Il Platone più pitagorico delinea una compiuta immagine del cosmo. Una sorta di mito definitivo nel quale ogni elemento della natura trova piena giustificazione nel legame con ogni altro. Il metodo di indagine è descritto con chiarezza e si fonda sulla distinzione metafisica fra l’essere e il divenire. Il primo, «ciò che è sempre e non ha generazione», va indagato con la pura logica, strumento della ragione. Il secondo, «ciò che si genera perennemente e non è mai essere», è il mondo empirico coglibile tramite i sensi (Timeo, 27D-28A, trad. di Giovanni Reale). L’uno è il mondo vero, l’altro è apparenza, ma ciò non implica nel Timeo un dualismo ontologico radicale. Per Platone l’essere è sempre il meglio, il mondo è il Bene. «L’universo è la più bella delle cose che sono state generate, e l’Artefice è la migliore delle cause» (29A). La positività delle cose è data dalla vita che tutte le permea -anche quelle apparentemente più passive: «questo mondo è un essere vivente, dotato di anima e di intelligenza» (30B)- e dalla costituzione secondo ordine e misura. Il Demiurgo ha portato l’essere dal disordine, dalla confusione, dalla molteplicità all’armonia della misura e del ritmo. Ecco perché Platone fa discendere la filosofia dall’astronomia, modello supremo –nel mondo fisico- di un ordine ciclico ed eterno.
Nell’andamento necessario di questo testo il filosofo ripercorre la propria vicenda esistenziale e teoretica proiettandola sullo sfondo cosmico e naturale. Quanta fiducia e gratitudine per la propria identità vibra nella esaltazione della stirpe greca, «la migliore e la più bella stirpe degli uomini» (23B), che non è mai cresciuta, rimasta sempre giovane, tanto che «un Greco che sia vecchio, non c’è!» (22B). Platone sembra giocare con il cosmo e con i pensieri, al modo di un dio. Se il Timeo è, come si ipotizza, uno degli ultimi scritti di Platone, in esso il filosofo rintraccia ed esprime –nonostante e al di là di ogni disinganno politico- l’unità inscindibile fra la mente e il cosmo, l’ordine interiore e la perfezione dei cieli. Era forse questa la dottrina esoterica dell’insegnamento orale: l’Essere è Bene e il filosofo è colui che ne comprende la necessità superando, con immane fatica, la propria personale tragedia di uomo.
Architetture, sculture -e non soltanto parole- sono i versi di Eschilo. Nell’Orestea essi delineano un’ipotesi mitica, e quindi reale, sull’origine della città umana. Origine dal sangue, nel duplice senso del legame e del delitto. Le forze indicibili protagoniste della trilogia -le Erinni- perseguitano infatti non coloro che hanno ucciso e basta ma coloro che hanno ucciso i consanguinei. Per questo non toccano Clitennestra -Agamennone era soltanto suo marito- e perseguitano invece Oreste, il figlio che vendicando il padre l’ha uccisa.
Le Erinni sono «mákares chtónioi», potenze ctonie, figlie della Notte e germinate dalla terra (Coefore, v. 476; le opere sono citate nella traduzione di Ezio Savino, Orestea, Garzanti 2009). Sono le antichissime, che dominavano il mondo già prima di Zeus. Sono le stanghe del fato alle quali gli umani sono aggiogati e che Cassandra -unita ad Agamennone dallo stesso destino di morte- può vedere ma non distogliere da sé. A questa impresa, deviare e trasformare la volontà della Notte che avvolge gli umani, possono aspirare soltanto Apollo e Atena, giovani divinità della luce. L’occasione per farlo è il destino di Oreste, la sua azione di matricida voluta da Apollo e difesa da Atena. Le due divinità sono ben consapevoli delle entità che hanno sfidato. Così, infatti, le descrive Apollo rivolto a Oreste: «Guarda le creature rabbiose: eccole vinte! Crollate nel sonno: vergini -sputi, nient’altro per loro- decrepite figlie dei secoli. Nessuno ama toccarle in eterno: né celeste, né umano, né bestia selvaggia. Tormento, ecco la radice del loro esistere, per questo la dimora assegnata è il tormento del buio, il Tartaro fondo d’abisso. Incarnano il disgusto del mondo e dei numi, su nell’Olimpo» (Eumenidi, 64-73).
Esse, per loro stessa ammissione, perseguitano l’assassino sino a condurlo «dove non c’è neppure parola per dire: sono felice» (Ivi, 423). E che cosa questo significhi è ben spiegato nelle parole con le quali angosciano Oreste: «Così ti macero vivo, ti strascino sotterra / dove ripaghi soffrendo / lo strazio della madre sgozzata» (Ivi, 267-268).
