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Violenza

Intere città amministrate da delinquenti, i quali quando vengono scoperti rivendicano la loro sistematica attività di latrocinio come fosse un diritto, una volta che sono stati eletti. Interi stati in mano a corrotti assoluti, i quali stipulano accordi con qualunque potere mafioso e criminale pur di continuare a governare in nome degli interessi delle loro persone e dei loro gruppi. Così, ad esempio, Matteo Renzi difende Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’agricoltura accusato di vari reati in merito alla gestione dei centri di accoglienza dei migranti in Sicilia. Castiglione è di Bronte, come me, è genero di Pino Firrarello, ex renzi-castiglionesenatore e da poco ex sindaco del paese, il quale amministrava Bronte già quando ero studente liceale. Firrarello è poi stato deputato regionale e deputato nazionale, transitando dalla Democrazia Cristiana ai vari partiti nati dalla sua dissoluzione, aderendo a Forza Italia e ora al Nuovo Centrodestra alleato di ferro del Partito Democratico, nel quale sembra che Castiglione e Firrarello abbiano intenzione di entrare.
Interi continenti sotto il tallone delle banche, del Fondo Monetario Internazionale, della finanza impersonale e feroce, per la quale i governi sono legittimi soltanto se ubbidiscono alle loro volontà e devono invece essere cancellati se difendono gli interessi dei popoli che li hanno eletti.
Quanto accade nella vita politico-mafiosa della piccola Italia e nelle dinamiche finanziarie dell’Europa mostra con assoluta evidenza che la democrazia è finita da tempo, che a governare sono i grandi capitali finanziari legati alle attività criminali internazionali.
Contro la violenza quotidiana e implacabile degli amministratori locali, dei capi di governo, delle strutture internazionali, io auspico la violenza della ribellione, la violenza dei popoli, l’uccisione di quanti affamano le persone, rubano il futuro, asserviscono il presente alla patologia del denaro. Senza la violenza politica, quale gesto di legittima difesa che liberi le comunità sociali dalla presenza di questi violenti, nessuna giustizia è possibile.

Guerre, migranti ed esercito industriale di riserva

«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda. Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica.
Tutto questo si chiama anche globalizzazione. Il sostegno alla globalizzazione o invece il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo  le obsolete categorie di destra e sinistra. È quanto ha compreso anche il filosofo Michel Onfray, che per questo è stato attaccato in modo tanto violento quanto sciocco dal primo ministro francese Manuel Valls. Davvero, come scrive Alain de Benoist, bisogna essere consapevoli «dell’incapacità dell’immensa maggioranza degli uomini politici di comprendere qualsiasi cosa che abbia attinenza con il dibattito delle idee. […] Non sono i lettori a interessargli, ma gli elettori» (Diorama letterario, n. 323, p. 9).
Si tratta della stessa classe dirigente che in Francia come in Italia va distruggendo la scuola e l’università con ogni nuova legge che emana. L’apprendimento a scuola di una cultura scientifica, filologica, filosofica che non sia banale e superficiale è infatti giudicato ‘discriminatorio’ verso coloro che non riescono o non vogliono imparare. Onfray afferma giustamente che in questo modo «la scuola di oggi uccide sul posto i figli di poveri e seleziona i figli della classi favorite che fanno fruttare nella vita attiva non quel che hanno appreso a scuola ma quel che hanno appreso a casa» (Ivi, p. 11).
Si tratta della stessa classe dirigente europea che sta facendo di tutto per far fallire il progetto di Syriza in Grecia, giudicandolo ‘irrealistico’. «Ma nei fatti l’irrealismo sta piuttosto dalla parte dei giornalisti liberali e dei cronisti stipendiati, i quali assicurano che un debito che è impossibile pagare dev’essere pagato comunque, che la sovranità popolare dev’esser considerata nulla e che è legittimo portare a compimento lo squartamento del popolo greco» (De Benoist, p. 15).
Si tratta della stessa classe dirigente che -cancellando la Libia di Gheddafi e sovvenzionando il terrorismo contro il governo siriano- ha creato il Califfato e l’ISIS; una classe che «pretende di battersi contro un nemico senza voler riconoscere che si tratta di un Golem da lei stessa generato. Il dottor Frankenstein non può lottare contro la sua creatura perché è la sua creatura» (Id., p. 17).

