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Nel cosmo perfetto

Emil M. Cioran
La caduta nel tempo
(La chute dans le temps, Gallimard 1964)
Trad. di Tea Turolla
Adelphi, 1995
Pagine 131

Ogni filosofia che voglia intendere l’intero e non una sua parte perviene prima o poi alla comprensione o almeno all’intuizione di una differenza ontologica, perviene alla necessità di attribuire agli enti la loro giusta misura senza rendere nessuno di loro un elemento dominante nel cosmo perfetto e infinito.
La fecondità teoretica, e non soltanto esistenziale e stilistica, di molte pagine di Emil Cioran è dovuta proprio a questa differenza ontologica per la quale «la salvezza viene dall’essere, non dagli esseri» (p. 19). Coerente con questo bisogno di antropodecentrismo – che in altre pagine e tesi viene in realtà trascurato o negato nell’eccessivo peso che Cioran attribuisce alla sofferenza dell’accidente umano – lo scrittore individua ed elogia con grande chiarezza e con la consueta efficacia la differenza che il non umano rappresenta rispetto ai limiti della nostra specie.

Differenza rispetto all’energia e alla forza degli altri animali, che sono più in armonia con il mondo al quale appartengono, mentre l’umano ha bisogno di un continuo esercizio di ingegno per sopravvivere. Non Homo sapiens, dunque, «bensì il leone o la tigre avrebbero dovuto occupare il posto che egli detiene nella scala delle creature. Ma non sono mai i forti, sono i deboli che mirano al potere e lo raggiungono, per l’effetto combinato dell’astuzia e del delirio. Una belva, non provando mai il bisogno di accrescere la propria forza, che è reale, non si abbassa all’utensile» (16). Indicazione interessante anche per una filosofia della tecnica.
Differenza rispetto alla calma perfezione dei vegetali, nei quali Cioran individua a ragione «qualcosa di sacro», tanto che «colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano» (127).
Differenza rispetto all’inanimato e all’inorganico poiché «la vita è una sollevazione dentro l’inorganico, uno slancio tragico dell’inerte: la vita è la materia animata e, bisogna pur dirlo, rovinata dal dolore. A tanta agitazione, a tanto dinamismo e a tanto affanno, non si sfugge se non aspirando al riposo dell’inorganico, alla pace in seno agli elementi» (85). Una pace che è ben chiara a  Sāriputta, discepolo del Buddha, convinto che il Nirvāna sia felicità, «e quando gli si obietta che non ci può essere felicità laddove non vi sono sensazioni, Sāriputta risponde: ‘La felicità sta appunto nel fatto che in essa non v’è alcuna sensazione’» (56). Cioran ne deduce che «il paradiso è assenza dell’uomo» (79), e io aggiungo assenza di ogni altro animale, di ogni altro dispositivo in grado di provare dolore ed esserne consapevole.
Differenza infine rispetto agli enti né animali né vegetali, gli enti che vivono «il sonno beato degli oggetti» (11).
La differenza ontologica diventa così differenza anche etica e soprattutto differenza esistenziale tra ciò che appare già segnato dalla consapevolezza della morte e ciò che emerge dal tempo come sua oggettiva incarnazione che durerà quanto la sua struttura chimico-fisica gli consentirà di durare ma non potrà esperire nessuna inquietudine in relazione a tale più o meno lunga durata. La differenza si pone tra gli enti i quali non possono rimettersi «dal male di nascere, piaga capitale se mai ve ne furono» e gli altri, tanto che «è con la speranza di guarirne un giorno che accettiamo la vita e sopportiamo le sue prove» (40).

Tra queste prove ce ne sono molte nelle quali l’umano eccelle, che si inventa nella ingegnosa creazione dei mali che è capace di moltiplicare verso le direzioni più varie. Un esempio è la recente tendenza collettiva (tramite sostanze definite ‘vaccini’ ma che vaccini propriamente non sono) a morire «dei nostri rimedi» invece che «delle nostre malattie» (34) e anche a imporre questa stoltezza a quanti se ne vorrebbero salvaguardare. Cosa che accade anche perché «l’intolleranza è propria degli spiriti turbati, la cui fede si riduce a un supplizio più o meno voluto che essi desidererebbero fosse generale, istituzionale» (30), vale a dire che molti cittadini (italiani e non solo) intuendo il pericolo che vaccinarsi ha rappresentato hanno preteso che questo rischio – liberamente da loro assunto – fosse imposto a tutti gli altri cittadini mediante misure dispotiche, violente, discriminanti. Come si vede, non c’è stata alcuna «generosità», «senso civico», «attenzione ai fragili» ma c’è stato un misto di sentimenti negativi quali l’aggressività verso il non omologato, l’invidia, il conformismo, il sadismo.

