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Edipo, il Sole

Piccolo Teatro Grassi – Milano
La serata a Colono
di Elsa Morante
Con: Carlo Cecchi, Antonia Truppo, Angelica Ippolito
e con (in ordine alfabetico) Giovanni Calcagno, Victor Capello, Salvatore Caruso, Vincenzo Ferrera, Dario Iubatti, Giovanni Ludeno, Rino Marino, Paolo Musio, Totò Onnis, Franco Ravera
Francesco De Giorgi (tastierista), Andrea Toselli (percussionista)
Regia e scene di Mario Martone
Produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino/Teatro di Roma/Teatro Stabile delle Marche
Sino al 3 marzo 2013

Nel reparto neurodeliri di un ospedale arriva un uomo in barella accompagnato dalla figlia. Ha una benda sugli occhi sanguinanti. Lo circondano la pigra attenzione di medici e infermieri, la burbera assistenza di una suora, le voci dissonanti di altri degenti, ciascuno dei quali è sigillato nella propria follia. D’improvviso si trasformano in un coro implacabile e dolente, in un’altra figlia, in un dio. La ragazza che gli sta accanto diventa Antigone. Il luogo è Colono, ultimo rifugio dell’uomo la cui sciagura è inenarrabile.
La figlia parla senza interruzione, con una cadenza dialettale e dolcissima, in uno slancio di tenerezza senza fine verso il padre. L’uomo si sveglia dal silenzio e dalla cecità per invocare Apollo e la sua luce che mai tramonta, Apollo che lo ha ferito, la vita che lo ha travolto. E sulla scena appare l’uovo d’oro del Sole, l’abbagliante macchina luminosa che ha accecato colui che era certo di vedere più lontano e più a fondo di chiunque altro.
Le parole di questo Edipo sanguinante sono la poesia con la quale Elsa Morante descrive la condizione umana tra emblemi e simboli universali, nel dolore che ogni nascere comporta, nella pena che tutti ci trascina, nell’amore del quale ogni persona è assetata.
Uno spettacolo dinamico nonostante l’immobilità del protagonista, un testo colto e insieme popolare, percorso da allegorie e appassionatamente disperato.

«Esperimento della perfezione»