Il generale francese Vincent Desportes ha dichiarato apertamente (lo scorso 17 dicembre) che «lo Stato islamico è stato creato dagli Stati Uniti» (Ivi, p. 16). E così si spiegano sia i finti ‘respingimenti’ stabiliti dai governi sottomessi alla grande industria -la quale ha invece tutto l’interesse ad accogliere l’esercito industriale di riserva costituito dai migranti africani e asiatici- sia la miope accoglienza indiscriminata mediante la quale la sinistra non più marxiana ha sostituito la lotta di classe con l’adesione all’universalismo globalista.
Il risultato di tali dinamiche non ha nulla a che fare con forme di libertà e di giustizia tra i popoli ma rappresenta sostanzialmente «l’incubo di una Cosmopoli di atomi indistinti. Un ben triste scenario» (M.Tarchi, p. 3).

Heidegger in Grecia

soggiorni_2Possiamo incontrare gli dèi ogni volta che il nostro muoverci e il nostro stare assume la forma del soggiorno. È questo il senso del viaggio compiuto da Heidegger in Grecia nel 1962. Un percorrere territori che fu un andare alla radice del suo pensare, un vedere in cui –nella dinamica del nascondimento che si mostra- l’ἀλήθεια, la verità, finalmente risplende nel corpomente, attraversato dalla vibrazione del sacro in cui il divino consiste.
Oltre l’archeologia, al di là della storiografia, il viaggio filosofico coglie la pienezza del soggiornare. Così a Neméa, in quell’ampia distesa dove le poche colonne rimaste del tempio di Zeus vibrano «come le corde di una lira invisibile dalla quale, forse, i venti traggono melodie di canti funebri che i mortali non riescono a udire –eco della fuga degli dèi» (Martin Heidegger, Soggiorni. Viaggio in Grecia [Aufenthalte, 1989], trad. di Alessandra Iadicicco, Guanda 1997, p. 24).
Partito da Venezia in nave, Heidegger tocca le prime isole –Cefalonia, Itaca-, poi Olimpia, Corinto, Creta, Rodi…ma in nessuno di questi luoghi trova ciò che sembra cercare. Finché non gli si apre Delo –la Manifesta- e il senso del viaggio si compie. Nell’isola deserta, assolata e silenziosa, si raccoglie e si nasconde il segreto della Luce. Quel luogo «custodisce il sacro e lo difende contro l’assalto di tutto ciò che è empio» (37), luogo intatto, rimasto libero dalla «crescente desolazione dell’esserci moderno» (50). L’Isola di Apollo è il cuore pulsante della Grecia –lo era un tempo, lo è per sempre- poiché in essa splende «quella inconfondibile luminosità dell’esserci greco, che cela e preserva in sé l’oscurità del destino» (55).
Il nostro destino, il Geschick del presente, vive nel rischio costante dell’insensatezza, proprio perché la ὕβρις –la tracotanza degli apparati tecnici- è per Heidegger l’opposto di ogni soggiornare, è un rubare alla Terra ciò che la Terra offre, senza riconoscere però, in cambio, la sua sostanza sacra. Questo significa che gli dèi sono fuggiti dal nostro spazio di vita, lasciando nella desolazione più profonda –perché inavvertita- ogni nostra impresa, ogni fare, ogni conquista.
Non alla ricerca dei singoli luoghi, dunque, è volta l’intenzione del filosofo ma all’interezza dello spazio greco, lo spazio in cui il divino soggiorna nella pienezza che si sottrae e che lo fonda. Ad Atene, quindi, va oltrepassata la caligine che nasconde quanto rimane della città antica, in modo da –entrati nello spazio della dea eponima- poter sentire quel «bagliore inafferrabile» che «comincia a far oscillare l’intera costruzione» e che la solleva «in una presenza saldamente delimitata, intimamente fusa con le scogliere che la sostenevano. Quella presenza era colma dell’abbandono del santuario. A esso, invisibile, si avvicinò l’essenza della dea fuggita» (46-47). La stessa apertura all’enigma, che nascondendosi si rivela, Heidegger la vive a Capo Soúnio, dove «le poche colonne ancora in piedi offrivano al vento le corde di una lira invisibile: le faceva vibrare il dio di Delo che guarda lontano per accompagnare il canto che echeggiava sull’arcipelago delle Cicladi» (49).
Al centro del viaggio sta dunque Apollo, il dio «che trasformò l’elemento selvaggio e conciliò la sofferenza» (30) ma il libro si chiude con Delfi, il soggiorno si compie nel nome di Dioniso. Delfi non è i suoi specifici luoghi, i templi, i tesori, le fonti. Delfi è l’intero, la cui luce «non giungeva dai resti dei templi o dagli scrigni dei tesori, né dalle costruzioni disseminate lungo il pendio fino alla vetta, ma irraggiava dalla grandiosità della contrada stessa» che «sotto l’alto cielo dove l’aquila, uccello di Zeus, volteggiava attraverso l’aria chiara, si apriva come il tempio» (57-58). Delfi che Heidegger paragona alla coppa Exekías, con i delfini che accompagnano Dioniso. Quella coppa, Delfi e la Grecia tutta riposano «entro i limiti propri della splendida raffigurazione […], il luogo della nascita dell’Occidente e dell’epoca moderna, nascosto nel mondo insulare che lo circonda, resta affidato al pensiero rammemorante del soggiorno» (63).
Il soggiorno di Heidegger –in Grecia, nel mondo, nella filosofia- si configura così come un abitare il Tempo in forma pienamente pagana e cioè nei modi di un vivere familiare, iniziale, straordinario eppur misurato: «Quel soggiorno resterà irripetibile. Eppure non è trascorso» (44). Non lo è e non lo sarà. Con il viaggiare e con il tornare, Heidegger conferma ciò che ha sempre saputo, che «l’intera Grecia antica si trasformò in un’unica isola richiusa in se stessa e separata dal resto del mondo noto e ignoto. Il congedo dalla Grecia divenne l’avvento della Grecia. Ciò che era sopravvissuto portando con sé la garanzia del proprio restare fu il soggiorno degli dèi fuggiti che si apre al pensiero rammemorante» (62).
Di questo soggiornare, la filosofia è forma suprema.

