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Filosofia antica

Pierre Hadot
Che cos’è la filosofia antica?
(Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard 1995)
Traduzione di Elena Giovannelli
Einaudi, 2010
Pagine 302 

La filosofia è un modo di vivere all’interno di una comunità, nel dialogo, nel confronto, nel sentirsi esistere in una relazione continua con altri umani animati dalla stessa forma, passione, interesse, intenzione, vita. Non è necessario condividere sempre gli spazi ma sapere che quello che stiamo in questo momento vivendo, pensando, scrivendo, è condiviso dai desideri e dalla lucidità di altri filosofi. Lucidi come noi, strani come noi, indifferenti come noi. Un’indifferenza che significa almeno tre cose: consapevolezza dei limiti umani, della nostra infima misura dentro lo splendore e l’immensità dell’intero; disincanto nei confronti della condizione di dolore e di morte non soltanto dell’umano ma di tutto ciò che è vivo; metamorfosi di questo consapevole disincanto in azione, in opera, in trasformazione della vita propria e delle relazioni, dei legami, della politica.

Conoscenza e azione che si fondano su numerosi e vari presupposti teoretici, che nel mondo greco sono in particolare:
– L’essere ogni ente una parte dell’intero, un’espressione della potenza della materia generatrice, che sempre sorge da se stessa, dalla propria potenza, dall’energia universale, la Φύσις.
– Il coincidere di tale energia e potenza con ciò che tutte le culture chiamano il sacro, il quale non abita quindi in qualche luogo specifico, in un tempo altro, in una realtà lontana ma accade qui e ora, in ogni ente, evento e processo. La realtà stessa è sacra, tutta, come l’aneddoto eracliteo del focolare in cucina testimonia con semplicità.
– Ciò che chiamiamo male è l’ignoranza di questa energia pervasiva e sacra, nella quale e con la quale il mondo in ogni istante esiste; è anche per questo che l’etica è un’espressione dell’ermeneutica, perché «il male non è nelle cose, ma nel giudizio di valore che gli uomini attribuiscono alle cose» (p. 101).
– Ciò che chiamiamo bene è invece l’immersione consapevole in questa dinamica, qui e ora; non quindi l’aspirazione ad altre vite o l’inquietudine senza pace dei progetti più fantasiosi e irraggiungibili ma l’esistere nel presente. Non naturalmente il semplice presente fisico e matematico, infinitamente divisibile e anche per questo di fatto insussistente, ma il presente come percezione della durata e suo significato. Un presente semantico prima di tutto.
– La necessaria fiducia che tutto questo si possa comunicare, trasmettere, insegnare e in tal modo contribuire a formare altri umani, a plasmare altre vite a partire da ciò che il tempo sacro ha donato alla nostra, tale è la pratica della παιδεία.
– La necessità che tale pratica educativa sia sempre intramata e sostenuta dall’approccio teoretico e da prospettive universali che si sforzino di andare oltre la limitatezza dell’orizzonte storico e prassico di ogni individuo e di ciascuna comunità: «Senza questa riflessione, la vita filosofica rischia di cadere nella banalità o nell’insipienza, nei buoni sentimenti o nell’aberrazione. […] Vivere da filosofi significhi precisamente anche riflettere, ragionare, concettualizzare, in modo rigoroso e tecnico, ‘pensare in modo autonomo’ come diceva Kant. La vita filosofica è una ricerca che non si arresta mai» (269).
– L’accettazione dunque della natura asintotica della vita in generale e dell’esistere filosofico in particolare, vita ed esistere per loro natura sempre aperti e mai definitivi. Vivere significa precisamente questo incompiuto che in ogni suo momento è sempre realizzato.
– Il convergere di queste pratiche asintotiche e teoretiche verso l’enigma del tempo, il vero e proprio oceano il cui infinito movimento è definito allo stesso modo in un testo fondante quale la Teogonia di Esiodo (verso 38) e in una sentenza epicurea (la n. 10) attribuita a Metrodoro: «Ricorda che nato mortale, con una vita limitata, tu sei assurto, grazie alla scienza della natura, fino all’infinito dello spazio e del tempo e hai visto ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (22).