Tonio Hölscher si chiede se quell’«esperimento della perfezione» che fu la Grecità sia alla fine riuscito. Risponde ammettendo che se «la “classicità” fu un’epoca di conflitti e di contraddizioni, il suo merito consiste appunto nel fatto di aver reso tali conflitti oggetto di decisioni culturali» (in Aa. Vv. I GRECI Storia Cultura Arte Società. Vol. II/2, Una storia greca. Definizione (VI – IV secolo), a cura di Salvatore Settis, Einaudi 1997, pag. 205). Mauro Corsaro nega che tramite la Lega delio-attica gli ateniesi perseguissero soltanto una politica di «omogeneizzazione forzata degli alleati alla loro costituzione democratica» (41). Secondo Corsaro bisognerebbe anche rivedere molti luoghi comuni sulla schiavitù, dato che «gli schiavi in effetti non erano del tutto privi di diritti e non erano affatto considerati, a differenza di quanto si legge talvolta, come semplici cose, come una parte di proprietà» (403).
In realtà, furono i Greci a cominciare a porre un freno -tramite il culto per il nomos, per le leggi- al potere della tirannide e all’arbitrio del potente. Essi seppero coniugare competizione e parità, conflitto e libertà, individualismo e collettività. Contrariamente a quanto sostiene Popper, l’interrogativo su “come si governa” affondava nel mondo arcaico e aristocratico, mentre nella nuova polis democratica cominciò «una riflessione pubblica sul […] tema del “chi governa”» (582).
I Greci erano certamente pagani, la loro pratica dell’amicizia aveva come norma aurea un comportamento che i vangeli condannano: «Aiutare nel modo migliore gli amici e danneggiare con ogni mezzo i nemici» (454). Questo era per loro giustizia. Del tutto legittimo era anche l’uso del corpo per trarre piacere, per suscitare ammirazione, per muoversi con forza, agilità, letizia nello spazio pubblico e privato. Una delle più tipiche e complesse espressioni dell’Atene classica –il platonismo- può essere compreso solo su questo sfondo, nel quale il singolo e la comunità interagiscono e confliggono ma dipendono sempre l’uno dall’altro; nel quale la componente politica del platonismo non è utopica –tantomeno totalitaria- proprio perché è in realtà una posizione antropologica ed etica. Anche in Platone, come nei Sofisti e in fondo come in ogni altro Greco, la forza della parola e la profondità del pensiero sono inseparabili, tanto che «in un certo senso, tutto il compito della filosofia consiste nell’appropriarsi della retorica, vale a dire nel fare della persuasione una qualità intrinseca della verità» (822).
In questo modo, i Greci ci hanno trasmesso uno dei modi fondamentali della conoscenza razionale: la dimostrazione more geometrico. Essi non furono forse degli scienziati nel senso professionale con cui intendiamo oggi tale attività ma furono degli epistemologi –e durante l’Ellenismo anche dei tecnologi- di altissimo livello, ai quali dobbiamo «le idee stesse di scienza esatta, di sistema assiomatico, di coerenza logica. […] Ancora di più, le idee stesse di verifica sperimentale e di ricerca empirica sono state esplicitamente tematizzate dai più grandi di questi filosofi e studiosi» (1203).
I Greci percepirono senza illusioni la finitudine che ci costituisce; il loro pessimismo arcaico non dimenticò mai la caducità di ogni cosa, ente, vita, desiderio. Da tale sfondo di melanconia e di oscurità, come Nietzsche ben comprese, nacque il loro bisogno di misura, il rifiuto della hybris come il più pericoloso dei mali. Per questo sulle metope del Partenone -non un tempio per il culto ma l’autodefinizione della città nel marmo- scorrono le immagini che mostrano «la lotta della padronanza di sé contro la sfrenatezza, dell’ordine contro il caos, della civiltà contro la barbarie, della cultura contro la natura» (1259). Ed è sempre per la stessa ragione che l’affresco di Raffaello dedicato alla Scuola di Atene mostra degli uomini «sopraffatti dalla gioia di apprendere» (1340).
Una delle ultime battute di questo libro afferma che «oggi ci è difficile, se non impossibile, condividere una fede come quella di Jaeger. Ma appare anche arduo farne a meno» (1351).

Dioniso / Delphi

Per quanto secolare sia la scienza filologica, per quanto molto sappiamo dei Greci, per quanto ci sforziamo di intuire, conoscere, capire la loro esistenza, in realtà da essi ci separa un abisso. È come se ci fosse quasi precluso sentire ciò che essi sentivano, la loro forza, il loro sorriso, il loro modo di vivere e concepire la morte e il sacro. Il significato e il valore dell’itinerario di Walter Friedrich Otto (1874-1958) nel mondo greco stanno forse soprattutto nel tentativo di varcare tale distanza, di riandare alle radici di quel mondo, al suo impulso primitivo. Le origini di un fenomeno così vasto e fecondo rimangono l’essenziale, ciò che è da cogliere se vogliamo comprendere che cosa i Greci, che cosa Dioniso furono. Al di là quindi dello storicismo, della psicologia, della sociologia, per Otto il lavoro filologico è strumento di incontro con il mito.

