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Sciamani

Antiche sono le nostre radici, la nostra esistenza, i nostri pensieri, la filosofia, la gioia, la salute, la morte.
Le «origini eurasiatiche (altro che cristiane) della nostra civiltà»1 emergono da questa antologia che raccoglie alcune delle più chiare e profonde testimonianze della vita sacra tra i Greci dell’Ellade e della Grande Grecia, tra i Traci, tra gli Sciti Iperborei, poiché «c’è molto Oriente nel nostro Occidente, in particolare greco e magnogreco, e viceversa» (26).
Eric Dodds descrive i filosofi della Repubblica platonica come «una specie nuova di sciamani razionalizzati»2. Angelo Tonelli riprende, conferma ed estende in vari modi questa tesi: fa emergere la dimensione sciamanica di Socrate e di Parmenide; mostra l’approccio olistico della medicina platonica, enunciato nel Carmide (156d-157b), e descrive la struttura corpomentale delle pratiche mediche greche, le quali curavano non il σῶμα o la ψυχή ma l’unità psicosomatica che siamo, «perché l’umano è un intero (hólon), e la cura consiste nel coniugarne la dimensione animale con quella divina, nell’interiorità, facendo di quest’ultima, ammaestrata dalla Sapienza unificante e dalla disciplina spirituale, l’egemone» (470-471); definisce e indaga lo sciamanesimo come una pratica rivolta essenzialmente alla salute dei corpimente individuali e della comunità quale corpo collettivo.

Lo sciamanesimo, infatti, «non è una religione, ma un insieme di pratiche e credenze che gravitano intorno a varie tecniche dell’estasi, cerimonie e rituali che favoriscano il contatto diretto con essenze soprannaturali allo scopo di recare benefici ai singoli e alla comunità di cui lo sciamano e la sciamana fanno parte» (16).
Le potenze alle quali lo sciamanesimo greco attinge, le forze che lo costituiscono, il sacro che lo intesse, hanno i nomi di Apollo, delle Erinni, di Dioniso.

«Duplice è il volto di Apollo: dio solare mediterraneo e iperboreo brumoso signore dei lupi e dei corvi. […] Dio dell’equilibrio che nasce dal distacco sapienziale, e dio della trance vaticinante della Pizia e delle dissociazioni astrali dei suoi sciamani» (444).

Le Erinni/Eumenidi/Μοίρες sono figlie di Κρόνος, come lo è Afrodite. Dal figlio di Οὐρανός e di Γῆ, della Terra e del Cielo, dalla potenza del suo divenire e del suo sperma, si diramano le passioni più fonde: l’eros e la vendetta.

Dioniso, infine, è tutto. È il dio mistico, è il «dio segreto dei Misteri» (292), è medico, è il dio pieno di gioia e che di gioia ricolma chi lo ama, diventando «gioia dei mortali» (Iliade, XIV 325, p. 131), ed è insieme l’Ade (come sostiene Eraclito [22B 15 DK]); Dioniso è soprattutto molteplicità, è colui che guardando dentro lo specchio la propria immagine «si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità» (Proclo in Timeo, 33b; p. 135). Dioniso è la molteplicità degli enti, degli eventi, dei processi, dell’essere e del divenire, della materia e della luce che si frange e si rivela in ciò che è opaco.

Per quanto trasformata e, appunto, molteplice, la filosofia e la sua storia non si spiegano al di fuori e senza queste radici mistiche, sacre e sciamaniche. Perché la filosofia è comprensione del tempo e immersione nel tempo. Come per il Calcante dell’Iliade, il compito di un filosofo è conoscere «ὃς ᾔδη τά τ᾽ ἐόντα τά τ᾽ ἐσσόμενα πρό τ᾽ ἐόντα; ‘le cose che sono e ciò che saranno e che sono state in passato’» (Iliade, I, 70; p. 221).
Tale è la condizione della vita beata. Condizione nel senso del suo stare, condizione nel senso del suo postulato. E a quel punto l’esistenza potrà diventare il sorriso distante e perfetto dei κοῦροι e di Dioniso: «La vita beata, lontana dall’erranza della nascita, che secondo Orfeo si vantano di ottenere anche quanti vengono iniziati a Dioniso e Kore: cessare dal ciclo e respirare dalla sventura» (Proclo in Timeo 42c-d; p. 405). Tale la struttura e la natura del sacro, che non è il religioso, non è lo spirituale, ma è la potenza stessa del cosmo, della materia.