Rispetto a tali dismisure contemporanee, Cioran vede negli ‘antichi’, vale a dire nei Greci, un’altra differenza. Gli antichi sono infatti «sotto ogni aspetto più sani e più equilibrati di noi» (35); sono consapevoli dei limiti umani dati anche e specialmente dal nostro essere parte di un intero, del cosmo, dal fatto «che i nostri destini [sono] scritti negli astri, che non vi [sia] traccia di improvvisazione o di casualità nelle nostre gioie o nelle nostre sventure» (129).
Anche per cogliere ancora tanta sapienza «sempre a loro torniamo quando si tratta dell’arte di vivere, della quale duemila anni di sovranatura e di carità convulsa ci hanno fatto perdere il segreto. Ritorniamo a loro, alla loro ponderazione e alla loro amabilità, non appena accenni a scemare quella frenesia che il cristianesimo ci ha inculcato; la curiosità che essi destano in noi corrisponde a una diminuzione della nostra febbre, a un arretramento verso la salute» (38), verso la große Gesundheit, la grande salute della quale parla Nietzsche, la salute che rifiuta il compiacimento cristiano nel dolore, il quale «sarebbe parso un’aberrazione agli Antichi, che non ammettevano voluttà superiore a quella di non soffrire. […] Avvezzi a un Salvatore stravolto, stremato, contratto nella smorfia del dolore, non siamo adatti ad apprezzare la disinvoltura degli dèi antichi o l’inestinguibile sorriso di un Buddha immerso in una beatitudine vegetale» (93-94).

La caduta gnostica nel tempo è dunque anche la caduta nella «tristezza», che costituisce il «principale ostacolo al nostro equilibrio» (62). Essere come gli antichi, diventare come l’inorganico, come la roccia, le stelle, le acque. Questo è l’invito esistenziale che la differenza ontologica di Cioran può offrire a chi abbia finalmente dismesso un primato dell’umano nell’essere che è formula ridicola anche solo a scriverla.

Warburg

L’«antico» come dispositivo psichico collettivo
il manifesto
5 gennaio 2023
pagina 11

Il contributo di Aby Warburg alla cultura contemporanea e alla comprensione dell’antico consiste prima di tutto nell’avere infranto ogni barriera accademica e ogni confine disciplinare, aprendo il sapere a sentieri intricati e interrotti ma fecondi, capaci di condurre nel cuore della grecità e nel nucleo del presente attraverso non soltanto libri, analisi, saggi e conferenze ma con l’invenzione di una Biblioteca dalla struttura e dalle intenzioni completamente inedite, una vera e propria «macchina per studiare».
Forse per ragioni di spazio l’articolo uscito sul manifesto manca delle poche righe conclusive, che trascrivo qui:
E in questo modo [Warburg] ha reso plurali il Classico, il Rinascimento, i Greci, gli europei, ha moltiplicato il dionisiaco nei saperi e nel tempo. Warburg è diventato ciò che studiava. E questo rappresenta il culmine della conoscenza.

Gloria

Hans Urs Von Balthasar
Gloria. Un’estetica teologica
Volume IV: Nello spazio della metafisica. L’antichità
(Herrlichkeit. Im Raum der Metaphysik. I Altertum, 1965)
Trad. di Guido Sommavilla
Jaca Book, 2017
Pagine 379

La Herrlichkeit, la gloria, «non si può definire» (p. 19). Così comincia il percorso di Hans Urs von Balthasar nello spazio della metafisica antica, da Omero a Tommaso d’Aquino. Eppure lungo l’itinerario le definizioni della gloria si moltiplicano, partendo sempre e pervenendo ogni volta ai trascendentali, vale a dire alle proprietà dell’essere che lo coinvolgono e lo definiscono nella sua totalità, essendo sempre in reciproca relazione, non delimitandosi a vicenda ma costituendo l’uno con l’altro l’universale che traspare in ogni ente, evento, processo e proprietà particolare, dandogli significato, esistenza e luce. Sono quattro gli universali così intesi dalla Scolastica sul fondamento della filosofia greca: l’uno, il vero, il bene, il bello.

