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Sarah Dierna su Tempo e materia

Sarah Dierna
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Il Pequod / n. 4 – Novembre 2021 / pagine 96-101

«Tempo e materia. Tempo è materia. È questo il nucleo intorno al quale si condensa e a partire dal quale si dipana la metafisica di Biuso. Una metafisica che parte dall’evidenza che “il mondo è” e che “l’umano è in esso” soltanto come sua parte. […]
Lontano anche da ogni prospettiva soggettivistica, la materia della quale si parla è una materia che “c’è indipendentemente da qualunque sguardo” come i Greci, anch’essi sullo sfondo della metafisica dell’autore, avevano già avvertito, esenti da quella hybris che ha invece caratterizzato la modernità, la quale ha ridotto la realtà ad un “canto solitario e monocorde dell’umano”. […]
Tutto questo non vale solo per l’umano. Un simile ‘inconveniente’, quello di essere nati, coinvolge infatti l’animalità tutta, dunque anche quella non umana poiché, benché il primo (l’umano) abbia rivendicato un salto ontologico rispetto al secondo (l’animale non umano), “la finitudine, il tempo, la morte” sono comuni a tutti i viventi dotati di sensibilità, dunque anche a quelli non umani. Una metafisica, pertanto, non solo del tempo, non solo materialistica, non solo metaetica, una metafisica anche antropodecentrata».

Ebbrezza greca

Ebbrezza e filosofia a Siracusa
con Enrico Palma
in il Pequod , anno 2, numero 4, novembre 2021, pagine 80-90

Con Enrico Palma abbiamo tentato una lettura filosofica dei tre spettacoli andati in scena quest’anno a Siracusa: Baccanti, Coefore/Eumenidi, Nuvole. Tre messe in scena assai diverse, con risultati a volte di grande suggestione e profondità, altre di permanenza alla superficie.
La pratica teatrale appare simile al lavoro filosofico. Con riferimento al testo di Aristofane ma anche a quelli di Euripide e di Eschilo, la filosofia è come un abito che si addice a un corpomente curioso e consapevole, ma che indosso a chi non se lo merita si trasforma in mero strumento di comodo, in ciò che Nietzsche definisce «un giaciglio di riposo», un semplice mestiere, una rendita. La filosofia è invece una sobria ebbrezza capace di percorrere l’enigma senza impoverirlo, percependone la luce, trasformando di continuo la vita.

Come le foglie

Il titolo è del tutto ed efficacemente esplicativo dei contenuti del libro: Nel laboratorio di Omero (Vincenzo Di Benedetto, Einaudi 1994). Uno dei suoi obiettivi è infatti andare oltre l’enigma omerico per scomporre e analizzare la tecnica e la poetica dell’Iliade come entrando nel laboratorio, appunto, di Omero. Laboratorio che appare in tutta la sua ricchezza di invenzioni, varianti, soluzioni innovative e assai creative, in tutta la sua «altissima elaborazione formale» (p. VIII), della quale fanno parte i rapporti del narratore con il personaggio. Al quale il narratore fa da spalla, con il quale gioca e dissente, il cui impeto spesso frena, i cui livelli di conoscenza articola in modo differente, al quale parla, che fa entrare in contraddizione con se stesso e con altri personaggi: «Le differenti versioni sono tutte vere, anche se incongruenti tra di loro. Ciò che conta per Omero è la realtà del segmento narrativo che egli volta per volta costruisce e di fronte a questa realtà anche una eventuale incongruenza appare un dato secondario» (79); «Lo stesso evento è visto dunque in modo diverso, a seconda del personaggio che ne riferisce e della situazione in cui egli si trova» (81).
Il poeta dell’Iliade ama e costruisce di continuo delle corrispondenze simmetriche e delle strutture parallele che emergono nella concordia discors fra Achei e Troiani, nella «corrispondenza/incontro […] in atti e situazioni che vanno al di là della guerra che li contrappone gli uni agli altri» (94) e che toccano il loro culmine nelle numerose e intense corrispondenze dell’ultimo libro del poema, nell’episodio che vede il confronto duro e alla fine solidale tra Achille e Priamo, al quale l’eroe ha ucciso il figlio. Numerose e assai significative sono le corrispondenze interne fra episodi e stilemi che si trovano e ritrovano anche a grande distanza tra le parti del poema. Un sistema di corrispondenze a distanza che è di tali dimensioni da costituire per Di Benedetto «uno dei segni più eloquenti di un’organizzazione del poema secondo un disegno preciso dell’autore, fin nei minimi particolari. Dato questo sistema di corrispondenze, si può escludere con tranquilla coscienza una composizione estemporanea del poema. E invece attraverso il gioco delle corrispondenze a distanza siamo in grado di cogliere tutta una serie di snodi di primaria importanza nella organizzazione del racconto» (178), a cominciare dalle profonde corrispondenze tra la parte iniziale e quella finale dell’opera.
Anche per questo è opportuno andare al di là della questione – discussa, studiata e celebrata – della oralità del poema. Sarebbe infatti «improprio delegare alla modalità della trasmissione del testo tutta una serie di questioni attinenti alla composizione dell’opera, al suo articolarsi in parti interrelate tra di loro, alla diversità dei registri espressivi» (104).
La pluralità delle relazioni tra il narratore e i suoi personaggi; le corrispondenze e riprese interne; la simmetria e insieme gli scarti consapevoli, giustificano la tesi di fondo di questo libro, vale a dire  «che c’era nella mente del narratore un piano ben preciso, un piano che garantisce dell’unità del poema» (265). 