Note

1. Angelo Tonelli (a cura di), Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia anticaFeltrinelli 2021, p. 27. I numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro vengono indicati nel testo, tra parentesi.

2. E.R. Dodds, I Greci e l’Iirrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), trad. di V. Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 248.

Pindaro

Di Pindaro (520-446) von Balthasar scrive che «un solo poeta lirico ha ancora inteso la sua arte unicamente come glorificazione di quanto esiste di regale, di vittorioso e di magnifico nel mondo, dove la gloria totale è il preciso e necessario confluire delle due glorie: della trasfigurante e della trasfigurata. […] Celebrazioni dei vincitori – uomini e fanciulli – ai giochi panellenici in Olimpia, Delfi (Pizia), sull’istmo di Corinto e a Nemea . […]
Il mondo è giustificato: vincitori e poeti insieme uniti ne fanno festa. Gli epinici sono un’opera d’arte totale, venivano cantati da un coro e danzati in termini mimici; le parole senza musica che ci sono rimaste, nonostante la loro elevatissima arte linguistica, non possono più comunicarci l’intero effetto di un tempo»1.
Dalla Beozia alla Sicilia, dal cuore della Grecia a Etna (Catania) e ad Agrigento – la quale è «καλλίστα βροτεᾶν πολίων, bellissima fra le umane città»2 -, dal tempo profondo dell’antica Ellade all’oggi. Pindaro è il canto, Pindaro è Apollo.
I suoi epinici, i suoi inni per la vittoria, mostrano quanto naturale fossero per i Greci il corpo, gli spazi, la relazione e la forza. Le Olimpiadi, le Nemee, le Istmiche, le Pitiche e altre manifestazioni più circoscritte sono i momenti nei quali da ogni città della Grecia partono giovani, sovrani, poeti, musici, per mettere alla prova se stessi sperando di dare lustro alla propria città. E Pindaro prende spunto dal successo dell’uno o dell’altro nella corsa a piedi – 200 metri, mezzofondo, fondo – e in quella con i cavalli, nella lotta – pugilato o pancrazio -, nel salto in lungo, nel lancio del disco e del giavellotto, prende spunto da queste sfide per attingere ogni volta con il canto la storia e il mito greci, inseparabili. 

Sembra proprio che gli dèi vivano con noi, che ogni volta si ricordino di noi mentre noi ci ricordiamo di loro, della loro luce. Soprattutto di quella di Apollo, che «ὅσσα τε χθὼν ἠρινὰ φύλλ᾽ ἀναπέμπει, χὠπόσαι / ἐν θαλάσσᾳ καὶ ποταμοῖς ψάμαθοι / κύμασιν ῥιπαῖς τ᾽ ἀνέμων κλονέονται, χὤ τι μέλλει, χὠπόθεν / ἔσσεται, εὖ καθορᾷς, di ogni cosa sai / lo sbocco sicuro e tutte le vie / e quante foglie fa germinare la terra a primavera e quanti / grani di sabbia in mare e nei fiumi / sono travolti dalle onde e dalle raffiche dei venti / e con certezza riconosce che cosa / sarà e per quale ragione» (IX, 45-49, p. 178), sì, la mente (νόῳ) del Λοξίας davvero «πάντα ἰσάντι, tutto sa» (III, 28, p. 98).
Pindaro sa che dismisura bisogna evitare, perché «χρὴ δὲ κατ᾽ αὐτὸν αἰεὶ παντὸς ὁρᾶν μέτρον, dobbiamo sempre guardare la misura d’ogni cosa in accordo col nostro stato» (II, 34, p. 88).
Pindaro sa che «σθένος ἀελίου χρύσεον, l’aurea energia del sole» (IV, 144, p. 124) riempie di gioia la vita dei mortali, l’esistenza degli «ἐπάμεροι», degli effimeri che possono chiedersi «τί δέ τις; τί δ᾽ οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ / ἄνθρωπος. ἀλλ᾽ ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθῃ, / λαμπρὸν φέγγος ἔπεστιν ἀνδρῶν καὶ μείλιχος αἰών, Cosa siamo? Cosa non siamo? Sogno di un’ombra / l’uomo. Ma quando, dono degli dèi, appare un bagliore, / vivida luce si spande sugli umani, e dolce la vita» (VIII, 95-97, p. 172).
Pindaro sa che se gli effimeri qualche gioia pur vivono, essa però «ἄνευ καμάτου / οὐ φαίνεται, senza pena  /non si mostra» (XII, 28-29, p. 208) poiché «θεὸς εἴη / ἀπήμων κέαρ, solo un nume / può restare immune da rovina» (X, 21-22, p. 190).