Prima che nel XVIII secolo, con Baumgarten e Kant, l’estetica venisse ricondotta e ridotta «a una scienza  regionalmente delimitata, essa era – vista nel complesso della tradizione – un aspetto della metafisica in quanto scienza dell’essere dell’ente» (26), il quale a sua volta rinvia all’assoluto, che per il pensiero cristiano è Dio. Il tentativo del teologo svizzero è difendere dunque il bello come sostanza ed espressione del divino cristiano filosoficamente inteso: «Come ultimo trascendentale il bello custodisce e sigilla gli altri: nulla di vero e di buono alla lunga senza la graziosa luce di quello che viene donato senza uno scopo» (42).
A questo fine, l’indagine assume un andamento che attraversa lo spazio storico  – come detto, dai Greci al culmine della Scolastica – poiché soltanto se implementato in un particolare l’universale è reale, e attraversa lo spazio metafisico, poiché soltanto se hanno le loro radici nell’essere gli enti ed eventi particolari possiedono senso e sostanza.
Il ‘Dio’ di von Balthasar è dunque una forma prima di tutto estetica, è un’esperienza artistica dalla quale soltanto può irradiarsi la gloria. Il percorso è lo stesso di ogni avvertita e colta teologia cristiana: un consapevole, dotto ma anche disperato tentativo di ancorarsi ai Greci, vedendo in loro una continuità germinale e fondante con il cristianesimo. A questo scopo l’autore respinge ogni volontà di voler ‘depurare’ la fede cristiana dalla filosofia e dal mito, ogni pretesa di « voler essere più biblici della bibbia e più cristiani di Cristo» (224), poiché, in questo modo, del cristianesimo non rimarrebbe quasi nulla, soltanto cascami settari, fanatici, semplicemente e soltanto filantropici. Una domanda posta a proposito di Giovanni Eriugena vale per tutto il libro, vale per l’intera sua estetica teologica: «Tutto questo è biblicamente tollerabile, oppure qui l’antica forma filosofica di pensiero ha trionfato definitivamente sui contenuti biblici?» (316). Interrogativo ammirevole nella sua sincera chiarezza, tanto più che von Balthasar ammette che «visto nel complesso il cristianesimo ha pensato se stesso soprattutto con categorie straniere» (291), vale a dire con le categorie dei Greci.

Per comprendere la portata e il fallimento del tentativo, ricordiamo che questo teologo – nato nel 1905 e morto nel 1988, due giorni prima di ricevere la porpora cardinalizia – è stato uno degli uomini più colti del Novecento, che ha ben compreso come il cristianesimo possa continuare a vivere soltanto in un dialogo reale con il proprio tempo, basato però non sulla sua trasformazione in un’agenzia filantropica (cosa che appunto lo sta facendo morire) ma continuando il dialogo  con la cultura greca e romana, che per il cristianesimo è costitutivo e fondante. Egli costruisce però tale dialogo da gesuita (fu membro dell’Ordine sino al 1956), dando sempre l’impressione che sia il cristianesimo a gettare luce sulla filosofia, quando è accaduto e continua ad accadere esattamente il contrario. Leggendo questa e altre sue opere appare infatti evidente che la persona del Nazareno non c’entra nulla con la teologia cristiana.
Il fondamentale tentativo di ancorare la fede cristiana nel linguaggio teoretico e mitologico dei Greci e dei Romani (soprattutto Virgilio e il neoplatonismo) spiega anche la lettura tendenzialmente monoteistica, e dunque arbitraria, che von Balthasar attua di Omero: «In nessun poema della letteratura mondiale Dio viene pensato in modo così incessante ad ogni situazione della vita» (52, il corsivo è mio). E tuttavia il teologo è capace di leggere Omero con una profondità, finezza ed empatia straordinarie. Al poeta greco «fu accordato […] il dono della bellezza per tempi illimitati» (69); «con Omero fu deposta nella culla dell’occidente» una «‘inconcepibile grazia e bellezza’» (75). Questa capacità di sentire i Greci – Omero ma anche i tragici, i lirici, i filosofi- conduce von Balthasar ad ammettere che il Prometeo di Eschilo si rivolge alle potenze della materia, ben oltre i nomi degli dèi antropomorfici «rivolgendosi non agli dèi che gli hanno inflitto il tormento, ma alle potenze cosmiche e più antiche (a quelle precisamente che per Hölderlin rappresentano il fondo primordiale di ogni divino poi formato e definito): al santo Etere, al Vento spirante, alle Sorgenti e all’ondoso Mare, alla Terra Madre di tutti i viventi e al Sole che illumina ogni cosa» (109-110, il riferimento è a Prom. Vv. 88-91), ad ammettere quindi che il ‘Dio’ greco è il cosmo, è la materiatempo.