Omero è completamente immerso nel suo mondo, sia dal punto di vista ideologico sia stilistico, ma va anche al di là di esso, mettendo in discussione la materia stessa del suo poetare e riuscendo «a realizzare poesia – e grandissima poesia – in quanto egli va al di là di questo sistema e si crea, come Achille di fronte ad Agamennone, uno spazio a sé» (358).
Queste parole conclusive del libro arrivano alla fine di un’analisi le cui strutture ho cercato di indicare e che entra nel dettaglio di una miriade di specifiche tematiche, tra le quali – solo per citarne alcune – la stoltezza/accecamento degli umani di fronte agli eventi; la progressiva costruzione di una ψυχή, di una mente consapevole della propria esistenza, anche mediante monologhi e riflessioni su quanto accade e su ciò che il personaggio sente come propria reazione all’accadere; un antropomorfismo molto lontano da quello dei monoteismi poiché fondato anch’esso sull’identità/differenza tra il divino e l’umano.

L’esito ermeneutico complessivo di queste analisi complesse, raffinate, erudite e assai chiare è che nella costruzione del poema e nel racconto delle sue vicende Omero sia andato consapevolmente al al di là della guerra, che pure dell’Iliade è pervasiva sostanza: «La grandezza di Omero (e anche ciò che rende difficile capire appieno la sua opera) consiste nel fatto che egli fa un poema che racconta una guerra, e questo racconto è realizzato con pieno gusto del narrare e con un prodigioso senso del fattuale; e nello stesso tempo, però, il poeta svela una fascia di realtà profonda, che va al di là della guerra, come svuotandola. Nel mentre fa poesia, il poeta dell’Iliade ha il coraggio di mettere in discussione quella che in origine appare come la base stessa del suo poetare (251-252). Dentro e oltre la guerra, il poeta ha colto il potere della morte come dato fondante dell’esistenza, un Sein-zum-Tode  che ha nella metafora degli umani/foglie una sua limpida e concreta espressione.

O Tidide coraggioso, perché chiedi della mia stirpe?
Quale è la stirpe delle foglie, tale anche degli uomini.
Le foglie il vento le sparge a terra, e altre la selva
fiorente ne genera, e arriva il tempo di primavera;
così la stirpe degli uomini ora germoglia e ora svanisce.
(VI, 145-149, parole di Glauco rivolte a Diomede, qui a p. 319)

O scuotitore della terra, non potresti dire che saggio
io sono se contro di te combatterò a causa degli uomini
infelici, i quali simili alle foglie alcune volte
sono pieni di ardore, loro che mangiano il frutto della terra,
e altre volte periscono esanimi. Ma immediatamente
cessiamo di combattere. La guerra la facciano loro.
(XXI, 463-466, discorso di Apollo a Poseidone, qui a p. 321)

Coerentemente, il poema si chiude con la celebrazione del rito funebre in onore di Ettore, in emblematica corrispondenza con quello in onore di Patroclo, da lui ucciso.
Oἳ φύλλοισιν, simili a foglie.