Grecia / Europa

The Europe of Greece
Museo Archeologico di Thessaloníki
Sino al 19 aprile 2015

The Europe of GreeceUna piccola ma vivace mostra ospitata nel Museo Archeologico di Thessaloníki documenta dove e come i Greci siano arrivati, quanto numerose e ricche fossero e sono le poleis da loro fondate in tutta l’Europa, dalla Spagna al Mar Nero.
Emergono i nomi, la lingua, la religione, i miti.
Un’installazione consiste in un bosco nel quale alcuni alberi hanno nel tronco i nomi delle città fondatrici e nei rami quelli delle colonie. L’Europa è un’invenzione dei Greci. Per questo è, tutta intera, casa nostra.

Patinati paesaggi

I due volti di Gennaio
(The Two Faces of January)
di Hossein Amini
Con: Viggo Mortensen (Chester MacFarland), Oscar Isaac (Rydal Keener), Kirsten Dunst (Colette MacFarland), Daisy Bevan (Lauren)
Gran Bretagna – Usa – Francia, 2014
Trailer del film

Due volti di GennaioAtene, Creta, Istanbul negli anni Sessanta. Chester e Colette, due agiati statunitensi, incontrano un concittadino che vive facendo la guida e imbrogliando un poco i turisti. Chester MacFarland, invece, della truffa è un esperto. Ma non sempre gli va bene. Ora è ricercato da malavitosi ai quali ha sottratto il danaro da investire. Uccide, senza volerlo, il detective che lo ha scovato. Il giovane Rydal aiuta lui e Colette nella fuga.
Ispirato a un romanzo di Patricia Highsmith, il film è godibile nelle immagini, nella recitazione, nell’itinerario tra il mito e la miseria di queste vite. Il mito soprattutto di Edipo. I riferimenti ai padri -«dai quali ci aspettiamo troppo, come fossero dèi»- sono ripetuti e fondamentali, sino alla stessa conclusione. Il Minotauro, il Labirinto, il conflitto e l’amore, la pace e la guerra (i due volti di Giano) rimangono tuttavia poco più che un pretesto per un film patinato, che si regge tutto sull’impegno degli attori e sui paesaggi.