Contro lo scetticismo aprioristico dei moderni, Otto ritiene che bisogna partire dalla teofania, dall’apparizione del divino nelle forme più diverse ma tutte reali, una realtà dimostrata dagli immensi effetti di questo incontro fra gli dèi e gli umani. La presenza del divino era sentita in modo immediato nel culto e nei miti, due elementi inseparabili che sempre si rafforzano a vicenda. Nel modo greco di intendere il cosmo, gli dèi sono veramente incarnati poiché «il dio, sebbene figuri come una personalità possente, pure in ultima analisi è tutt’uno con lo spirito e con la forma, e quindi con tutto l’essere di quel regno che governa» (W.F. Otto, Dioniso. Mito e culto [1933], trad. di A. Ferretti Calenda, Il Melangolo, Genova 2002, p. 198)
Il manifestarsi del divino ha una forza del tutto particolare quando il dio che appare è Dioniso. Presente nel mondo ellenico già dalla fine del secondo millennio, Dioniso è un dio duplice, la cui potenza consiste nel coniugare gli opposti e quindi nel rappresentare il tutto dell’essere e l’intero dell’esperienza umana. Esiodo (Theog, 941) lo chiama polughetés, il ricco di gioia che là dove arriva trionfa. E tuttavia Dioniso è anche un dio sofferente, morente, dispensatore di tormenti e tormentato egli stesso, con il quale «la vita si trasforma in ebbrezza di beatitudine ma anche […] in ubriacatura di terrore» (84) in una mistura inseparabile di «pienezza di vita e violenza di morte» (149). Dioniso appartiene ai due regni dell’umano e del divino, lui nato due volte –la prima generato da Persefone, la seconda concepito da Semele e poi cresciuto nella coscia di Zeus-; lui dallo sguardo estatico e dal sorriso che sconcerta, maschera enigmatica che «lo insedia potentemente, ineluttabilmente, nella presenza, ma al tempo stesso lo sottrae in una lontananza indicibile» (97); lui che quando appare scatena il frastuono più frenetico e poi –di colpo- il più impietrito silenzio. Coloro che gli stanno vicino –le Menadi, i fedeli, il toro, il capro, l’asino- condividono il duplice destino di euforia e di spasimo
Ma più di tutti è Arianna a farsi una sola cosa con lui, vivendo la massima felicità e i più strazianti dolori. Arianna è l’amata del dio, la più bella, ma Dioniso è sempre circondato da donne, da compagne fidate, da nutrici, da Menadi frementi, da coloro che danno la vita e la tolgono nella brama di sangue, nella potenza sconfinata dei cicli temporali. È Dioniso per primo a soffrire «gli atti spaventosi che compie» (113), a essere vittima di se stesso e a portare con sé distruzione, sin da quando Zeus incenerì Semele che lo aveva in grembo, sin da quando nella forma taurina venne sbranato dai Titani. Uno dei suoi segreti, quindi, è un duplice legame: il primo con Ade, come testimonia l’antica e decisiva parola di Eraclito. Il secondo legame è l’unione profonda, è l’identità enigmatica con il dio della misura e della luce, con Apollo, suo fratello. Nel luogo più sacro a quest’ultimo, a Delphi, c’era la tomba di Dioniso. Plutarco racconta che all’inizio dell’inverno tacevano i peana apollinei e per tre mesi erano i ditirambi dionisiaci a risuonare.
I due fratelli regnano insieme a Delphi e dominano insieme sul mondo poiché «il regno olimpico s’innalza al di sopra dell’abisso terrestre, la cui onnipotenza esso ha infranto. Ma la stirpe dei suoi dei è scaturita essa stessa da quelle profondità, e non rinnega le sue cupe origini: essa non sarebbe se non esistesse quella notte eterna davanti a cui Zeus stesso si inchina. […] Sono riuniti in Apollo tutto lo sfolgorio del mondo olimpico e i regni contrapposti dell’eterno trascorrere e dell’eterno divenire» (217).
La tragedia attica è il luogo in cui questa straordinaria intuizione vive ancora e per sempre. Nel dispiegarsi della tragedia Nietzsche comprese l’unità dei due fratelli signori del cosmo, poiché «solo dall’essenza stessa del mondo può venirci la luce» (51).