La filosofia è quindi conoscenza e pratica del tempo infinito dentro il tempo limitato che siamo, è la consapevolezza che una parte della materia universale ha di esistere per un arco, una parabola, un percorso sempre limitati ma non per questo meno densi. Filosofia è diventare l’infinito che si è. È ciò che Ernest Renan definisce il «punto di vista di Sirio», la stella più luminosa che i nostri occhi di terrestri possano vedere.
Come i corpi hanno bisogno d’aria per vivere, la filosofia richiede la libertà come respiro. Questa è la principale ragione per la quale la filosofia  nacque in Grecia e non altrove. Nell’Accademia di Platone vigeva una integrale libertà di pensiero, tanto che i suoi allievi e anche gli immediati successori alla guida della scuola espressero posizioni anche assai lontane dal Maestro, il più famoso tra questi è Aristotele. L’Accademia era infatti «un luogo di libera discussione e al suo interno non vigeva nessuna ortodossia specifica della scuola e nessun dogmatismo» (64).
Gli ultimi filosofi greci, cacciati via dal cristiano Giustiniano, trovarono nell’Oriente persiano, tra i nemici persiani, il luogo estremo nel quale esercitare ancora tutto questo. Nel 529 infatti «l’imperatore Giustiniano proibisce ai pagani di insegnare. I filosofi neoplatonici Damascio, Simplicio e Prisciano lasciano Atene per rifugiarsi in Persia. Dopo il trattato di pace concluso tra Cosroe e Giustiniano, essi si stabiliscono a Carrae, in territorio bizantino ma sotto influenza persiana, e continuano il loro insegnamento» (280), che ancora prosegue.
In questa sistole e diastole di esistenza e teoresi, di limite e di infinito, abitano il dolore e la gioia dell’essere filosofi.

«Il filosofo sperimenta in modo crudele la propria solitudine e la propria impotenza in un mondo lacerato tra due inconsapevolezze: quella che è provocata dall’idolatria del denaro e quella che risulta dalla miseria e dalla sofferenza di miliardi di esseri umani. In simili condizioni, il filosofo non potrà sicuramente mai raggiungere la serenità assoluta del saggio. Filosofare equivarrà, dunque, a soffrire di quell’isolamento e di quella impotenza. Ma la filosofia antica ci insegna anche a non rassegnarci, continuando invece ad agire ragionevolmente, e a sforzarci di vivere secondo la norma rappresentata dall’Idea della saggezza, qualsiasi cosa succeda, per quanto la nostra azione ci possa apparire molto limitata.
Come diceva Marco Aurelio:
‘Non sperare la Repubblica di Platone, ma accontentati se una cosa piccolissima progredisce, e pensa che questo risultato non è così piccolo’ » (270; Ricordi, 9.29.5).

Questo è la filosofia antica, questo è la filosofia.

Sapienza

Recensione a:
IL SAPERE GRECO
Dizionario critico
(Le savoir grec, Flammarion, Paris 1996)
a cura di Jacques Brunschwig e Geoffrey.R. Lloyd, edizione italiana a cura di Maria Luisa Chiesara, Einaudi 2007
2 volumi, pagine  XL-646 e XII-626
in Diorama Letterario – numero 367 – Maggio/Giugno 2022
pagine 35-37

La filosofia è un itinerario nella conoscenza e nell’essere, nella gnoseologia e nell’ontologia. Nulla a che vedere con new age di vario tipo o con semplici filologie che frugano tra i testi e i monumenti per trovarvi qualcosa di commestibile, vale a dire di non troppo indigesto agli stomaci contemporanei.
L’apprendimento iniziatico non consiste né in sentimentalismi di massa né in tecnologie erudite ma significa trasformare se stessi e la vita in un mezzo di conoscenza.
Anche per questo la filosofia è una forma di iniziazione, una delle più profonde, rigorose, universali. E una delle più oggettive perché fatta non di riti che l’andare della storia porta al culmine e alla deriva, non di contenuti accessibili a ristrette cerchie, ma di testi che ognuno e tutti possono tenere in mano e scorrere per attingervi spiegazioni, domande, risposte.
La filosofia non nega il cammino a nessuno. Sono i singoli camminanti che si fermano o neppure cominciano, pensando che si tratti di illusione o di semplice chiacchiera. E invece si tratta di saper vedere, dell’esercizio che ha una delle sue massime espressioni nei racconti platonici della Repubblica (514 a – 520 a) e del Fedone (109 b-d): un itinerario dalla prigionia dell’oscurità allo splendore del manifesto. Vedere è il compito del saggio e del sapiente, vedere e comunicare agli altri ciò che si è visto, attraverso la parola che si fa scrittura.