L’ammissione diventa piena e teoretica nelle indagini su Platone, Aristotele, i neoplatonici, per i quali tutti il dio, la perfezione, la bellezza, la gloria è costituita dal cosmo, dalla materia infinita e perfetta dei cieli. Andando quindi ben al di là dell’effimero umano, della sua patetica presunzione di stare al centro quando invece l’umano è semplice periferia.
In Plotino la vista del cielo conferma la divinità del mondo, così come «Aristotele vede nell’ordine celeste immediatamente rivelarsi il divino» (206) e prima ancora l’Epinomide platonico pone al centro dell’essere la «gloria dell’ordine astrale» (196). Tutto il Timeo, poi, costituisce la bella, significativa e ultima soluzione platonica al male dell’umanità e della vita: andare μετά, oltre, e guardare gli astri, il cosmo, il loro essere immuni da ogni imperfezione, lamento e dolore. Per lo sguardo di Platone «l’anima singola, per restaurare equilibri (ἰσορρόπο) perturbati tra se stessa e il corpo o in se stessa, non ha bisogno che di guardare al cosmo, che è sempre in perfetto divino equilibrio, per avere un modello da imitare» (194).
Anche se il cristiano von Balthasar vede nella «grande vendetta come la compiono Ecuba, Medea e alla fine un’altra volta Elettra ed Oreste […] suoni di paganesimo selvaggio» (132), il teologo von Balthasar sa bene che anche questa vendetta si radica nella potenza teoretica dei Greci ed è anch’essa espressione del carisma proprio del maggiore tra i filosofi cristiani dopo Agostino. Tommaso d’Aquino scrive infatti (nel De Malo, 4, 2 obj 17) che la «maxima pulchritudo humanae naturae consistit in splendore scientiae» (361).
Su tale splendore aleggia ovunque la potenza del tempo «che copre tutto ciò che è svelato e svela tutto ciò che è nascosto» (118), tempo la cui «ardente pienezza mitica, la qualità della gloria, può essere paragonata soltanto con la qualità sacramentale che la assume e la supera» (102). Su tale splendore si innesta ἀλήθεια, la quale «significa appunto lo stesso che: realtà come essa è» (159). Su tale splendore domina la gloria del divenire, la materia-luce che per i teologi di Chartres è «tra le cose del mondo infraspirituale, la cosa massimamente simile allo spirito, anzi a Dio» (334), la materialuce che è Dio.

Essere pagani

Il paganesimo «renaït éternellement à lui-même»1.
Lo fa dove meno lo si attende e nelle forme più diverse poiché «à chacune de leurs renaissances, les dieux se métamorphosent» (Dominique Pradelle, 80). Anche per questo una formula più corretta è ‘paganesimi’, al plurale. Questa ancestrale e antica modalità di intendere la vita e il mondo è infatti per sua essenza plurale, aperta, cangiante, rispettosa della varietà delle forme. Ciò che accomuna i paganesimi è un radicale immanentismo per il quale il dio, i divini, non abitano altrove, non sono il totalmente altro ma costituiscono la manifestazione, il senso, il timore e la gioia d’esserci. Ciò che li accomuna è, in una parola, il sacro: «Dans la philosophie païenne, c’est le divine qui est englobé par le sacré, ce sont les dieux qui procèdent du monde (de l’ ‘être’) et non l’inverse» (Guillaume Faye, 52). È un sentimento del sacro che rifiuta i dualismi, a partire dal dualismo che fonda, esprime e dà identità al giudeo-cristianesimo, «la distinction de l’être créé (le monde) et de l’être incréé (Dieu)» (Alain de Benoist, 13).
In quanto ‘creato’, il mondo è non soltanto diverso dal ‘creatore’ ma gli è naturalmente del tutto inferiore: l’Origine è necessaria, immutabile, eterna; l’originato è contingente, mutevole, finito. L’angoscia che un simile dualismo produce negli umani, che sanno di essere parte del creato e quindi mortali, induce a collocare l’unico luogo e strumento di possibile contatto con l’Originario non nella potenza della materia ma nello spazio dell’interiorità, nella psiche.
In questo modo una delle tante manifestazioni del mondo, il corpomente umano trasformato in anima e quindi ulteriormente impoverito, assume una rilevanza e una centralità del tutto fantasiose, origine ovviamente di ogni pretesa e violenza antropocentrica sul mondo, origine dunque della distruzione. L’obiettivo di tale antropocentrismo psicologico ed esistenziale è la salvezza individuale. Idea, questa, del tutto assente nei paganesimi.
Aver trasformato l’altrove del divino e il qui dell’anima nel luogo della salvezza ha privato di senso, dignità e sacralità il mondo. Nelle sue origini indoeuropee, la parola «dio» si riferisce al cielo, alla grandiosa potenza che gli umani sentivano sovrastare e tessere le loro notti immense e splendenti. Dunque divino è il cielo, è la notte, sono gli astri, è la materia. La vittoria dei monoteismi biblici ha dissolto e infine cancellato questo profondo significato del divino, sostituendolo con delle versioni più o meno esagerate della psiche umana. Dio è diventato una sorta di superuomo (‘il Padre Eterno’) che c’è da sempre, che non muore mai, che sa fare tutto ma che condivide ira, desiderio, gelosie e tutte le altre caratteristiche che il libro ebraico-cristiano attribuisce a Jahvé. Si comprende che i veri atei sono i cristiani, che hanno tolto ogni sacralità al mondo.