Atena sa che enorme è la loro influenza sulle cose e sugli eventi, che esse sono e rimangono sovrane, qualunque cosa accada: «nel mondo umano esse destinano tutto, con chiara esattezza. Assegnano a uno canti di gioia, a un altro una vita opaca di pianto» (Ivi, 952-955). E dopo averle finalmente persuase a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile furia, la dea giustamente si gloria.
I Greci, che tutto questo hanno pensato, sanno che nell’uomo -nel suo sangue- dorme e parla una «fame implacabile di felicità» (Agamennone, 1331-1332), la quale si scontra istante dopo istante non soltanto con la follia umana ma anche e soprattutto con l’angoscia che ai mortali sembra essere stata fornita quale dote alla nascita. Essa rende instabile ogni serenità e offre, senza che nessuno la assoldi, come scorta lo strazio. Perché? Per quale colpa o caduta? Per quale decisione? Molto più a fondo rispetto al mito monoteistico, per i Greci la colpa ha poco a che fare con i comportamenti; non riguarda l’agire ma l’essere. È colpa ontologica, non etica. «Quale uomo, che sappia la storia, / può dire di essere nato / all’ombra di un destino innocente?» (Ivi, 1341-1342).
È per infrangere, per tentare di farlo, l’ancestrale catena di colpa e di pena che le divinità del pensiero e della luce diventano divinità politiche fondanti il diritto e con esso la città. Il carattere anche e totalmente politico dell’Orestea intesse l’intera vicenda della casa d’Argo. Nel passaggio da Delfi ad Atene, dalle Erinni alle Eumenidi, non viene dunque smarrito uno dei fondamenti antropologici del mondo greco: la miseria dell’umano di fronte alle potenze del mondo e alla potenza che esso stesso è.
Infine, alla fine e all’inizio di tutto, l’elemento pagano scorre puro in questi versi. Scorre nella molteplicità degli dèi, la quale fa sì che nessuno di essi sia onnipotente, che tutti siano costretti a dialogare tra loro e a sottoporsi a giudizio. Persino Apollo. E scorre nel dialogo fra Elettra e il suo coro. All’interrogativo della ragazza se sia azione degna supplicare gli dèi affinché arrivi qualcuno a dare la morte -«Che preghiera, la mia, agli dèi! Sarà religiosa?»-, il coro risponde, sicuro: «Di compensare chi ti odia col male? Dubiti?» (Coe., 122-123).
«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori […] E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt., 5, 43-47). I pagani, appunto.
Recensione a:
Umberto Curi
Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche
in Diorama letterario – numero 305
settembre/ottobre 2011
pagina 36
Paladino. Palazzo Reale
Milano – Palazzo Reale
A cura di Flavio Arensi
Sino al 10 luglio 2011
Gialli e rossi molto intensi. La pittura che esce dal quadro e diventa tridimensionale, come nel Senza titolo del 2005 in cui da una testa su fondo d’oro si dipartono rami che sembrano/sono dendriti e assoni. Sculture appese ai muri (Bandiera rossa), Sfere nello spazio sulle cui superfici emergono oggetti e ancora teste; sagome umane di legno poste contro un muro e che mano a mano si dissolvono diventando cenere e carbone; 32 magnifici Dormienti distesi in una sala a far dormire la materia e i segni; antichi elmi accatastati alla rinfusa. Nel cortile di Palazzo Reale alcuni grandi Scudi di terracotta e nella piazzetta all’esterno la Montagna di sale, pensata la prima volta per Gibellina, ricostruita a Napoli e ora a Milano. Un’installazione semplice, arcaica, enigmatica e parlante, con le sue forme animali immerse in uno degli elementi primordiali della Terra.
Al di là delle definizioni -Arte concettuale, Transavanguardia- l’opera di Paladino è così coinvolgente e chiara anche perché è intrisa della perenne grecità mediterranea, che nello spazio pulsa infinita e immortale.
Heidegger, i Greci, gli dèi
«Gli dèi dei Greci non hanno nulla a che vedere con la religione. I Greci non hanno creduto nei loro dèi. Una fede degli Elleni -per rammentare Wilamowitz- non esiste». Così Heidegger durante un seminario che tenne a Friburgo insieme con Eugen Fink (Eraclito. Seminario del semestre invernale 1966/1967, a cura di A. Ardovino, Laterza, 2010, p.16). È vero, i Greci non hanno una fede religiosa ma sono immersi nel divino come la Terra è immersa nella luce ed è circondata da tenebre sconfinate. L’immenso buio del dolore, dell’assurdo e della fine viene illuminato da quei frammenti di oggettività che sono le statue degli dèi, le loro epifanie, il loro materico apparire ed ergersi sullo sfondo dell’armonia dei templi e della potenza naturale. Questa è la “fede” dei Greci, in realtà un vedere e non un credere.
