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Una saggezza antica e profonda

Erodoto, Storie, 5,4 – Sui Trausoi

Τραυσοὶ δὲ τὰμὲν ἄλλα πάντα κατὰ ταὐτὰ τοῖσι ἄλλοισι Θρήιξι ἐπιτελέουσι, κατὰ δὲ τὸνγινόμενόν σφι καὶ ἀπογινόμενον ποιεῦσι τοιάδε: τὸν μὲν γενόμενον περιιζόμενοι οἱ προσήκοντες ὀλοφύρονται, ὅσα μιν δεῖἐπείτε ἐγένετο ἀναπλῆσαι κακά, ἀνηγεόμενοι τὰ ἀνθρωπήια πάντα πάθεα: τὸν δ᾽ἀπογενόμενον παίζοντές τε καὶ ἡδόμενοι γῇ κρύπτουσι, ἐπιλέγοντεςὅσων κακῶν ἐξαπαλλαχθεὶς ἐστὶ ἐν πάσῃ εὐδαιμονίῃ.

I Trausi dal canto loro, mentre per tutto il resto seguono i costumi degli altri Traci, riguardo a chi nasce e a chi muore si comportano così: seduti intorno al neonato i parenti piangono, deplorando tutti i mali che egli, essendo nato, dovrà sopportare ed enumerando tutte le sofferenze umane; invece il morto lo seppelliscono scherzando e in piena allegria, aggiungendo come spiegazione che, liberato da tanti mali, egli è ormai in una condizione di piena felicità.

L'inganno

Piccolo Teatro Studio – Milano
Aiace e Filottete
tratto da Sofocle
regia Georges Lavaudant
traduzione e adattamento Daniel Loayza
con Maurizio Donadoni e Francesco Biscione
produzione Teatro Garibaldi di Palermo alla Kalsa
dal 2 al 4 marzo 2011

Neottolemo si presenta alla solitudine di Filottete -abbandonato dagli Achei sull’isola di Lemno a causa della sua maleodorante ferita al piede- dichiarandosi anche lui vittima degli inganni di Odisseo. Lo scopo è però riportare a Troia l’arco e le frecce di Eracle -possesso di Filottete- senza le quali la guerra non sarebbe stata vinta.
Atena fa credere ad Aiace di stare al suo fianco mentre fa vendetta degli Atridi, colpevoli di non avergli dato le armi di Achille che gli spettavano per il suo assoluto valore di guerriero. Aiace però invece che di Agamennone, Menelao e altri Achei, fa strage di mandrie e di pastori, ingannato dalla dea amica di Odisseo. Uscito dall’illusione che lo spinge sulla scena a urlare la propria soddisfatta vendetta, l’eroe non regge alla vergogna e si uccide.

È l’inganno dunque il tema che Georges Lavaudant ha tratto da Sofocle. L’inganno, questa nebbia interiore simile a quella che Zeus ha steso sopra Ettore e Aiace quando costui stava per uccidere l’eroe troiano. Nel loro terribile e sacro disincanto i Greci seppero dire che per quanto si dia da fare, soffra tenacemente, speri oltre ogni speranza e ponga di fronte a sé la Verità, l’umano rimane frutto di una menzogna, di un trastullo, di un gioco tramato da potenze che appaiono a volte in forme antropomorfiche ma che sono l’ineffabile segreto che tutti ci spinge a sorridere, a volere, a morire.