Un altro elemento che rende incommensurabili politeismi e monoteismi è il fatto che nei paganesimi la moralità non ha come condizione una qualche regola dettata dal dio – il Decalogo o altro – ma nasce dal rispetto verso la natura che è parte fondamentale dei paganesimi. Una morale prescrittiva, leguleia, minacciosa, passiva ed eteronoma come quella praticata da ebrei, cristiani e islamici, è del tutto assente nell’orizzonte politeistico. I comportamenti dei pagani rispettano o non rispettano le cose in relazione al proprio carattere ed esperienza e non in nome di ordini provenienti dal ‘totalmente altro’.
Uno degli effetti più tragici è che mentre il realismo etico antico sa che l’effetto della benevolenza e della dedizione si stempera e dissolve con la distanza e l’estraneità – mettendo dunque al centro delle relazioni l’amicizia -, il velleitarismo morale cristiano impone invece l’amore universale, il cui effetto è disastroso poiché l’impossibilità di un simile ‘amore’ verso tutti – per tacere di quello verso i ‘nemici’ –  induce a giustificarsi continuamente con se stessi e a inventare tutta una casistica comportamentale che di fatto dissolve ogni sincerità e ogni possibilità di relazioni corrette tra le persone.

Essere pagani nel XXI secolo non ha nulla a che vedere con miti regressivi, con culti New Age di vario tipo, con esoterismi e occultismi privi di senso e francamente bizzarri, con l’adesione a ‘chiese pagane’ che con le loro gerarchie e testi sacri rappresentano la brutta copia di quelle cristiane, pretendendo adesioni dottrinararie del tutto aliene dai paganesimi. Essere pagani oggi significa, come sempre, percorrere «une voie sévère, à la fois poétique et spartiate, une colonne vertebrale et un souffle – le pneuma des anciens Grecs» (Christopher Gérard, 103).
Per comprendere e vivere tutto questo è assai feconda la distinzione formulata da Michel Onfray, filosofo materialista e anarchico, tra paganesimi e politeismi. I primi costituiscono delle religioni dell’immanenza «en vertu de laquelle l’homme n’est pas séparé de la nature ou du cosmos, mais partie prenante au même titre qu’un ruisseau ou qu’une forêt»; il politeismo poi «associe ces forces à des divinités. Le paganisme est une sagesse philosophique ; le polythéism, le début de la sagesse religieuse» (66).
Essere pagani significa cercare di vivere con misura e con gioia, consapevoli dei limiti dell’esistere e pronti però a coglierne le tante possibilità.


Nota
1. Pascal Eysseric, in Sagesses païennes «Éléments pour la civilisation européenne», numero hors-série, n. 1 – Juin 2022, p. 3. Indicherò tra parentesi nel testo i successivi riferimenti agli autori e ai numeri di pagina della rivista.

Angeli

Anatole France
La rivolta degli angeli
(La révolte des anges, 1914)
Trad. di Alessandra Baldasseroni
Lindau, Torino 2017
Pagine 301

La letteratura che conduce al fondo del reale, che saggia passo passo l’enigma delle vite e degli eventi, è sempre intessuta di filosofia, più esattamente è filosofia espressa con altro linguaggio, privo del rigore della forma ma intriso dell’evidenza degli eventi. Nel caso di Anatole France, a dare forza teoretica al suo narrare è la teologia. Così nel gioiello che ha per titolo Le procurateur de Judée (1902) e così nel suo ultimo magnifico romanzo, La révolte des anges.
Una teologia unita sempre, in France, alla passione politica. Lo sfondo della Terza Repubblica francese è infatti pervasivo sino a essere incombente ma l’autore ha sempre la capacità di trasformare ben precise vicende e contesti storici in una filosofia della storia, come quella che segna i capitoli 18-21 (dei 35 che compongono il libro) e che è esplicitamente volta a demolire la filosofia cristiana della storia elaborata da Bossuet. In questi capitoli, infatti, la storia del cristianesimo appare per quello che in gran parte è stata: storia di un successo criminale, nato nei deserti della Palestina con le tribù ebraiche, diventato ecumene per opera di ‘apostoli della tristezza’ come i monaci e i padri della chiesa, i quali «bruciavano i libri, rovesciavano i templi, incendiavano le città, estendevano i loro danni fin nei deserti» (p. 170), come confermano, tra gli altri, i recenti libri di Catherine Nixey e Giancarlo Rinaldi.
Il cristianesimo stava per tramontare nel fasto artistico e politico della Chiesa rinascimentale quando arrivarono due tristi figure a restituirgli per un poco forza e fanatismo: Lutero e Calvino, i quali vengono da France descritti con accenti nietzscheani: 