[L’immagine di apertura è di Elvia Giudice]

Sulla Cina

Henri Cartier-Bresson
Cina 1948-49 / 1958

Museo delle Culture (Mudec) – Milano
Sino al 3 luglio 2022

In Cina nel 1948 l’esercito e il governo nazionalisti si dissolvono e l’esercito comunista occupa Pechino, le altre grandi città, le campagne. Tutto sembra crollare in pochi giorni. La moneta torna a diventare la carta che è. Le persone si accalcano davanti alle banche sperando di trasformare quella carta in oro reale. La fame riappare ma la vita quotidiana in qualche modo continua. Il passato millenario si trova di fronte alla durezza del presente e all’incertezza del futuro. Nei templi continua a vivere indistruttibile il sacro, mescolato alle superstizioni, alla fede. Il tifone che colpisce Shangai a fine luglio 1949 ricorda a tutti che il tempo non è soltanto storia umana ma è anche materia e cielo che continuano indifferenti a essere ciò che da milioni di anni sono.
Cartier-Bresson osserva e fotografa tutto questo con una grande oggettività dello sguardo unita a una profonda pietà.
Oggettività, pietà e curiosità che esercita dieci anni dopo, quando torna in Cina per documentare la nuova vita, il nuovo potere, le nuove fedi che muovono quel Paese immenso. E vede volontari che costruiscono una diga con l’ebbrezza dell’essere massa, di un progetto e di un fare che somigliano a quelli di un formicaio. Vede parate e manifestazioni celebrative con giovani che danzano, saltellano, sorridono. In ogni caso una festa, qualunque ne sia stato e ne sarà il prezzo. Vede il paesaggio sconfinato e i manufatti millenari che lo abitano, per i quali la storia umana rimane in ogni caso una piccola parte della vera storia, quella degli elementi.
Storia che per Cartier-Bresson è inseparabile dalla geometria dello sguardo, dalla capacità del suo occhio e della sua macchina fotografica di inserire i corpi viventi e i loro movimenti dentro le strutture formali che i corpi attraversano e con i quali si armonizzano. Per lui sono queste e soltanto queste le immagini che valgono, che sceglie, che vuole. Immagini nelle quali l’elemento umano, quello architettonico/spaziale e quello naturale convivono sino a diventare una cosa sola.
Tutto ciò conferma la natura ermeneutica della fotografia. L’artista lo afferma apertamente: a contare non sono i fatti ma il punto di vista che li coglie, l’interpretazione che se ne dà. Tra i due viaggi in Cina, nel 1952, scrisse infatti questo: «Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e di una precisa organizzazione di forme che danno a quell’evento la sua giusta espressione» (Images à la sauvette, Verve).
L’imprendibilità della storia è colta tramite l’invenzione geometrica dell’istante, del tempo.
Che cosa è la Cina adesso? Che cosa è diventata la Cina rivoluzionaria e dispotica fotografata da Cartier-Bresson? Che cosa potrà diventare? Lo racconta e lo spiega bene Simone Pieranni, parlando di WeChat, l’analogo cinese di Facebook ma ancora più pervasivo, se possibile. E sembra possibile. Leggete questo breve articolo, assai istruttivo: Cos’è WeChat? (17.6.2022). Leggetelo alla luce di un’affermazione che nel testo di Pieranni non c’è e che sembra entrarci poco e invece a me sembra centrale: l’Europa che sta morendo perché diventata colonia della potenza anglosassone sarà pronta -al momento opportuno- a diventare colonia della Cina. Perché in entrambi i casi non c’è e non ci sarà più la filosofia greca a difenderne le libertà. 

 

Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

Ate, il suo inno

Teatro Greco – Siracusa
Agamennone
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Musici: Diego Mingolla, Stefania Visalli
Con: Laura Marinoni (Clitennestra), Sax Nicosia (Agamennone), Linda Gennari (Cassandra), Stefano Santospago (Egisto), Spettro di Ifigenia (Carlotta Messina, Maria Chiara Signorello), Corifea (Gaia Aprea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 5 luglio 2022