Prometeo

È un teatro del potere e della crudeltà quello che Eschilo dispiega nel racconto delle ragioni e dei modi che conducono alle catene e a una millenaria sofferenza il Titano filantropo che troppo ha amato gli umani, che ha donato loro il fuoco e l’ignoranza del giorno del morire (Eschilo, Prometeo, trad. di Davide Susanetti, vv. 11, 28 e 123). Non soltanto l’ignoranza della morte e la conoscenza della tecnica, Prometeo ha regalato anche l’alfabeto e i numeri, formidabili strumenti di una memoria utile alla vita: «la scrittura conserva il ricordo di tutte le cose, permette di fare poesia e cultura» (459-461). Ma tutto questo è stato realizzato da Prometeo contro il volere di Zeus.
L’antico figlio di Gaia e di Themis, della Terra e dell’Ordine, ha sfidato il potere del nuovo tiranno che si è insediato sull’Olimpo. Per questo deve essere punito con modi efferati, talmente strazianti da far desiderare al Titano immortale la morte. Gli fa eco Io, la ragazza-giovenca anch’ella vittima della tracotanza di Zeus e a causa del desiderio del dio destinata a vagare per terre lontane, pungolata da un tafano orribile. Anche Io preferirebbe sparire, poiché «è meglio morire una volta sola che soffrire giorno dopo giorno!» (750-751).
Basterebbe questa sintesi dei contenuti della tragedia per comprendere che Prometeo fonda l’antropologia greca, caratterizzata prima di tutto dalla consapevolezza della propria natura temporale e finita. Più volte, infatti, gli umani vengono definiti efemèrois, «poveretti, disgraziati che vivono alla giornata» (83, 547,945), per i quali «la sventura non fa distinzioni e non sta mai ferma: oggi si abbatte su uno, domani su un altro» (275-276). Un destino, quest’ultimo, che tuttavia gli uomini condividono con gli dèi. I mortali sono dominati dal Tempo, i divini sono dominati dalla Necessità e per entrambi non si dà svolgimento, inizio e fine che non siano già stabiliti nell’abisso di Ananke. «Ma il tempo passa e con il tempo si impara tutto» (981); si impara soprattutto che «non si può lottare contro la forza di Ananke, non si può lottare con la Necessità» (104-105), si impara che «ti puoi inventare di tutto, ma il destino è più forte» (514), tanto che neppure Zeus può essere astenestèros, neppure lui può sfuggire alla Necessità (517).
Sapiente di tutto questo, dell’essenziale e dell’effimero, dell’eterno e del finito, della tecnica e del dolore, la mente di Prometeo «vede anche l’invisibile» (842) e sa che, per quanto lunghissimo, il proprio tormento non sarà infinito, che un liberatore lo salverà dall’aquila, che Zeus avrà ancora bisogno del suo aiuto. In tale percorso Prometeo vede la propria gloria e questo lo aiuterà a sopportare tutto con orgoglio, a disprezzare o a compatire coloro che -amici o nemici- gli consigliano di cedere a Zeus. Prometeo odia tutti gli dèi che ha aiutato e che lo hanno così malamente ricambiato. Le sue prime parole invocano come testimoni dell’ingiustizia subita «il cielo luminoso, il soffio del vento, le sorgenti dei fiumi, lo scintillio infinito delle onde, la madre terra, il disco del sole che vede tutto» (88-91); i suoi tormenti provocano la sofferenza cosmica degli elementi e il compianto di interi popoli (397-435) e il dramma si chiude con l’invocazione del Titano a sua madre, come farebbe un qualunque mortale: «Grande madre mia, / e tu, cielo, che fai volgere il sole e diffondi ovunque la luce, / vedete che ingiustizia devo subire!» (1090-1092).
La saggezza più profonda alla quale Eschilo invita narrando il mito del Titano antico, delle nuove divinità olimpiche, dell’implacabile Necessità che accomuna ogni fibra dell’universo, è l’unica saggezza praticabile dal corpomente umano, dal procedere consapevole della materia nel tempo: la saggezza che consiste nel «proskunountes ten Adrasteian», piegarsi ad Adrastea, all’Inevitabile (936), conservando tuttavia e per intero l’energia e la scintilla del proprio agire nel mondo.

Inni omerici

Il corpus di inni arcaici che va sotto il nome di Omero è costituito, per quello che ci è rimasto, da 33 componimenti dedicati alle maggiori divinità del mondo greco. Gli Inni trasportano in un mondo di luce, di potenza e di sorriso, en atanatoisi teoisi (A Selene [XXXII], v. 16; Ad Afrodite [V], vv. 239-246). Un mondo non antropocentrico e tantomeno antropogonico, consapevole d’istinto della finitudine dell’umano e pronto a cantare l’eterna giovinezza del divino. La vecchiaia è infatti una sciagura ancor più grande della morte e proprio questi sono i due mali ai quali gli umani non sanno porre rimedio (Ad Apollo [III], vv. 191-193). Ade è Poludegmon, signore di molti ma non degli dèi (A Demetra [II], v. 404). La vitalità e la gioia che dagli Inni promanano prendono corpo nel quotidiano contatto con gli dèi, vissuti non come il totalmente altro inaccessibile e inconcepibile ma come figure con le quali intrattenere un dialogo in ogni momento dell’esistenza e soprattutto nelle difficoltà e nelle decisioni importanti. Il fondamento di questa relazione è una comunanza profonda tra il divino e l’umano, intessuti degli stessi desideri, delle medesime passioni. Le divinità dei Greci sono davvero incarnate.