Ma, o disgrazia, o cattiva sorte, funesto avvenimento comunque, ecco che un monaco tedesco, gonfio di birra e di teologia, si drizza contro questo paganesimo rinascente, lo minaccia, lo fulmina, prevale da solo contro i princìpi della Chiesa, e, sollevando i popoli, li invita a una riforma religiosa che salva ciò che stava per essere distrutto […] .
Dopo questo grosso incappucciato, bevitore e attaccabrighe, venne il lungo e magro dottore di Ginevra. Imbevuto dello spirito dell’antico Yahweh, che si sforzava di riportare il mondo ai tempi abominevoli di Giosuè e dei Giudici d’Israele, maniaco freddamente furioso, eretico bruciatore di eretici, il più feroce nemico delle Grazie (181).

Nel suo discorso sulla storia universale France perviene ai primi anni del Novecento, a quel periodo di quiete apparente che preparò il macello della Prima Guerra mondiale e il suicidio dell’Europa. Descrivendo la Terza Repubblica, lo scrittore formula l’esatta diagnosi «che sotto il nome di repubblica, questo paese era costituito in plutocrazia, e che, sotto le apparenze di un governo democratico, l’alta finanza vi esercitava un potere sovrano, senza sorveglianza né controllo» (144).
A pronunciare queste parole è Sophar, uno degli angeli ribelli che popolano – non riconosciuti – la Terra. Da poco si è unito a loro Arcade, angelo custode dell’indolente e conformista rampollo di una ricca famiglia parigina, Maurice d’Esparvieu. Frequentando la magnifica biblioteca di famiglia – dove sono conservate bibbie, talmud, l’intera produzione dei padri della chiesa – l’angelo si è reso conto che il suo Signore è ben diverso da come ama presentarsi. Arcade, il cui nome celeste è Abdel, afferma infatti con chiarezza che il Dio degli ebrei e dei cristiani non ha

creato il mondo, tutt’al più ne ha organizzato una piccola parte e tutto quello che egli ha toccato porta l’impronta del suo spirito imprevidente e brutale. Non credo che egli sia né eterno, né infinito, perché è assurdo concepire un essere che non è finito nello spazio e nel tempo. Lo credo limitato, e anche molto limitato. Non credo più che egli sia il Dio unico; per moltissimo tempo, non l’ha creduto nemmeno lui: dapprima fu politeista. Più tardi il suo orgoglio  e le adulazioni dei suoi adoratori lo resero monoteista. Ha poco séguito nelle sue idee; è meno potente di quel che si crede. E per dirla tutta, piuttosto che un dio è un demiurgo ignorante e vano. Quelli che, come me, conoscono la sua vera natura lo chiamano Yaldabaoth (86).

È quest’ultimo, Yaldabaoth, il vero protagonista del romanzo, il funesto demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele» (99), che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» (216) ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (129).
Proprio perché il demiurgo è tanto ignorante quanto presuntuoso, opporsi a questo orrore significa praticare la conoscenza: «Non si regna sulla natura, non si acquista l’impero dell’Universo, non si diventa Dio che attraverso la conoscenza. […] Non sarà il coraggio cieco (nessuno in questo giorno ha avuto più coraggio di voi) che ci darà il potere dei cieli: è lo studio e la riflessione» (155-156). Parole, queste, pronunciate da Lucifero, il quale viene da France identificato – e mi sembra una notevole intuizione – con Dioniso, « il più grande degli Dèi» (268), che il suo Sileno attende quando tornerà «seguito dai suoi Fauni e dalle sue Baccanti a insegnare di nuovo alla terra la gioia e la bellezza, e a riportare l’età dell’oro. Camminerò raggiante di gioia dietro al suo carro» (189).
Alla cupezza, alla violenza, all’ignoranza di Yahweh, il quale «non era conosciuto nel mondo, che egli pretende di aver creato, che da alcune tribù miserabili della Siria, da lungo tempo feroci come lui, e perpetuamente condotte da una schiavitù all’altra» (167), questo romanzo oppone naturalmente la luce del Sacro incarnata dagli Dèi della Grecia.
Se, come afferma Arcade, «i Greci non s’ingannavano mai. I moderni sbagliano sempre» (91), è perché tra quelle genti la saggezza e la bellezza pervennero «a un punto che nessun popolo aveva raggiunto prima di loro, e al quale nessun popolo si è, da allora, avvicinato. Da dove viene, Arcade, questo prodigio unico sulla terra? Perché il sacro suolo della Ionia e dell’Attica ha nutrito questo fiore incomparabile? Perché là non vi furono mai né sacerdozio, né dogma, né rivelazione, e i Greci non conobbero mai il Dio geloso» (164).