Teofania

Recensione a:
Walter F. Otto
TEOFANIA
Lo spirito della religione greca antica
(Theophania. Der Geist der altgriechischen Religion, 1956)
Adelphi, 2021
pagine 184
in Diorama Letterario – numero 363 – Settembre/Ottobre 2021
pagine 39-40

Gli dèi non sono onnipotenti ma onnipresenti. È una presenza «avvertibile in maniera talmente immediata che non ne troviamo traccia in nessun’altra delle antiche religioni». Il divino è il sacro ctonio, terrestre, immanente, mondano, che splende e respira nel tessuto dei giorni, nella tensione verso la differenza, nell’accoglimento dell’identità del qui e dell’ora. Esso è ovunque.

Euripide, il Sacro

Il Sacro in Euripide
in Dialoghi Mediterranei
Numero 51, settembre-ottobre 2021
Pagine 62-76

Indice
-Premessa
-Gli eroi
-Le donne
-La legge
-Il divino

Ho tentato un percorso dentro la grandezza di Euripide, dentro il suo sguardo nello stesso tempo empatico e distante sul divino, l’umano, la follia, il cosmo, la storia. Il suo teatro è una festa sacra. Festa di passione, di vendetta, di ironia, festa di Ἀνάγκη.
Un abisso c’è tra tale modo di intendere l’esistere e la sensibilità dell’Europa moderna. Un abisso tra questa potenza selvaggia dell’inevitabile e la compassione universale verso gli umani, tra la consapevolezza di quanto gratuito, insensato e terribile sia lo stare al mondo e il luna park moralistico e sentimentale che afferma il valore sacro di ogni umano.

Mortali

«Πυρὸς βροτοῖς δοτῆρ᾽ ὁρᾷς Προμηθέα; Hai davanti a te colui che ha donato il fuoco ai mortali: sono Prometeo!»1. Il fuoco, l’energia, la mente, la tecnica. E soprattutto il futuro che si dischiude dall’ignorare la data della propria morte. Questo ha donato Prometeo. Ma a chi ha dedicato questi splendidi doni? Agli ἐφήμεροι, alle creature di un giorno, ai mortali (vv. 83, p. 304; 253, p. 316; 547, p. 336; 945, p. 364).
Perché questo Titano più duro della durezza e più libero della libertà ama così tanto gli umani che vivono un giorno? Forse la ragione sta anche nel fatto che essi possono morire, essi debbono morire, essi muoiono, mentre a lui questo dono è precluso: «ὅτῳ θανεῖν μέν ἐστιν οὐ πεπρωμένον: αὕτη γὰρ ἦν ἂν πημάτων ἀπαλλαγή; perché a me dal destino non è dato di morire: perché, è vero, la morte è la fine di tutte le pene» (753-754; p. 350).

C’è qualcosa di definitivo, qualcosa di totale in tutto questo, in tale «φιλανθρώπου τρόπου; smania di far del bene agli umani» (11, p. 298; 28, p. 300). Come una suprema ironia che sembra filantropia e che invece stabilisce che il valore degli umani sta nel loro sparire, il loro senso sta nel morire, nel dover morire, nel non esserci stati per un tempo infinito e nel non esserci più per un tempo altrettanto infinito.
Il φρενός di Prometeo, la sua mente, «ὡς δέρκεται πλέον τι τοῦ πεφασμένου; vede lontano, ben oltre ciò che appare» (842-843; p. 356). Vede che il limite è universale, che anche gli dèi si illudono «δὴ ναίειν ἀπενθῆ πέργαμ᾽; di abitare in una fortezza inaccessibile al dolore» (955-956; p. 364). E invece anch’essi sono segnati dal limite, sono creature della Necessità, dell’Orrore e dell’Inevitabile.
Prima di loro la Terra e il Cielo, prima di loro il Tempo. E prima di loro «Μοῖραι τρίμορφοι μνήμονές τ᾽  Ἐρινύες; le Moire dai tre volti e le Erinni, demoni della Memoria» (516; p. 334) e le «Φορκίδες ναίουσι δηναιαὶ κόραι / τρεῖς κυκνόμορφοι, κοινὸν ὄμμ᾽  ἐκτημέναι, / μονόδοντες,  ἃς οὔθ᾽ ἥλιος προσδέρκεται / ἀκτῖσιν οὔθ᾽ ἡ νύκτερος μήνη ποτέ; Forcidi, le tre vecchissime fanciulle dall’aspetto di cigno, che hanno un occhio solo fra tutte e un dente per una; mai si espongono ai raggi del sole, mai alla luce della luna notturna» (794-797; p. 354).
Queste sono le potenze che contano, le vere potenze: la Materia, il Tempo, la Morte. Per questo, e Prometeo lo ripete sarcastico più volte, Zeus non è affatto onnipotente e anch’egli è destinato alla caduta. In questo limite universale delle cose, in questo universale Sein zum Tode, gli umani si distinguono per la tracotanza unita all’imperfezione, per la presunzione unita alla viltà, per l’autoinganno di tutti e di ciascuno.