Gli Inni più lunghi e più belli sono dedicati a Ermes, ad Apollo, a Demetra, ad Afrodite. I tre rivolti a Dioniso (I, VII e XXVI) descrivono con grande efficacia la triplice nascita del dio concepito da Semele, partorito da Zeus, fatto a pezzi dai Titani e poi ricomposto e ancora una volta rinato. È notevole che gli Inni descrivano quasi allo stesso modo i due fratelli Dioniso e Apollo. Il primo «aveva bei capelli scuri /e fluenti, e un manto purpureo gli copriva le forti / spalle» (A Dioniso [VII], vv. 4-6; le traduzioni sono di Giuseppe Zanetto). Apollo è «simile a un uomo gagliardo e robusto, nel fiore / degli anni, coi capelli sciolti sulle ampie spalle» (Ad Apollo [V], vv. 449-450; p. 123). L’Inno VII racconta di Dioniso catturato dai pirati ma che dall’albero della nave fa germogliare una vite dalla quale penzolano succosi grappoli d’uva. La bella e celebre Coppa Exekias di Vulci racconta forse lo stesso episodio, con il dio che fa nascere una vite sulla nave circondata da delfini guizzanti. Dioniso è la misura potente del divino-natura. Di essa partecipano quegli umani nella cui carne prevale il suo elemento e non quello delle ceneri dei Titani. A costoro, che gli gnostici definiranno pneumatikòs, colmi di intelligenza, è affidata la salvaguardia degli enti.

Theimer, la forma del mito

«Tàuta dè eghèneto mèn oudépote, esti dè aei», afferma Salustio, «queste cose –i miti- mai avvennero ma sono sempre» (Sugli Dèi e il mondo, IV, 8, 26-27; Adelphi 2000, p. 126). Il mito è la pienezza del tempo poiché è il tempo eterno, vale a dire l’inimmaginabile per noi. Ivan Theimer (Olomouc, Moravia 1944) è una di quelle menti che cercano di pensare il mito, in esso affondano, piegano la materia –suoni, bronzo, tele, carta, scritture, marmi- al racconto del sempre. E come per prodigio vediamo emergere davanti a noi le potenze infere e celesti che scandiscono le vite e le morti degli umani e di ogni cosa.
Theimer plasma le tartarughe sulle quali poggia –secondo antiche leggende- il cosmo; le steli riempite di una miriade di creature reali e possibili, con foreste o istrici sulla punta, con cadute fragorose e immobili di angeli ribelli; mappe del mondo; altari dalle linee dense e pure; busti di bambini; obelischi altissimi trasportati da Ercoli filosofi; bambine che danzano; Dionisi fatti di uva; colonne elicoidali simili a grattacieli; angeli; il serpente del ritorno, l’Ouroboros; porte sacre; lampade ieratiche; teste sconvolgenti di Gorgone.
Opere che a volte hanno la misura di un oggetto da tavolo, altre quelle di un monumento per delle grandi piazze. Se è vero, come afferma Jean Clair, che la contemporaneità costruisce edifici di tutti i generi ma non più monumenti –e cioè documenti perenni, ammonimenti, oggetti intrisi di mente perché fatti di memoria- l’eclisse dei monumenti è il tramonto stesso del senso individuale e collettivo.
L’arte di Theimer, invece, è pregna di simboli e di significati, edifica se stessa nel contrappunto di una bellezza strepitosa e di un orrore antico, coniuga l’antroposfera con l’Altro della teriosfera –la miriade di rettili e di altri animali che popolano steli e obelischi; della tecnosfera –l’artificio che l’opera umana è per sua natura; della teosfera, il Sacro che parla discreto e potente dentro le sue costruzioni. Di questa incessante creazione, i simboli più densi sono quelli della duplicità: Dioniso che è umano e divino, orgia e disincanto, bene e male; la Medusa che sta al centro dello scudo di Atena, la filosofa, a significare che soltanto sul fondamento ctonio l’apollineo può edificare se stesso in quanto forma.
Alla profondità della natura umana e dell’intero cosmo del quale è parte, Ivan Theimer invita a tornare. E lo fa con la sua arte raffinata sino al manierismo e insieme assolutamente arcaica. Concettuale e istintiva. Intrisa di storia e intessuta del sempre. Tra centomila anni qualche archeologo venuto chissà da dove e da quando dissotterrerà gli oggetti di Theimer e non riuscirà ad attribuirli ai Faraoni, agli Imperatori di Roma, a ciò che noi chiamiamo Neoclassicismo, al XXI secolo. Si rassegnerà, dunque, a definirli eterni.