Gli umani senza dolore non sono raggiungibili né veleggiando con navi né percorrendo a piedi i cammini e le terre; solo Apollo conosce «ἐς Ὑπερβορέων ἀγῶνα θαυματὰν ὁδόν, la via meravigliosa che porta all’accolta degli Iperborei» (X, 30, p. 190). Noi βροτοί, noi mortali, possiamo e dobbiamo diventare ciò che siamo – «γένοι᾽ οἷος ἐσσὶ μαθών» (II, 72, p. 92) -, dobbiamo e possiamo diventare tempo che va, tempo che pensa, tempo che si raggruma e che si dissolve nella potenza senza fine della materia sacra.
Pindaro ci fa proprio sentire che «gli dèi ci sono»3. 


Note

1. Hans Urs von Balthasar, Nello spazio della metafisica. L’antichità, vol. IV di Gloria. Un’estetica teologica (1965), trad. di G.  Sommavilla, Jaca Book 2017, pp. 87-88.

2. Pindaro, Pitiche (498-446), a cura di Franco Ferrari, Rizzoli 2018, XII, 1, p. 204. Le successive indicazioni bibliografiche appariranno tra parentesi nel corpo del testo: numero della composizione, verso, numero di pagina dell’edizione Rizzoli.

3. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Der Glaube der Hellenen, cit. in Warburg e il pensiero vivente, a cura di Monica Centanni, Ronzani Editore 2022, p. 107.

Pagani e cristiani

Recensione a:
Giancarlo Rinaldi
Pagani e cristiani
La storia di un conflitto (secoli I-IV)
Carocci Editore 2020, pagine 492
in Vita pensata, n. 27, settembre 2022
pagine 85-88

C’è una vicenda, fondamentale per l’Europa, nella quale il detto secondo cui ‘la storia la scrivono i vincitori’ appare con evidenza in tutte le sue pervasive e immense conseguenze. Questa vicenda è quella assai complessa che si racchiude nel termine Cristianesimo.
Studiare la genesi del modo in cui questa religione si è presentata nei secoli e continua a presentarsi oggi significa comprendere sino in fondo l’importanza della metapolitica, dell’egemonia culturale, della scrittura che sopravvive e della scrittura che si inabissa. È noto che migliaia di testi della cultura greca e romana sono andati perduti. Meno noto è che la misura di questa perdita arriva sino a novanta testi su cento, forse meno noto ancora è che gran parte di tale perdita sia stata progettata, voluta e realizzata coscientemente dai gruppi, individui, istituzioni che vanno sotto il nome di ‘Chiesa’, la quale iniziò il IV secolo dell’e.v. «come soggetto perseguitato e lo chiuse come agente persecutore», una persecuzione contro l’intera civiltà antica.

Platone, il pugile

Simone Regazzoni
La palestra di Platone
Filosofia come allenamento
Ponte alle Grazie, Milano 2020
Pagine 204