La cifra stilistica è naturalmente sempre quella che lo scorso anno caratterizzò Coefore / Eumenidi, anche se la declinazione è un poco diversa, più sobria. Sobria compatibilmente con le intenzioni di Livermore, che anche in questo caso travalica non soltanto Eschilo ma proprio l’idea greca del teatro. Nel preciso senso che la presenza del regista diventa preponderante e la formula registica potrebbe essere applicata a qualunque testo di qualsiasi epoca. Una notte, insomma, in cui tutti gli spettacoli sono uguali. Il coro è formato, tra gli altri, da generali più o meno paralitici e in ogni caso vecchissimi. I gesti sono meccanici, artificiosi, esagerati. Compaiono ovunque fantasmi, una figura evidentemente cara a Livermore. In questo caso nelle fattezze di due bambine che rappresentano il fantasma della Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone e della cui morte la madre Clitemnestra appunto si vendica massacrando il marito e la nuova schiava/concubina Cassandra.
Coerente e interessante è invece l’idea di accompagnare l’intero spettacolo con la musica. Si parte da livelli alti, dai più alti, vale a dire da Bach ma si conclude con gli attori che eseguono una canzone accettabile ma che ancora una volta nulla c’entra. Se questo regista ama il musical perché non mette in scena dei musical?
Ma ancora una volta la parola di Eschilo sopravvive e vince.
Vince nel comprendere che «ἐγρηγορὸς τὸ πῆμα τῶν ὀλωλότων, si risveglia sempre il dolore dei morti» (v. 346, questo e gli altri versi vengono citati nella traduzione di Monica Centanni), che coloro che non sono più possiedono ancora la forza di legare a sé il destino dei vivi, nell’infinita serie di cause e legami che costituisce l’esistere.
Vince nel pieno splendore della Necessità, ben conscia che quanto sta accadendo è «μοῖρα μοῖραν ἐκ θεῶν, Moira contro Moira» (v. 1026), è l’inno originario di Ἄτη, «πρώταρχον ἄτην», le sue parole che -«ἐν μέρει δ᾽ ἀπέπτυσαν, cantano il canto della colpa originaria» (v. 1192).
Vince dicendo con chiarezza dall’inizio alla fine che la stirpe degli Atridi, «κεκόλληται γένος πρὸς ἄτᾳ, questa stirpe è legata con le catene di Ate» (v. 1566) e che pertanto tutto accadrà di ciò che deve accadere: infanticidio, matricidio, vendetta, giustizia. Nulla sfugge all’occhio gorgogliante di Erinni.

[Aggiungo queste poche parole stimolate dall’Agamennone di Livermore a quelle che la lettura del testo mi indusse a pensare: Distruzione a distruzione]

Eschilo

Eschilo, il fondamento
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 5 – 2022
Pagine 3-17

Indice
-Radice e fondamento
-Il nomos della terra
-La terra invisibile
-La terra ospitale
-Mortali
-Distruzione e fondazione

Abstract
The paper traces the tragedies of Aeschylus in chronological order, trying to show the founding nature of Mediterranean and European civilization. In Aeschylus, in fact, human energy and inevitable fate, Law and Horror coexist. This is one of the most illuminating explanations of human existence.

In questo saggio ho tentato di andare alle radici e al fondamento della civiltà europea, di cogliere la potenza dell’elemento sacro nella formazione delle comunità umane e nello stesso tempo capire come sia potuto accadere che un piccolo territorio del mondo, prima la Grecia e poi l’Europa intera, si sia affrancato dalla mescolanza assai rischiosa di religione e diritto,  abbia fatto della storia la vibrazione delle vite individuali e di queste vite il senso stesso dell’accadere storico.
Le tragedie di Eschilo (525–456 a.e.v.) permettono di esplorare tale plesso fondativo. Esse ci offrono un dono necessario per capire a fondo la nostra identità e dunque per conservarla e con essa garantire la costanza delle molteplicità su un pianeta e in un tempo che si declinano in forme sempre più monocordi, in espressioni sempre più uniformi, in manifestazioni che in realtà nascondono la profondità delle questioni a favore dello scintillante nulla dello spettacolo.
Spettacolo, certo, sono i testi di Eschilo destinati alla scena. Ma sono uno spettacolo totale e profondo, nel quale la complessità degli eventi e delle anime non si perde. Anzi si raggruma, esprime e trionfa.

Nel numero 5 della rivista/libro Mondi è apparso anche un ampio e denso saggio (pp. 45-67) di Enrico Moncado dal titolo: Note sulla «Einleitung in die Phänomenologie der Religion» di Martin Heidegger.

Mitomania / Eracle

Sabato 4 giugno 2022 alle 15,00 a Lentini (Siracusa) terrò una lezione/conversazione nell’ambito dell’edizione 2022 di MitoMania, dedicata quest’anno a Eracle: il limite e l’illimite del divino e dell’umano.
Il titolo del mio intervento è «γενοίμην πέτρος; diventare un sasso». Πέρας e ὕβρις di Eracle.

Eracle, figlio di Zeus e di Alcmena, il più forte dei mortali e uno dei più generosi, è certamente il più grande degli eroi greci. E tuttavia Eracle viene annientato come uno qualsiasi dei figli dell’uomo, viene colpito negli affetti più fondi, nell’onore, nella saggezza. Perché?
Cercheremo di comprendere l’enigma della gloria e della morte di questo eroe, ancora una volta emblema dell’umano.

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