Davvero quella umana è «ᾇ τὸ φωτῶν / ἀλαὸν γένος ἐμπεποδισμένον;  οὔποτε; una razza cieca che vaga incapace di vedere la luce: mai» (549-550; p. 336). Una specie senza luce, Homo sapiens, alla quale neppure l’andare del tempo, che pure «tutto insegna» (981; p. 368) è capace di insegnare l’essenziale, la saggezza che il morire dovrebbe dare alla misura dei giorni. L’accettare, soprattutto, tale condizione, senza angoscianti igienismi securitari, godendosi l’esistere per quello che si può, invece di rinchiudersi nel terrore a ogni piè sospinto di ammalarsi.
Persino quella di Prometeo, di un Titano, del figlio di Θέμις è una «τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷι; un’arte di gran lunga meno potente della necessità» (514; p. 510). E invece gli umani, questi vermi verticali malvagi e stupidotti, si credono superiori ad Ἀνάγκη sino ad affermare seriamente -è un’altra bizzarria del nostro tempo, quella dei movimenti estropiani e transumanisti- di poter non morire più, di poter vivere per sempre.
Ha ragione Zeus contro Prometeo, il filantropo. Zeus che nutre «una totale indifferenza verso la sorte dei mortali, considerati una stirpe difettosa» (Monica Centanni, p. 920).

Nota

1. Eschilo, Prometeo incatenato (Προμηθεὺς δεσμώτης, 470 a.e.v.), verso 612, p. 340, in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