La psiche, l'orrore

«Già interiorizzato in posizione di onnipotenza, già intronizzato, si potrebbe dire, esso diventa ora autorità maiestatica, legge inesorabile, o rigore senza nome». Così Elvio Fachinelli (La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Adelphi, 1992, p. 114) a proposito della nevrosi ossessiva e della sua complessa genesi da un’autorità temuta e amata. È solo un esempio della miriade di disturbi e di sindromi delle quali ogni essere umano è vittima, seppure in maniera differente. Non esiste, davvero, persona “del tutto sana di mente” poiché la psiche è una fragile filigrana che con fatica fa da schermo alle pulsioni e ai desideri estremi in cui la vita consiste. L’immensa tristezza degli umani affonda qui, in questo difficile e ripetuto impegno a sottrarsi alle forze ctonie da cui pure siamo germinati. Anche per questo aveva ragione Sileno nella risposta che, infine, diede a Mida.

Il corpo dei Greci

Nella Grecia antica lo sport era una forma dell’essere e del credere. Dell’essere membri di una polis e della civiltà che le poleis unificava; del credere che il corpo, la sua potenza, è un dono che va restituito agli dèi anche mediante l’espressione della sua forza. Le ragioni delle Olimpiadi erano dunque politiche e cultuali. Ed erano una delle più sentite espressioni di quella competizione che permea di sé e in tante forme il mondo ellenico. Non si dà, qui, distinzione tra politica, culto, filosofia, poesia. Lo si vede con chiarezza in Pindaro e a  Delfi, luogo nel quale i santuari votivi delle città stato, il grande tempio di Apollo, il teatro e lo stadio disegnano in estrema sintesi il senso che per i Greci ha la vita.
L’agone atletico è il momento nel quale lo splendore dei corpi può dare di sé la testimonianza più chiara e più potente, espressa anche dalla nudità, cosa del tutto naturale per i Greci e «addirittura uno dei principali elementi di distinzione tra il loro modo di vita e quello dei barbari», tanto da guardare «con stupore e con una certa sufficienza alla “strana” usanza altrui di coprirsi i genitali per fare sport, quando non ce ne era affatto bisogno» (F. Polacco, Grecia e Creta. Viaggio nella terra degli dèi, “Archeo collection”, n.1/2007, p. 108). E Platone, il tanto conosciuto ma incompreso Platone, in uno dei suoi ultimi e più importanti dialoghi scrive che vi è una sola e unica salvezza dalla malattia e dall’ignoranza, «non esercitare né la psyché senza il soma, né il soma senza la psyché, affinché, difendendosi reciprocamente, conservino insieme equilibrio e salute. Pertanto, chi si dedica alla scienza e al lavoro della mente deve anche esercitare i movimenti del corpo, praticando l’arte dei ginnasi (ghymnastiké). E allo stesso modo, chi pone estrema cura al soma deve anche farvi corrispondere i movimenti della psyché, praticando la cultura (mousiké) e l’intera filosofia, se vorrà essere chiamato uomo veramente bello e veramente buono (kalòs kai agathòs)» (Timeo, 88 b-c).

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