Sugli dèi e il mondo

La vicenda dell’imperatore Giuliano e della sua corte sintetizza un intero mondo al suo tramonto. In quei pochi anni, dal 360 al 363, la civiltà greca tentò l’ultima impossibile impresa, quella di sopravvivere a una nuova fede sostenuta dalle masse e da una parte della classe dirigente: Ambrogio e Agostino provenivano dagli stessi ambienti e perfino dalle stesse famiglie di Simmaco e di Salustio ma decisero di aderire alla dottrina e al gruppo vincenti. Salustio (Saturninio Secondo Saluzio) fu praefectus praetorio Orientis, maestro e consigliere di Giuliano e suo amico fidato. Per Salustio e per Giuliano filosofia non è semplicemente l’aderire a un’idea o la capacità di pronunciare discorsi efficaci ma consiste in un modo di essere che informa di sé la persona, è una maniera di vivere.
Il divino è perfezione immutabile e felice. I Dodici dèi del pantheon ellenico che Salustio enumera -«Gli dèi che fanno il mondo sono Zeus, Poseidone e Efesto; lo animano Demetra, Era e Artemis; Apollo, Afrodite e Hermes lo accordano; mentre Hestia, Atena e Ares stanno a guardia» (Sugli dèi e il mondo, [Perì Theon] a cura di R. Di Giuseppe, Adelphi 2000, § 6, 3, 1-6)- diventano i paradigmi di un mondo imperituro e ingenerato. Non è quindi pensabile «che il divino reagisca agli affari umani: né positivamente, né negativamente […] Siamo piuttosto noi -essendo buoni- a entrare, per somiglianza, in unione con gli dèi e a distaccarcene per dissimiglianza, divenendo cattivi» (14, 1, 9-18). Culti, sacrifici e preghiere hanno quindi senso soltanto dal punto di vista umano ed è agli uomini che servono. Gli dèi non accettano né rifiutano, non benedicono né condannano, «sicché, dire che è il dio a respingere i cattivi equivale a sostenere che il sole si rifiuti a chi è privo della vista» (14, 2, 6-9). Viene in tal modo superata anche l’obiezione epicurea: gli dèi agiscono nel mondo ma lo fanno senza fatica alcuna, per il semplice fatto di esistere, come il sole che nulla perde della propria potenza e perfezione illuminando lo spazio, anzi la esplica.

Se tale è l’essenza del divino, enti ed eventi sono guidati dal lògos. Il male -come poi ripeterà il cristiano Agostino- è solo  apousìa de agathou, assenza del bene (12, 1, 5). Nel mondo nulla esiste che sia cattivo per sua natura, ogni cosa si tiene con ogni altra, tutto è scaturito dalla medesima sorgente. A questa unità metafisica corrisponde quella gnoseologica di soggetto che conosce, oggetto conosciuto e conoscenza in atto. Il mondo si nasconde e si svela nella forma di un’allegoria sensibile dell’eterno, un’immagine mobile di ciò che non passa, forma che solo i migliori sono in grado di cogliere, dopo lunga fatica. La maggioranza è impotente ad apprendere e sarebbe grave errore «la pretesa di insegnare a tutti la verità sugli dèi» (3, 4, 1-2). Le condizioni per capire e per vivere il divino sono, infatti, numerose e difficili: bisogna essere stati ben educati fin da bambini e non essere cresciuti in mezzo a opinioni errate e superficiali; l’educazione, tuttavia, non basta se «per natura» non si è nobili e assennati (1, 1, 4) e se non si nutre familiarità con le adeguate conoscenze sugli dèi e sugli umani.
Gli “affari umani” -il loro valore, l’esito- dipenderanno quindi dalla conoscenza: da Omero a Plotino l’intellettualismo etico rimane una cifra del mondo greco. Saggezza è soprattutto comprendere la perfezione di ogni ente e dell’intero poiché tutto è derivato da qualcosa di perfetto e cioè di delimitato nei confini armoniosi della Misura. Affermando che «oude apeiròn ti en to kosmo» (20, 3, 3-4) -che nulla al mondo si dà di indefinito- Salustio raccoglie il senso dell’intera cultura ellenica. Essa offriva agli esseri umani non la hybris di paradisi oltremondani ma la felicità della comprensione del qui e dell’ora nell’unità del tempo. È il presente il tempo dei Greci. Tutta la loro religione, arte, filosofia -il loro mondo unitario- è rivolto a gustare l’attimo che coincide con l’eterno. È per questa ragione che la virtù è per i Greci fine a se stessa, poiché il tempo è l’adesso; lo spazio della gioia o del dolore è il qui. La materia è trasformazione degli elementi, non è creazione o distruzione assolute.