Da questa compiuta consapevolezza gnostica derivano numerose conseguenze, che traspaiono con chiarezza anche in un’opera narrativa e non teoretica come questa. Tra tali fecondi risultati ricordo solo il superamento dell’etica, il riscatto della materia, l’aristocrazia della mente.
«La natura non ha principi. Essa non ci fornisce nessuna ragione di credere che la vita umana sia rispettabile. La natura, indifferente, non fa alcuna distinzione fra il bene e il male» (228-229). Natura composta di una materia che è soprattutto luce ed energia intercambiabili, come sostiene anche la fisica contemporanea, e dalla quale deriva la gioia del flauto di Sileno (diventato l’angelo Nectaire), il quale «cantava la natura, dava all’insetto e al filo d’erba la sua parte di potenza e di amore, e consigliava la gioia e la libertà» (295). Chi comprende tutto questo, i suoi presupposti e le sue implicanze, è veramente aristocratico poiché «l’indipendenza del pensiero è la più fiera delle aristocrazie» (187). Un’affermazione anch’essa interamente gnostica.
Tratto del tutto originale di questo libro è che tale densità e profondità di temi storici, filosofici e teologici è affrontata in modalità lievissime. Non soltanto perché di un romanzo si tratta ma anche e soprattutto perché è un romanzo intriso di ironia, di scetticismo, di disincanto. Ironia che si mostra anche nella chiusa di ciascun capitolo, apparentemente incongrua e banale rispetto a ciò che nei capitoli si racconta e anche per questo generatrice di straniamento, interrogativi, sorrisi.
Il culmine di tutti questi elementi, diversi e arricchenti, è raggiunto nell’ultimo capitolo «dove si svolge il sogno sublime di Satana» nella notte che precede l’inizio della nuova rivolta alla quale gli angeli gnostici invitano il loro antico capo. Lucifero fa un sogno che è un incubo. Il sogno della sua presa del potere, del precipitare il vecchio demiurgo nell’inferno ma poi diventare come lui. Da tale incubo «Satana si svegliò bagnato di sudore glaciale» (296) ma ormai lucido nella sua decisione. Il testo si chiude infatti con parole di grande saggezza e di intima bellezza, parole che spingono a combattere la tenebra prima di tutto non negli enti, negli eventi, nei processi dolorosi della storia ma dentro la mente che è pervenuta a intuire le loro ragioni.

Ora, grazie a noi, il vecchio Dio è spodestato del suo impero terrestre e tutto ciò che pensa in questo globo lo sdegna e lo ignora. Ma cosa importa che gli uomini non siano più sottomessi a Yaldabaoth se lo spirito di Yaldabaoth è ancora in essi, se essi sono, a sua somiglianza, gelosi, violenti, litigiosi, bramosi, nemici delle arti e della bellezza, che importa che essi abbiano respinto il Demiurgo feroce, se non ascoltano affatto i demoni amici che insegnano ogni verità, Dioniso, Apollo e le Muse? In quanto a noi, spiriti celesti, demoni sublimi, abbiamo sconfitto Yaldabaoth, il nostro tiranno, se avremo distrutto in noi l’ignoranza e la paura. […] È in noi, in noi soltanto, che dobbiamo attaccare e distruggere Yaldabaoth (297).

Un invito che è condizione per una vita serena.

 

Parmenide

Un parmenide epistemologo?
in Vita pensata
n. 27, settembre 2022
pagine 73-75

Per Giovanni Cerri il poema parmenideo non va letto – come è stato fatto di solito – in una chiave metafisica e dialettica ma in una prospettiva rigorosamente scientifica sia dal punto di vista del metodo sia dei contenuti. Scientifica proprio nel senso galileiano e contemporaneo. A sostegno di una simile ipotesi ci sono certamente molte importanti testimonianze. Parmenide è infatti un filosofo dell’intero, dai presupposti metafisici assai forti e consequenziale in ogni sua tesi e ragionamento. Ma, a parte ogni altra considerazione, il suo pensare non segue le «sensate esperienze e matematiche dimostrazioni». Farne quindi un collega di Galilei, di Einstein o di Planck significa non rendere a Parmenide l’onore filosofico che merita.
Condivisibile è invece la tesi che la metafisica e la cosmologia di Parmenide sono di impronta fortemente materialistica, chiarendo che il materialismo di Parmenide è lo stesso di Eraclito e di Empedocle; viene dunque prima di ogni dualismo tra spirito e materia o altre analoghe opposizioni.
Posto tra ciò che noi oggi chiamiamo ‘scienza’ e ciò che noi oggi chiamiamo ‘profezia’, Parmenide è uno scienziato ed è anche uno degli «sciamani razionalizzati» dei quali parla Eric R. Dodds. La forza del suo pensare abita anche in questa identità molteplice.

