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Lo sparviero

Jerax, sparviero. Sembra sia questa l’origine del nome di uno splendido luogo posto tra il mar Jonio e l’Aspromonte, Gerace. All’inizio fu Locri Epizèfiri, potente città della Magna Grecia. Poi, nel Medioevo, le esigenze di difesa indussero a spostare l’abitato in alto, su una rocca. E ora dalla moderna Locri comincia la salita verso questo gioiello urbanistico e architettonico. Tutto appare pulito e ben conservato. I tetti in tegola coprono case che si aprono dentro cortili luminosi e intimi, come a Erice. La pietra antica sostanzia strade, abitazioni, chiese, monasteri. La cattedrale sembra un forte normanno, con le absidi rivolte a oriente, verso Bisanzio. L’interno è composto da colonne tutte di colore e forma differente, fatte con il marmo rubato ai templi pagani della Locri greca. La luce che vi penetra è come filtrata  dalla pienezza e dalla semplicità del romanico. E tutt’intorno alla cattedrale altre chiese, molte inevitabilmente chiuse, altre adibite ora ad auditorium. Una proliferazione di luoghi di culto cristiani che sembra provocazione verso i saraceni invasori e richiesta di protezione rivolta al proprio Dio. Intorno e oltre le strade, le piazze, i vicoli, si apre il panorama del mare rivolto verso la Grecia, verso il luogo dal quale anche tutto questo ha avuto inizio.

Contro il monoteismo

L’ossessione di ricondurre a una monocorde identità la magnifica selva delle differenze è un crimine. Di tale ossessione i monoteismi fanatici si nutrono ogni giorno. La sofferenza e il male che ebraismo, cristianesimo e islam diffondono da millenni nel mondo sono una delle prove schiaccianti della ferocia di cui la nostra specie è capace. Un brano evangelico ne riassume perfettamente la logica abnorme e patologica, che vuole ridurre il molteplice, il politeistico, il vario, il difforme, all’uniformità più assoluta, quella di un solo principio, di un unico dio: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi. […] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me».
(Vangelo di Giovanni, 17, 11-23)
A questa logica che pretende e vuole fare del diverso «una sola cosa» si oppongono le parole lucide e pacate di un grande maestro: «Infatti l’intolleranza è intrinseca soltanto alla natura del monoteismo: un dio unico è, per sua natura, un dio geloso, che non tollera nessun altro dio accanto a sé. Invece gli dèi politeistici, per loro natura, sono tolleranti, essi vivono e lasciano vivere. In primo luogo, tollerano volentieri i loro colleghi, gli dèi della stessa religione, e poi questa stessa tolleranza si estende anche agli dèi stranieri, che perciò vengono accolti con ospitalità, e col tempo ottengono perfino il diritto di cittadinanza, come dimostra anzitutto l’esempio dei romani, i quali accolsero volentieri gli dèi della Frigia, dell’Egitto e altri dèi stranieri. Perciò sono soltanto le religioni monoteistiche a offrirci lo spettacolo delle guerre e delle persecuzioni religiose, nonché dei processi agli eretici e della distruzione delle immagini degli dèi stranieri, della distruzione dei templi indiani e dei colossi egiziani, che per tre millenni avevano guardato il sole».
(Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Adelphi 1978, vol. II, pp. 470-471)

Kavafis

Constantinos Kavafis
SETTANTACINQUE POESIE
A cura di Nelo Risi e Margherita Dalmàti
Giulio Einaudi Editore, Torino 1992
Pagine 219

Centocinquantaquattro poesie scrisse Kavafis, all’intersezione tra il mito, la storia, le passioni. Là dove «la memoria del corpo» (Ritorna, pag. 69) si coniuga al «monotono giorno da un monotono identico giorno seguìto» (Monotonia, 79). «Miseri balocchi della sorte» (I cavalli di Achille, 21), gli umani di Kavafis sono intessuti di sensualità, di desiderio, di racconto, di storia, di tempo. E cosa sarebbe tutto questo senza la parola che lo celebra?

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Akadimia Platonos

di Filippos Tsitos
Con Antonis Kafetzpopulos, Anastas Kozdine, Titika Saringouli, Maria Zorba
Grecia/Germania, 2009
Trailer del film

akadimia_platonos

Atene. Su un incrocio di piccole strade sporgono alcuni negozi quasi sempre vuoti e i cui proprietari trascorrono il tempo lamentandosi della città invasa dagli stranieri, in particolare cinesi e albanesi. Questi ultimi vengono immancabilmente riconosciuti da Patriota, il cane di uno di loro, e quindi allontanati. Fino a che la madre di Stavros (interpretato da un eccellente Antonis Kafetzopoulos, capace di restituire il malinconico e surreale sentimento di esclusione dei greci) invita a casa sua uno di questi albanesi e comincia a parlare la sua stessa lingua, riconoscendolo come il figlio che aveva perduto da ragazza. Per Stavros, che si sente greco sino al midollo, è una rivelazione stupefacente e spiazzante.

La sceneggiatura equilibrata nei toni e divertente in molti passaggi riesce ad affrontare con ironia ma senza superficialità uno dei grandi problemi dell’Europa contemporanea. L’incompiuto “Monumento alla interculturalità” che l’amministrazione di Atene vorrebbe costruire proprio sull’incrocio nel quale Stavros e i suoi amici vivono e giocano al calcio è la semplice ma efficace metafora di un percorso antropologico e sociale assai complicato.

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