Cosmologia, etica e metafisica si unificano nella filosofia di Salustio, sintesi del pensiero di un intero mondo: «Tàuta dè eghèneto mèn oudépote, esti dè aei», queste cose mai avvennero e sempre sono, «l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione» (4, 8, 26-29). Su tale fondamento teoretico si eleva la conquista umana della serenità. Per i pagani la felicità non consiste nella speranza di un paradiso ma nel possesso di sé, metafora del dominio del mondo:

Ma anche se nulla di tutto ciò fosse vero: senza contare il piacere e la gloria, che da quella discendono assieme a una vita priva di crucci e senza servitù (adèspotos Bìos), la virtù stessa basterebbe da sola a render felici quanti scelsero di vivere secondo virtù, e ne furono capaci. (21, 2)

I pagani sconfitti sono uomini ancora vincenti.

Paideia

Platone sta al centro della seconda tappa dell’itinerario di Werner Jaeger (1888-1961) dentro la forma-uomo ellenica. L’analisi delle opere della «più grande personalità di educatore apparsa nella storia del mondo occidentale» (Paideia. La formazione dell’uomo greco. II Alla ricerca del divino, trad. di A. Setti, La Nuova Italia, 1978, p. 40) permette di penetrare a fondo nella complessità dell’antropologia greca. Essa si fonda sull’assunzione della natura come norma e direzione dell’esistere di ogni ente. L’avventura umana consiste nell’aprire lo spazio di massima libertà consentito dalla struttura finita perché biologica della specie. Solo così si comprendono gli importanti legami e debiti di Platone con la medicina greca. Egli trovò la soluzione più originale al problema che muoveva tutta la cultura arcaica e che ha in Eschilo la sua espressione più chiara: l’uomo che erra lo fa perché indotto dagli dèi e tuttavia non per questo la sua colpa è meno grave. Platone contrappone alla forza di Ate la paideia, che ha come «presupposto la libertà della scelta, laddove il potere del demone appartiene al regno della necessità» (643). È qui che nasce l’individuo europeo e cioè la forma umana che oppone alla comunità, allo Stato, a Dio la propria irriducibilità  di singolo. A coloro, come Popper, che guardano con occhi moderni e prevenuti il progetto platonico, va quindi ricordato che «se lo Stato disegnato da Platone è Stato autoritario, ciò non deve però farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza –inattuabile nella realtà politica- di fare della verità filosofica l’istanza suprema del potere, scaturisce in realtà da un immenso valore dato alla libera personalità spirituale, non già da un disconoscimento di un tale valore» (471-472).
Il fatto è che si sbaglia completamente prospettiva se si guarda al Platone politico separandolo dall’educatore, come anche viceversa. La centralità dell’impulso educativo da cui muove tutta la filosofia platonica è una cosa sola con l’esigenza di trovare una risposta al problema del potere. Fra individuo e comunità, società e psiche, Platone -come Socrate- instaura una dinamica di reciproca dipendenza per la quale l’uomo equilibrato può crescere solo sul terreno di una società giusta e questa è a sua volta frutto della giustizia nella coscienza del singolo. «Realizza il vero Stato nella tua psyché» (Repubblica 592 A-B) è il finale invito di Platone, con il quale l’unità arcaica fra il singolo, la famiglia, il clan, la polis, si spezza definitivamente.