Sciamani

Antiche sono le nostre radici, la nostra esistenza, i nostri pensieri, la filosofia, la gioia, la salute, la morte.
Le «origini eurasiatiche (altro che cristiane) della nostra civiltà»1 emergono da questa antologia che raccoglie alcune delle più chiare e profonde testimonianze della vita sacra tra i Greci dell’Ellade e della Grande Grecia, tra i Traci, tra gli Sciti Iperborei, poiché «c’è molto Oriente nel nostro Occidente, in particolare greco e magnogreco, e viceversa» (26).
Eric Dodds descrive i filosofi della Repubblica platonica come «una specie nuova di sciamani razionalizzati»2. Angelo Tonelli riprende, conferma ed estende in vari modi questa tesi: fa emergere la dimensione sciamanica di Socrate e di Parmenide; mostra l’approccio olistico della medicina platonica, enunciato nel Carmide (156d-157b), e descrive la struttura corpomentale delle pratiche mediche greche, le quali curavano non il σῶμα o la ψυχή ma l’unità psicosomatica che siamo, «perché l’umano è un intero (hólon), e la cura consiste nel coniugarne la dimensione animale con quella divina, nell’interiorità, facendo di quest’ultima, ammaestrata dalla Sapienza unificante e dalla disciplina spirituale, l’egemone» (470-471); definisce e indaga lo sciamanesimo come una pratica rivolta essenzialmente alla salute dei corpimente individuali e della comunità quale corpo collettivo.

Lo sciamanesimo, infatti, «non è una religione, ma un insieme di pratiche e credenze che gravitano intorno a varie tecniche dell’estasi, cerimonie e rituali che favoriscano il contatto diretto con essenze soprannaturali allo scopo di recare benefici ai singoli e alla comunità di cui lo sciamano e la sciamana fanno parte» (16).
Le potenze alle quali lo sciamanesimo greco attinge, le forze che lo costituiscono, il sacro che lo intesse, hanno i nomi di Apollo, delle Erinni, di Dioniso.

«Duplice è il volto di Apollo: dio solare mediterraneo e iperboreo brumoso signore dei lupi e dei corvi. […] Dio dell’equilibrio che nasce dal distacco sapienziale, e dio della trance vaticinante della Pizia e delle dissociazioni astrali dei suoi sciamani» (444).

Le Erinni/Eumenidi/Μοίρες sono figlie di Κρόνος, come lo è Afrodite. Dal figlio di Οὐρανός e di Γῆ, della Terra e del Cielo, dalla potenza del suo divenire e del suo sperma, si diramano le passioni più fonde: l’eros e la vendetta.

Dioniso, infine, è tutto. È il dio mistico, è il «dio segreto dei Misteri» (292), è medico, è il dio pieno di gioia e che di gioia ricolma chi lo ama, diventando «gioia dei mortali» (Iliade, XIV 325, p. 131), ed è insieme l’Ade (come sostiene Eraclito [22B 15 DK]); Dioniso è soprattutto molteplicità, è colui che guardando dentro lo specchio la propria immagine «si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità» (Proclo in Timeo, 33b; p. 135). Dioniso è la molteplicità degli enti, degli eventi, dei processi, dell’essere e del divenire, della materia e della luce che si frange e si rivela in ciò che è opaco.

Per quanto trasformata e, appunto, molteplice, la filosofia e la sua storia non si spiegano al di fuori e senza queste radici mistiche, sacre e sciamaniche. Perché la filosofia è comprensione del tempo e immersione nel tempo. Come per il Calcante dell’Iliade, il compito di un filosofo è conoscere «ὃς ᾔδη τά τ᾽ ἐόντα τά τ᾽ ἐσσόμενα πρό τ᾽ ἐόντα; ‘le cose che sono e ciò che saranno e che sono state in passato’» (Iliade, I, 70; p. 221).
Tale è la condizione della vita beata. Condizione nel senso del suo stare, condizione nel senso del suo postulato. E a quel punto l’esistenza potrà diventare il sorriso distante e perfetto dei κοῦροι e di Dioniso: «La vita beata, lontana dall’erranza della nascita, che secondo Orfeo si vantano di ottenere anche quanti vengono iniziati a Dioniso e Kore: cessare dal ciclo e respirare dalla sventura» (Proclo in Timeo 42c-d; p. 405). Tale la struttura e la natura del sacro, che non è il religioso, non è lo spirituale, ma è la potenza stessa del cosmo, della materia.


Note

1. Angelo Tonelli (a cura di), Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia anticaFeltrinelli 2021, p. 27. I numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro vengono indicati nel testo, tra parentesi.

2. E.R. Dodds, I Greci e l’Iirrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), trad. di V. Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 248.

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