Aristocle era il nome di un giovane ateniese del V-IV secolo membro di una delle famiglie più potenti della città, dotato di una intelligenza profonda e ramificata, fisicamente assai prestante, tanto da vincere gare di lotta nei giochi istmici (e forse anche olimpici), proprietario di una palestra frequentata da giovani, ragazze, schiavi.
Il nome con il quale quest’uomo è diventato famoso è però Platone. Soprannome che gli venne dato da Aristone, suo maestro di lotta, proprio per la sua complessione fisica, per il suo vigore di atleta. È deviante ed equivoca, dunque, la rappresentazione che di questo filosofo diede Raffaello nel suo pur magnifico affresco della Scuola di Atene. L’uomo raffigurato al centro della composizione è Leonardo da Vinci. Una realistica testimonianza della figura di Platone è invece l’erma del 125 che si trova a Berkeley, la quale rappresenta appunto un atleta con la tipica fascia nei capelli; postura confermata dal bellissimo busto del I secolo che si trova nel Museo archeologico nazionale di Napoli (immagine di apertura).
Quest’uomo non avrebbe dunque mai potuto disprezzare il corpo e fondare una metafisica dualistica. Elementi questi che sono presenti in Plotino e nel neoplatonismo ma non in Platone. Basta leggere i dialoghi per rendersene conto, con l’eccezione del Fedone, che si spiega anche con gli specifici obiettivi di quel testo, con la sua volontà di considerare ancora e sempre vivo il maestro Socrate.
In realtà, «l’attenzione per il corpo da parte di Platone è totale» (p. 94) ed emerge in una molteplicità di espressioni e forme. Tra queste la vicenda biografica di un filosofo che fu appunto atleta e lottatore, forse anche di pancrazio, la lotta cruenta, senza esclusione di colpi. E poi soprattutto una concezione della filosofia come ‘corpo a corpo’, colpi che si danno e colpi che si ricevono, competizione costante e lotta all’ultima verità. L’unità corpomentale è così profonda da rendere «impossibile pensare la filosofia platonica senza pensare la lotta: si pensano e si praticano l’una attraverso l’altra» (52-53); ἄσκησις è un termine greco che è venuto a connotare l’ascesi come rinuncia ma esso significa anche e soprattutto esercizio, allenamento fisico in vista di un risultato, di una vittoria; ascesi significa mettere alla prova se stessi, vuol dire esistenza impegnata nella lotta. La dialettica è questo, è un esercizio continuo del corpomente, un allenamento alla vita, un «dare forma alla vita, è una forma di vita» (84).
Vita che sempre e ovunque, e dunque anche negli umani, è rapporto e confronto quotidiano con il buio che siamo, con l’aggressività che ci pervade e ci difende, con la violenza intrinseca al vivente. La lotta della quale Platone fu un maestro, la lotta fisica, è segnale e forma di questo confronto e di una tensione rivolta a utilizzare la forza senza però distruggere, volta a dare una forma al male. La lotta è, nella sua radice profonda, un confronto non con altri umani ma una relazione con la morte, con il limite ultimo che ci costituisce. «Si tratta di rendere più potente, più intensa, più affermativa la vita in un confronto continuo con la morte» (67). Confronto che pervade anche e soprattutto il Fedone. Quella filosofica è «una vita che fa corpo, fin dentro la morte, con la filosofia» (187).
L’altro filosofo che concepisce l’esistenza sempre come Strebung, sforzo, aspirazione, lotta, corporeità, è Friedrich Nietzsche, che infatti viene citato assai di frequente e con ammirazione da Regazzoni in questo libro originale anche perché chiaramente tendenzioso nell’attribuire a Platone e ai Greci una centralità della ‘palestra’ che mi sembra fortemente contemporanea. In ogni caso, la lotta platonica e la corporeità nietzscheana costituiscono anche direzioni e itinerari volti a comprendere davvero ciò che siamo, a «divenire animale», a esercitare il «pensiero animale», come recitano i titoli dei capitoli 26 e 27 del libro. Lo Übermensch, «l’oltre-umano [va] inteso come divenire animale» (167), quell’«animale che siamo» (19) poiché l’animalità è l’evidenza del corpo e del tempo, della corporeità temporale che ci costituisce.
L’animale è flusso, è differenza, ed è semplicemente corpo. L’animale può davvero dire «Leib bin ich ganz und gar, und Nichts ausserdem; ‘Corpo io sono in tutto e per tutto e nient’altro’» (Also sprach Zarathustra, I parte, “Von den Verächtern des Leibes” – “Dei dispregiatori del corpo”).
L’animalità è a sua volta parte dell’intero, della materia, dell’inorganico di cui la vita organica rappresenta soltanto una ramificazione, «una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara», come afferma ancora una volta Nietzsche  (La gaia scienza, af. 109) e come emerge dalle parole belle e vere di Roger Caillois, ricordate da Regazzoni: «Parlo delle pietre che c’erano prima della vita e che restano dopo di essa sui pianeti raffreddati. Parlo delle pietre  che non devono neanche attendere la morte e che non hanno null’altro da fare che lasciarsi scivolare su di sé la sabbia, la pioggia o la risacca, la tempesta, il tempo» (Pietre, a cura di G. Zuccarino, Graphos 1988, p. 9).
Non stupisce dunque che il pensiero platonico possa essere riletto nella direzione di una metafisica della materia, per la quale le forme ideali sono inseparabili dalle forme dei corpi.