Nonostante tutta l’importanza che attribuisce all’educazione, Platone «non crede alla uguaglianza meccanica dei suoi risultati, ma fa molto conto delle differenze individuali di temperamento» (404), sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale, ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del sapere a un gioco; è convinto, infine, con Socrate, che «l’educazione vera è il risvegliare facoltà che nell’anima sono sopite» (512). Proprio per tutto questo, la paideia si rivolge soltanto a coloro che promettono un qualche esito positivo e non a tutti indistintamente. Solo la prontezza nel capire, delle buone doti mnemoniche e specialmente una vera e propria avidità di sapere, richiedono e permettono la paideia. La selezione è quindi un prerequisito della pedagogia platonica, in modo che –al di là delle differenze di nascita, di classe e di sesso- sia la capace intelligenza della persona il criterio di un’educazione giusta.
Qualunque cosa si pensi della terapia platonica, la diagnosi è di grande verosimiglianza. La sua attualità dipende anche dalla perennità della natura umana, alla quale Platone riconosce la possibilità di cogliere il divino ma anche quella di albergare in sé un male profondo che solo la paideia può contenere. Anche per Platone, come per Nietzsche, l’ordine e la razionalità degli Elleni si ergono su uno sfondo di violenza e di furia. Per entrambi al centro sta il sapere, una scienza gaia, poiché «la conoscenza del significato delle cose è anche la forza creatrice che tutte le guida e le ordina […] e trasforma in un valore positivo tutto ciò che è vita, anche quello che sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia» (297 e 306).
Il filosofo al potere -un progetto intessuto di convinzione profonda e di rassegnata malinconia- non ha quindi nulla di autoritario e neppure di professorale. Il filosofo è l’uomo formato nella paideia.

[Sul primo volume dell’opera: Educare
Sul terzo volume dell’opera: «Quell’antica luce risplende ancora»]

«Questo stato della mente si chiama intelligenza»

Fra le tante ragioni che rendono straordinari i dialoghi di Platone, una delle più significative è che in ciascuno di essi il platonismo si rispecchia ogni volta per intero. Il Fedone risulta anch’esso paradigmatico. «Indagare con la ragione e discorrere con miti» è il suo metodo (61 E; trad. di G. Reale). Entrambi convergono a dimostrare che non tutto muore in quel composto che chiamiamo uomo ma c’è una parte che partecipa soltanto della vita. Il filosofo impara progressivamente a morire fino a non temere più, anzi a desiderare di ricongiungersi finalmente con il divino di cui è parte.
Il giorno stesso in cui viene eseguita la sua condanna, Socrate insegna che la filosofia è esercizio della morte, amicizia con essa. Egli sa ed è certo che l’essere si articola in due forme «una visibile e l’altra invisibile» (79 A) e a esse corrispondono due livelli del comprendere, quello dei sensi che confondono l’essere con il sussistere e quello della mente che invece

restando in sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, in quanto è ad esso congenere, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato della mente si chiama intelligenza. (79 D)

L’intelligenza rivolge la sua indagine a quei paradigmi di cui ogni cosa che è partecipa poiché senza di esse nemmeno sarebbe. Ecco fondata la metafisica, la ricerca del necessario nel contingente, del modello nella copia, dell’eterno nel tempo. Di questo sapere Platone è l’inventore, l’espositore più chiaro, il più formidabile ragionatore, con il quale la cultura europea ha dovuto fare i conti momento per momento, in un confronto che segna la storia del pensiero. Sulle ultime parole di Socrate -«Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!» (118 A)- Nietzsche formula un giudizio ironico e demistificante, scorgendo in esse il nascosto cuore nichilista di chi nell’esistere vede la suprema delle malattie. E tuttavia per Zarathustra come per Platone il sapere del corpo è la danzante armonia dell’essere: «la filosofia è la musica più grande» (61 A). Splendida, folgorante formula della vita.

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