La terra ospitale

Qualche anno fa, nel 2015, avevo assistito a una messa in scena delle Supplici al Teatro Greco di Siracusa, con la regia di Moni Ovadia e le musiche di Mario Incudine. Una messa in scena scadente, che nulla aveva a che fare con Eschilo. La conferma di un giudizio così duro viene dalla lettura della tragedia con la guida filologica ed ermeneutica di Monica Centanni. Emergono infatti da tale lettura i controsensi di una interpretazione umanistica, attualizzante ed eticamente virata verso l’accoglienza. Nulla in Eschilo c’è che giustifichi una simile interpretazione. Nel mondo greco «l’esilio è considerato una condizione peggiore della morte, perché esclude l’uomo dal suo habitat privilegiato -la città– e lo priva dello statuto di cittadino, necessario al riconoscimento della sua identità»1.
Le cinquanta figlie di Danao che giungono ad Argo in compagnia del loro padre allo scopo di fuggire alle nozze coatte con i cinquanta cugini figli di Egitto scelgono Argo perché sono discendenti di Io, la principessa argiva amata da Zeus, perseguitata da Era, madre di Epafo, generato in Egitto e loro antenato. Queste ragazze sono quindi parenti dei cittadini ai quali ora chiedono protezione e rifugio. Le Danaidi non sono straniere nel significato odierno della parola. E non rivendicano neppure diritti in quanto donne ma in quanto supplici dell’altare di Zeus, loro avo. Non è affatto la stessa cosa, tanto è vero che esse ribadiscono il fatto che «γυνὴ μονωθεῖσ᾽ οὐδέν una donna da sola non è niente» (v. 749, p. 260) e a proposito dei figli di Egitto arrivati ad Argo per rapirle usano espressioni ‘razziste’ come «μελαγχίμῳ σὺν στρατῷ; un esercito di pelle nera» fatto di «ἐξῶλές  μάργον; maledetti e pazzi» (v. 741, p. 258).
A questi neri pazzi e maledetti Pelasgo, re di Argo che ha deciso di acconsentire alle suppliche delle ragazze, si rivolge con parole assai poco ‘accoglienti’, come queste: «οὐ γὰρ ξενοῦμαι τοὺς θεῶν συλήτορας; io non sono ospitale con chi depreda gli dèi» (v. 927, p. 274).
Per i Greci prima vengono gli dèi e poi gli umani, qualunque umano. Per tutti loro infatti i mali sono e rimangono molteplici e variegati «πόνου δ᾽ ἴδοις ἂν οὐδαμοῦ ταὐτὸν πτερόν; e non vedrai mai gli stessi colori sulle ali del dolore» (v. 329, p. 228). Anche per questo non c’è nulla di ‘umanistico’ negli Elleni.
E si potrebbe continuare nell’analisi testuale che conferma l’insipienza di ogni attribuzione ai Greci di sentimenti e sentimentalismi tipicamente moderni e postcristiani. E questo anche sul fondamento di una antropologia del limite per la quale «παν απονον δαιμόνιον; senza sforzo avviene ogni atto divino» e Zeus «ἰάπτει δ᾽ ἐλπίδων / ἀφ᾽ ὑψιπύργων πανώλεις; getta giù dall’alta torre / delle loro speranze i miseri mortali» (vv. 100 e 96-97, p. 212).
Ospitale verso le loro preghiere è a volte Zeus, inospitale altre volte. C’è invece un dio, fratello di Zeus, che tra le divinità è il più ospitale di tutti, «τὸν γάιον, τὸν πολυξενώτατον; Ade, dio della terra e signore della morte; Ζῆνα τῶν κεκμηκότων» (vv. 156-157, p. 214).
Altre divinità presenti, temute e onorate in questa tragedia -insieme a Zeus «δι᾽ αἰῶνος κρέων ἀπαύστου; signore del tempo infinito» (v. 574, p. 248)– sono Ares e Afrodite. Ares, da tutti temuto, dio senza danze e senza musica, padre del pianto –«ἄχορον ἀκίθαριν δακρυογόνον Ἄρη» (v. 681, p. 254). Afrodite il cui nome appare alla fine ad ammonire le ragazze dei rischi che corrono coloro che ne trascurano il culto, coloro che si chiudono alla potenza erotica della vita, al desiderio: «Kύπριδος δ᾽ οὐκ ἀμελεῖ θεσμὸς ὅδ᾽ εὔφρων / δύναται γὰρ Διὸς ἄγχιστα σὺν Ἥρᾳ; Ma neppure Cipride devi trascurare, in questo canto propiziatorio: / è potente, è la più vicina a Zeus, insieme a Era» (vv.1034-1035, p. 280). Tutti gli dèi, in ogni caso, vanno tenuti in conto, onorati dentro la persona umana che di loro è fatta, intrisa, mescolata.
È questo uno dei significati e degli scopi universali della tragedia greca, dell’intero mondo ellenico: che equilibrio, misura, distanza e rispetto siano dovuti in primo luogo agli dèi. Uno dei princìpi apollinei che risuonano a Delfi stabilisce: «τὰ θεῶν μηδὲν ἀγάζειν; Verso gli dèi, mai nessun eccesso» (v. 1061, p. 282).
Ἱκέτιδες non è una tragedia di argomento sociale o morale, è una teologia, come sempre per i Greci.

Nota
1. Monica Centanni in Eschilo, Supplici (Ἱκέτιδες, 463 a.e.v.), Le tragedie, p. 854.
Traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le citazioni da Supplici saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Meridiani.

[L’immagine del grande teatro di Argo fu scattata da me alcuni anni fa. Micene e Argo costituiscono due dei luoghi dove ho meglio sentito la presenza del sacro]

 

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