Filottete
di Sofocle
Regia di Gianpiero Borgia
Con: Sebastiano Lo Monaco (Filottete), Massimo Nicolini (Neottolemo), Odisseo (Antonio Zanoletti), Salvo Disca e Giovanni Guardiano (capo coro marinai), Giacinto Palmarini (Eracle)
Traduzione di Giovanni Cerri
Scene e costumi di Maurizio Balò
Musiche di Papaceccio, Francesco Santalucia
Teatro Greco di Siracusa
Sino al 18 giugno 2011
Una nave approda a Lemno, isola solitaria, abitata da uccelli e da fiere. Un solo umano ne percorre gli spazi, Filottete, l’eroe acheo al quale il morso di un serpente ha ridotto il piede a fetida cancrena e la voce a un urlo disperato di dolore. Per questo i suoi compagni lo lasciarono dieci anni prima nell’isola, non sopportando il fetore della piaga e lo strazio della gola. Ora però gli Achei sono costretti a tornare. Un oracolo ha spiegato che senza l’arco e le frecce di Eracle, possedute da Filottete, Troia non sarà mai espugnata. A tramare il furto dell’arco è Odisseo, che induce Neottolemo, il giovane figlio di Achille, a presentarsi al malato, a conquistare la sua fiducia, a consegnare ai Greci l’arma indispensabile per la vittoria. E tuttavia mano a mano che la menzogna ha successo, Neottolemo sente le proprie parole d’inganno come un insostenibile peso dal quale si sente schiacciato. Confessa dunque a Filottete la trama che lo ha condotto al raggiro. Sorpreso, annichilito, infuriato, Filottete lo maledice chiedendo la restituzione dell’arco. Interviene Odisseo a impedire l’azione dannosa agli Achei. Le ragioni di realpolitik del greco più astuto si contrappongono al bisogno di trasparente lealtà di Neottolemo. Saranno queste ultime a vincere: l’arco sarà restituito, accompagnato dall’esortazione a partire comunque insieme per Troia. Testardo, ingannato, furente, Filottete respinge le preghiere del giovane, sino a che appare Eracle a imporre –deus ex machina– al tenace eroe di obbedire a ciò che gli dèi hanno da sempre deciso.
La scena di Maurizio Balò contrappone l’azzurro trasparente del mare al nero perduto dell’isola. Tra le acque e la terra si muove un coro di guerrieri estremamente dinamico che -scelta efficace- canta in greco le proprie parole. La voce si unisce alla danza e al testo, restando così fedele alla struttura originaria della tragedia greca, un’opera d’arte totale fatta di movimenti del corpo, di note scandite, di versi di per sé intrisi di musica, fatti di canto. Sullo sfondo di tanta bellezza e armonia, emerge più lancinante la vicenda di un uomo abbandonato, malato, ingannato più volte. Lo splendido luogo che è il teatro dei Greci a Siracusa ha dato ancora una volta l’occasione -con questa messa in scena intensa e musicale del Filottete– di sentire la voce dei pagani nel loro rapporto con gli dèi, fatto di venerazione e di pòlemos, di rassegnazione e di forza, di consapevolezza del limite che ci costituisce ma anche della nostra partecipazione alla vita divina tramite desideri, decisioni, pensieri e anche oggetti, come l’arco che sta al cuore di questa tragedia e la cui presenza il regista sa ben restituire facendone il centro spaziale degli eventi e del testo.
[Una recensione più ampia è stata pubblicata sul numero di giugno 2011 di Vita pensata]
Alberto Savinio.
La commedia dell’arte
Milano – Palazzo Reale
A cura di Vincenzo Trione
Sino al 12 giugno 2011
Essere greci ed essere ora. Sentire in sé la radice sempre nuova di una forza indistruttibile e inventata. Oltrepassare gli ambiti, le distinzioni, gli specialismi e saper toccare con la propria arte la scrittura, il teatro, la pittura. Essere Savinio, insomma. Che vuol dire sognare il sonno di Achille, attraversare gli stretti guardati dall’occhio del Ciclope, sentire il fulmine e lo schianto che arrivano su Gomorra, nutrire la calma felicità dei filosofi, abbracciare Angelica e animalizzarsi con lei, trascorrere per infinite metamorfosi come accade nel sonno e nel mito, ergersi a Prometeo e far rivivere Edipo nel teatro e nella città, dare all’architettura la profonda lievità del mito. Tutto questo è stato quel rêve du poète che è l’arte di Alberto Savinio, quella forma della vita e della gioia della quale scrisse che «porta in sé il ricordo del paradiso perduto ma insieme porta la promessa del paradiso ritrovato».