna il male, la speranza vuole correggerlo e l’amore non ci bada. Solo l’amore può accogliere la grazia così come è. Non c’è niente di più difficile, lo so. Il mondo è spaventoso e privo di senso. La speranza che ci sia un senso dietro a questo assurdo, dietro a tutti questi orrori, possono mantenerla solo coloro che nonostante tutto amano» (132). Verità dette nelle forme di Dürrenmatt, lucidissime e grottesche, affilate e convincenti, tragiche e assolutamente divertenti. Come sempre in questo scrittore, il romanzo diventa un trattato di poetica, di teoria della letteratura, il cui senso però emerge dall’atto stesso del narrare, dai suoi modi. Qui a un primo finale se ne aggiunge un secondo «per biblioteche circolanti» (138), una duplice chiusa che spiega con l’evidenza delle trame per quale ragione i grandi racconti difficilmente possano avere un lieto fine. Forse perché senza lieto fine è questa cosa magnifica e insensata che chiamiamo vita.

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