Altri prodigi

Le immagini di Marina Ballo Charmet sono molto lontane da quello che di solito ci si aspetta da fotografie scattate in Grecia. Sono immagini prese dal basso, intuite di lato, che non restituiscono la grandezza della grecità ma il suo non esserci più, le sue tracce, le rovine del quotidiano. E in questo modo, paradossalmente, rimangono molto fedeli a ciò che i Greci sono per noi: assenti.
Si tratta dunque di fotografie del tutto coerenti con il testo del filologo Dino Baldi, il cui percorso tra Oracoli, santuari e altri prodigi (sottotitolo Sopralluoghi in Grecia, Quodlibet Humboldt, Milano 2013, pp. 200) è un itinerario dentro il tempo, la sua permanenza e la sua dissoluzione; un itinerario dentro ciò che non vediamo più ma che ci sembra ancora di vedere. «Un’occasione per fare esperienza diretta della fine delle cose» (p. 12), di tutte le cose, compresa la fine degli dèi, dell’assoluto, del senso. Il segreto della Grecia, uno tra i tanti ma forse il più significativo, si delinea dunque come l’affrancamento da Dio, dal Principio Primo e Ultimo, dall’Eterno, dall’Immobile, dall’Uno. A favore, invece, della dispersione, della differenza, del molteplice, del tempo.
L’itinerario in Grecia diventa così un viaggio interamente e profondamente pagano, nel quale «quella che per noi è solo bellezza, o un patrimonio di esperienze estetiche, per gli antichi era una forza viva da onorare e placare» (34); nel quale «i monti erano sacri per definizione, come le caverne e gli anfratti della terra, e in genere tutti i luoghi in cui la natura manifestava potentemente se stessa» (23), nel quale il morire è la migliore sorte, dopo la disgrazia d’essere nati; nel quale «a volte rimane da chiedersi perché si sta ancora al mondo» (45).
A distanza di millenni, oracoli, santuari e altri prodigi sono stati in gran parte riassorbiti nella natura che li ha generati; sono tornati a essere pietra, acque, terra. Emergono ancora qua e là dei riconoscibili resti, al modo in cui nella memoria di un individuo emergono qua e là ricordi di ciò che una volta è accaduto ma il cui significato è andato perduto nel procedere degli anni e dei luoghi.
Intuiamo quindi il Citerone, monte dove accaddero gli eventi più estremi, sanguinari, dionisiaci; Perachora, dove Medea seppellì i suoi figli; Delfi, dove il predire era «un dire, un disseminare parole a caso nello spazio infinito, che a volte il caso incontrava e rendeva vere» (98) (come ironicamente e splendidamente ha mostrato anche Dürrenmatt nella Morte della Pizia); Eleusi, dove «c’è stato un momento in cui è stato tutto vero, ma è durato un attimo e l’hanno visto in pochi» (69); Dodona, il più antico dei luoghi sacri [raffigurato nell’immagine qui accanto, che non è di Ballo Charmet], dove una colomba venuta dall’Egitto «imparò a parlare greco, e insegnò ai greci a interpretare la lingua degli animali, il fruscio delle foglie, il mormorio dell’acqua, il tintinnare degli oggetti appesi al vento, il risuonare tenue dei tripodi di bronzo» (107).
Tutto questo venne poi «fatto oggetto di scempio da scaltri, occulti, invisibili, esangui vampiri! Non vinto -soltanto dissanguato!…La nascosta sete di vendetta, la piccola invidia diventa padrona!» (F. W. Nietzsche, L’anticristo, § 59, Adelphi, p. 256), come a Olimpia, dove dopo gli ultimi giochi giunsero i goti che abbatterono i templi, «e poi arrivarono implacabili i cristiani, che avevano la tendenza a riconsacrare i luoghi della cultura pagana facendoci il nido dentro e consumandoli piano piano come parassiti» (Baldi, p. 28).
La Grecità è stata anche un «gioco di scambi e corrispondenze fra barbarie e civiltà (ambiguo, insidioso, ma profondamente vitale, se lo si riesce a governare)» (113); è stata anche lo spaziotempo in cui «la fierezza dei mortali vive accanto al senso del limite, inscindibile da esso» (117); è stata la civiltà in cui identità e differenza sono il conflitto e insieme la pace, il rifiuto e l’accoglienza, la potenza dell’esserci e il lamento del morire. È questa «competenza primordiale che in Grecia molti ancora hanno» a far sì che «finché ai greci rimarrà questa virtù di far sentire i propri simili parte della stessa famiglia umana, mi sembra che possano stare abbastanza tranquilli, e un po’ anche noi» (48).
Il testo si chiude ricordando ciò che accadde ai tempi di Tiberio, quando i naviganti sentirono vicino a Corfù una voce che chiamava il pilota egizio Tamo affinché annunciasse che il grande Pan è morto. «Non aveva ancora finito la frase, che tutto, intorno a lui, si riempì di stupore, e un immenso gemito si levò dalla riva» (118). Era morta la misura. Quella stessa misura che risuona nel primo testo della filosofia, il frammento di Anassimandro, e che invita ancora -per chi voglia ascoltarla- a guardare senza terrore alla «malattia originaria, quella che ci portiamo dentro da sempre, per il solo fatto di esistere. La cura del dio allora è come la discesa agli inferi di Ulisse: un viaggio di conoscenza per scoprire cosa abbiamo dentro che non sapevamo di avere, chi siamo che non sapevamo di essere» (57-58).

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