[Devo la lettura di questo libro alla segnalazione del mio allievo Marco Iuliano, che ringrazio]

Incarnazione

I Marmi Torlonia
Collezionare capolavori

Gallerie d’Italia – Milano
A cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri
Sino al 18 settembre 2022

Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v.)

L’autentico desiderio religioso degli umani, quello immediato, quello che precede le teologie monoteiste, il bisogno veramente connaturato all’esserci e che accomuna le civiltà e le culture più diverse nello spazio e nel tempo, è sentire accanto a sé il divino – impresso nel marmo, nel bronzo, nel legno, nei muri, nelle pietre, nello spazio. Ovunque.
È tale esigenza che si vede, si tocca, si compie nelle opere che costituiscono «la maggiore raccolta privata di arte antica al mondo» (Guida alla mostra, p. 1), i marmi raccolti nei secoli dalla famiglia romana dei Torlonia. Nella sua presentazione video Salvatore Settis definisce il Museo Torlonia (fondato nel 1875) «una collezione di collezioni». Lo si vede bene anche in questa oculata e magnifica selezione di 96 delle  620 opere del Museo romano, provenienti da scavi effettuati dai Torlonia nei loro possedimenti e soprattutto dall’acquisizione di altre collezioni, come quelle dello scultore Bartolomeo Cavaceppi (XVIII secolo), di Villa Albani (stesso secolo), della collezione Giustiniani (XVII secolo) e di raccolte ancora più antiche (Cesi, Savelli, Cesarini, Pio da Carpi).
Il risultato è l’incarnazione, sono i corpi degli dèi accanto ai nostri, è la continuità somatica tra l’animalità e il divino, è la terra che dalle proprie argille, sedimentazioni, pietre, plasma i marmi nei quali uno sguardo insieme identico e diverso guarda i futuri attraverso il volto dei divini o gli occhi dei mortali.
La mostra si apre infatti con una galleria ellittica di busti che ripercorre i primi due secoli dell’Impero romano. Si ha l’impressione proprio di incontrarli questi umani ai quali il tempo diede un grande potere e il tempo glielo tolse, anche velocemente. I busti di Adriano (II sec. e.v.) e di Antinoo (XVIII sec.) (qui a destra), per quanto lontani tra di loro nel tempo rimangono sempre inseparabili.
Il ritratto di Antinoo porta il nome di «Dionysos-Osiride». Il grande dio della gioia è presente ovunque in questa mostra, in particolare in due opere: il Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v., immagine a inizio articolo) e il grande Cratere con simposio bacchico, detto Tazza Cesi o Vaso Torlonia (II-I sec. a.e.v., qui a sinistra). In quest’ultimo, tra le altre raffigurazioni, un uomo stringe una donna da dietro prendendo nelle proprie mani i suoi seni e un gruppo di maschi osserva con passione una donna nuda distesa. L’intera opera è la pienezza del desiderio, è il piacere del corpo, sono gli abbracci, il sesso. Un altro figlio di Zeus, Eracle celebra ancora una volta e più volte le proprie fatiche, le sue vittorie.
E poi i gesti gloriosi e insieme rassicuranti di altri dèi, come la Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v., alla fine del testo); l’armoniosa mescolanza tra l’antico e il barocco; l’intensità degli occhi e del volto della Fanciulla da Vulci (I sec. a.e.v., qui a destra), scene di commercio, di culto, di prigionia e di vittoria.
E soprattutto i gesti senza tempo e insieme colmi di tempo che identificano, segnano e caratterizzano le statue degli dèi, il loro καιρός.
Tutto questo divenne per più di mille anni, dal tempo di Costantino al XV secolo, del tutto insignificante. I marmi, le statue, gli dèi disseminavano le strade e i ruderi di Roma senza che nessuno desse loro importanza. Poi gli dèi tornarono e queste pietre sono diventate in ogni senso preziose. La Chiesa romana, padrona di quei luoghi, contribuì, mediante il mecenatismo e la passione di cardinali e papi, alla loro riscoperta, sanando in questo modo un poco le distruzioni che i primi cristiani vincitori attuarono in tutto il Mediterraneo. Tra le tante Chiese ispirate al mito del Nazareno, quella papista è certamente la più culturalmente consapevole, quella più vicina all’antico spirito pagano.
Ripeto dunque quanto scrivevo alcuni anni fa:
«Il paganesimo è vivo, nascosto ma vivo. Esso pulsa nei documenti antichi, negli inni delle civiltà più diverse, nella dimensione esoterica della dottrina cattolica e in quella popolare dei suoi culti: la Grande Madre, il Dio divorato – Dioniso – che risorge ogni volta dalla propria morte, il pantheon dei santi. Il paganesimo vive nei movimenti e negli individui che hanno ancora rispetto per la Natura e in essa percepiscono la perennità del Sacro. […] Pagana è l’identità fra il Tutto e il Nulla. Pagana è l’accoglienza di tutte le religioni, di tutti gli Dèi, di tutte le fedi, quel sentimento irenico che fa dire a Proclo : ‘Voi che reggete il timone della saggezza santa / dèi che accendete il fuoco del grande Ritorno […] Che infine possa vedere io / l’uomo che sono e il dio / immortale in me» (Inno a tutti gli Dèi).
I Marmi Torlonia appaiono e sono veramente sacri, costituiscono la materia nella quale vive il dio, materia che ė il dio.

Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v.)

La Notte

«Eὔφρονες; Benevole»1 e non «Eumenidi» come poi gli alessandrini intitolarono questo testo che dà fondamento alla civiltà mediterranea.
Eὔφρονες, benevole, diventano le tremende e antichissime («παλαιὰς») potenze (v. 727; p. 650). Potenze «νυκτὸς παῖδες ἄπαιδες; figlie senza figli, figlie della Notte», le Erinni (v. 1034; p. 670). A compiere la metamorfosi è stata Atena, la mente, sostenuta e aiutata da Πειθώ, dalla persuasione, dal linguaggio, dalla parola.
Erinni e Atena governeranno insieme e per sempre la città umana. Insieme significa che dentro e dietro ogni splendore della razionalità riposa, gorgoglia e vince la corporeità; dentro e dietro ogni etica sta la vendetta di chi quell’etica è riuscito a imporre a coloro che ha sconfitto; dietro e dentro la Luce di Apollo sta la Notte, Νὺξ μέλαινα, la nera notte della maledizione, della memoria inestinguibile del male ricevuto, del morire che non conosce domani. Dietro ogni esistenza, dietro ogni Dasein, sta la nera notte del nulla, sta il Sein zum Tode:

«ἀνδρὸς δ᾽ ἐπειδὰν αἷμ᾽ ἀνασπάσῃ κόνις
ἅπαξ θανόντος, οὔτις ἔστ᾽ ἀνάστασις.
τούτων ἐπῳδὰς οὐκ ἐποίησεν πατὴρ
οὑμός.
Quando invece la polvere della terra è intrisa del sangue di un uomo, una volta che sia morto non c’è ritorno, non tornerà alla luce. Mio padre, Zeus, non fa incantesimi contro la morte»
(vv. 647-650; p. 644)

Questo afferma Apollo al culmine del conflitto con Erinni. Apollo, il colpevole, colui che si intesta senza esitazione il matricidio compiuto da Oreste. Apollo che condivide Delfi con il fratello sorridente e tremendo, Dioniso. 

«Βρόμιος ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ᾽ ἀμνημονῶ,
ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός,
λαγὼ δίκην Πενθεῖ καταρράψας μόρον.
Bromio è signore del luogo – non lo dimentico: di là il dio mosse con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come una lepre»
(vv. 24-26: pp. 598-600).

Se Eschilo sembra cantare e ratificare la Luce che supera l’orrore, la realtà è che la luce è destinata a convivere con l’orrore. Questo racconta la trilogia di Agamennone, Coefore, Eumenidi. Racconta la vita quotidiana degli umani, il cui dolore è destinato a finire soltanto quando essi stessi finiranno, quando noi tutti spariremo. E Γαῖα, la Terra, respirerà.
La Terra che ha generato la Notte, le Erinni «κόραι, γραῖαι παλαιαὶ παῖδες; le fanciulle decrepite, antiche bambine»  (vv. 68-69; p. 602); «γραίας δαίμονας; dee antichissime» (v. 150; p. 608). La Terra che nel volgersi infinito della materia ha generato il Destino la Μοίρα.
Se «χρόνος καθαιρεῖ πάντα; il tempo passa e purifica ogni cosa» (v. 286: p. 618), tale purificazione – quella destinata certamente a prodursi – è semplicemente la fine dell’umano nella storia, nello spazio, nel mondo.
Fine che Erinni prefigura due volte con gli stessi versi a breve distanza:

«ἐπὶ δὲ τῷ τεθυμένῳ
τόδε μέλος, παρακοπά,
παραφορὰ φρενοδαλής,
ὕμνος ἐξ Ἐρινύων,
δέσμιος φρενῶν, ἀφόρ-
μικτος, αὐονὰ βροτοῖς.
E per la vittima sacrificale
questo canto – delirio
follia frenesia –
inno di Erinni si innalza,
canto che incatena la mente. Canto senza
suono di cetra, che annienta la stirpe mortale»
(vv. 328-333; 341-346; pp. 620-621).

Alla fine, come in Sette contro Tebe (855-860), il paese oscuro che tutti accoglie è il Nulla da cui siamo scaturiti, è la «tenebra priva di luce; δυσήλιον κνέφας» (v. 396; p. 624).
E sarà, finalmente, la pace2.


Note

1. Eschilo, Eumenidi (Εὐμενίδες, 459 a.e.v.), verso v. 992; p. 668,  in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

2. Con questo testo si conclude l’analisi delle tragedie di Eschilo da me tentata in questo sito. La versione completa è stata pubblicata nel volume 5 (2022) della rivista Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo. Il saggio si può scaricare e leggere anche da qui: Eschilo, il fondamento.

Lentini / Λεοντῖνοι

 

 

[Foto-riproduzione della p. 30 de Il Museo Archeologico di Lentini, a cura di Maria Musumeci, Emanuele Romeo Editore, Siracusa 2004]

Così Polibio descrive Λεοντῖνοι, posta nella Piana di Catania ma già sulle propaggini e alture degli Iblei. Città dal destino oscillante tra prosperità e miseria, tra forza politica e sottomissione, tanto che – dopo le glorie elleniche – Cicerone «narra come ai tempi di Verre la città fosse ormai diventata un povero borgo e le sue terre venissero coltivate dai Centuripini» (Ivi, p. 28). E oggi infatti Lentini si frammenta tra la ricchezza del Parco Archeologico a ridosso della città – con le sue mura potenti, con i santuari pagani, le necropoli e le chiese cristiane – e un tessuto urbano in buona parte degradato; tra i palazzi religiosi e civili di Piazza Duomo e Piazza Umberto I (un unico spazio diviso da una strada) e viali, vicoli e stradone caratterizzate da un malinconico anonimato.
Su una delle alture della città si trova il Museo Archeologico, da poco restaurato e i cui tesori sono stati riallestiti ponendoli in un contesto che ne fa comprendere genesi e significato. Si trova un po’ di tutto in questo Museo, si trovano testimonianze che vanno dalla Preistoria al XVI secolo, con al centro alcuni magnifici vasi, diverse collezioni private, assai belle terrecotte architettoniche.
Il frammento di vaso che si vede in apertura descrive Atena che esce adulta dalla testa del padre, come la filosofia è nata adulta con le parole di Anassimandro. Parole che ho avuto modo di ricordare durante un intervento dedicato a Eracle, il cui mito è stato analizzato nella varietà dei suoi significati dal fecondo convegno che MitoMania ha organizzato a Lentini agli inizi di giugno 2022.

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